Categoria: Maria Alisia Poggio

  • OLI 276: POLITICA: Viene prima il precario o la crisi?

    L’interrogativo è sempre quello, è nato prima l’uovo o la gallina, aggiungiamoci la disconnessione quotidiana tra realtà e mezzi di comunicazione, tra società e politica, tra politici di diversi schieramenti e addirittura tra quelli dello stesso. Più che disorientato, un essere pensante in Italia è sconcertato. Non si tratta di un’intima scissione, di un caso di schizofrenia individuale, ma di un episodio diffuso a livello di “polis”.
    Basta una giornata, il 14 ottobre 2010, per comprenderlo. Due episodi diversi, ma con protagonisti che parlano la stessa lingua. Roma, Sala Stampa Estera 18.30, presentazione del libro La sfida. Oltre il PD per tornare a vincere. Anche al Nord di Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, con la partecipazione di Walter Veltroni e l’amichevole inaspettata presenza di Marco Follini, invitato a sedersi al tavolo dei relatori, fiammeggiante di flash quanto i fuochi di San Giovanni. L’apprezzabile e curioso beau geste a seguito del forfait del curatore del libro.
    Chiamparino è di poche parole, semplici, parte dall’ultima sconfitta del proprio partito, quella delle regionali piemontesi, e pone l’interrogativo se il PD sia ancora in grado di comunicare con la gente, quale la sua capillarità sul territorio e nei luoghi dove dovrebbe farsi politica. Il titolo del libro, forse un auspicio, richiama la sua ultima campagna elettorale, segnata dallo slogan “Torino con la FIAT, oltre la FIAT”, ci sia augura non sulla linea delle recenti esternazioni di Marchionne a “ Che tempo che fa?”, ma fondandosi su due elementi basilari, eguaglianza ed innovazione.
    È il turno di Walter Veltroni, prende la parola con la forte carica umana che lo contraddistingue da sempre, e dopo gli apprezzamenti amicali, un ricordo delle primarie che si svolsero proprio il 14 ottobre 2007 come grande gesto di democrazia partecipata, evidenzia l’ostacolo che a suo avviso il PD deve saltare a piè pari per poter essere realmente credibile: abbandonare la staticità conservativa, la difesa del presente, che non ha altro effetto che tarpar le ali alle tensioni al cambiamento. Difficile da attuare con una controparte che non assomiglia ad una destra illuminata, come quelle, sebbene col pugno duro, degli anni Ottanta dalla Thatcher a Reagan, ma che piuttosto suggestiona con paure che mantengono lo status quo, favorendo un localismo esattamente opposto alle manifestazioni di autonomia locale che la società civile è in grado di esprimere, come ha provato da dieci anni a questa parte. Ma chi altro ha tentato di ridurre nei ranghi la società civile? Per riguadagnare il terreno perso bisogna rischiare, dice Veltroni, avere il coraggio di utilizzare parole reali, riconoscere nel precario la figura centrale della nostra società, riconoscere pienamente l’immigrato come cittadino. A sentire queste due affermazioni si ha come un capogiro. Da quanto tempo ormai l’immigrato dovrebbe essere considerato un cittadino? Chi ha dato il via a forme contrattuali che hanno favorito il precariato e l’esternalizzazione? Difficile che questi fenomeni si siano autogenerati o siano frutto unicamente di una destra individualista e localistica, la spalla qualcuno gliel’ha ceduta.
    La stessa sera ad Annozero Pier Luigi Bersani, davanti ad un palcoscenico di donne dello stabilimento OMSA, fortunatamente diverse dalle “donne che si arrendono” della canzone di un vecchio spot aziendale, rivendica il primato sulla parola crisi, che il PD non ha mai negato e ribadito da almeno due anni a questa parte. Questo basta a risolvere il problema di quelle donne e di tanti altri lavoratori?
    Precariato chiama crisi, crisi chiama precariato, chi è nato prima? Ha senso rivendicare il primato di una parola quando per tanti anni altre sono state taciute o addirittura allevate da leggi sostenute o non realizzate anche dalla sinistra. Riprendiamoci sì le parole, chiare e forti, ma accanto a loro diamo vita ad una progettualità diversa, fatta veramente di chi opera nella società affiancato da chi può organizzare una rinascita a partire dalla condivisione e non da chi ha le mani nel barattolo della marmellata.
    (Maria Alisia Poggio)

  • OLI 275: POLITICA – La lunga estate delle donne romane

    L’estate delle donne romane è stata lunga e particolarmente afosa. Sembra non dar tregua neanche ai segnali del primo freddo. Come al solito tutto è iniziato sommessamente, il 26 maggio 2010, con la proposta di Legge regionale del Lazio n. 21 del consigliere Olimpia Tarzia. Tra i suoi titoli rammentiamo: Docente di Bioetica, Vice Presidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana, tra i fondatori del Movimento per la Vita, Presidente del Comitato Nazionale per la Famiglia, Presidente del Comitato “Donne e Vita” etc etc.
    La proposta riconosce la famiglia come centro per la promozione della vita e delle relazioni etico-educative, nucleo fondante di nuove realtà consultoriali parallele a quelle territoriali pubbliche-locali e no profit, con le quali la famiglia deve interagire nello spirito della contaminazione della società civile. Anzi, la famiglia è la società civile!
    Scorrendo gli articoli s’intuisce che con famiglia s’intende la coppia canonicamente consacrata dal rito nuziale, non si sa se religioso o meno. Un vago riferimento all’oratorio (art.8) come luogo di aggregazione con il quale il nuovo consultorio familiare dialoga per la maturazione psico affettiva e sessuale dei membri della famiglia, lascia ad intendere qualcosa. La mission della famiglia evangelizzante è la promozione della vita, (art. 13) deve accompagnare e anticipare la possibilità di avvalersi della legge 194/78, tentando di preservare la maternità, facendo ragionare la donna sulle motivazioni della sua scelta personale di abortire, proponendo sostegni economici in una strenua difesa del concepimento. Si citano appositi fondi da dispensare a madri che rientrino in determinate categorie di reddito, prospettando sovvenzioni sino al quinto anno di età del bambino. Consultori familiari e madri dovrebbero essere sostenuti dalla Regione Lazio, quando questa soffre di un buco enorme di bilancio nella sanità e non riesce nemmeno a coprire le necessità del territorio regionale con il numero esiguo di consultori pubblici. Alla sottrazione di fondi pubblici per un’iniziativa privata è proposta l’ormai usuale alternativa (art.17-18): la possibilità di aggregarsi in consorzi (ben vengano se non forzati), cercare sponsor etc. Non una novità per una convergenza storico nazionale in cui i servizi sociali e culturali sono messi a dura prova, se non completamente in dubbio.
    Il provvedimento di legge prevede anche l’istituzione di un comitato bioetico, composto da alcune figure professionali come l’esperto in bioetica, il giurista, il farmacologo etc. Dunque nuovi ruoli professionali, quali le qualifiche per identificarli? Il Comitato bioetico presiede le attività dei consultori pubblici e verifica che i loro servizi siano conformi alle norme bioetiche.
    La minaccia ai consultori pubblici, alla legge 194, alla legge 15/76 in vigore, è stata recepita da diverse realtà, dai sindacati agli stessi consultori, dai comitati femminili a singole adesioni di professioniste, che si riuniscono ormai da luglio alla Casa Internazionale delle Donne. Tutte insieme hanno dato luogo ad iniziative simboliche, continuano a raccogliere firme, hanno incontrato il 4 ottobre scorso Emma Bonino ed altri esponenti di partiti politici che hanno dato sostegno al no nei confronti della proposta di legge.
    Il capitolo non è ancora chiuso, anzi, collocato in uno scenario nazionale in cui le pressioni verso le autonomie regionali, combinate con le forti restrizioni dei loro budget sanitari, può dar vita alle più varie declinazioni. Una legge regionale che scavalca una nazionale, approvata con un referendum popolare, dovrebbe mettere in allerta chiunque. Ancora una volta le donne sono chiamate a difendere diritti ritenuti acquisiti, non solo per interesse diretto, ma per una condivisione reale e nel tentativo di radicare quelli che dovrebbero esser diritti naturali.

    http://www.olimpiatarzia.it/
    http://www.petizionionline.it/petizione/salviamo-i-consultori-della-regione-lazio-dalla- proposta-di-riforma-tarzia/1977
    http://roma.repubblica.it/cronaca/2010/09/22/news/consultori-7324163/
    http://www.radioradicale.it/scheda/312368

    (Maria Alisia Poggio)

     
  • OLI 271: CULTURA – Realtà e futuro davanti a sé: Vittorio Foa

    Pietro Medioli è riuscito giovedì scorso a superare i confini spazio temporali che racchiudono la figura di Vittorio Foa: ha esteso il tavolo della cucina di Formia attorno al quale amici, conoscenti e accompagnatori di amici mangiavano assieme a lui e Sesa Tatò confrontandosi sulle cose della vita. Buttato giù le pareti che circondavano quel vano, cucina, salotto, studio, cuore di una casa aperta a tutti. Per alcune ore la Casa del Cinema di Roma, in cima a via Veneto, all’inizio del parco di Villa Borghese si è trasformata in tutto questo. Seduti alla tavola, come sempre è stato in casa Foa-Tatò, indistintamente, parenti, politici, studiosi, amici, ragazzi di cui ha accompagnato l’infanzia, tanti che l’hanno conosciuto unicamente attraverso le sue parole e i suoi passaggi.
    Il documentario, promosso dalla fondazione Di Vittorio, è stato un viaggio di un’ora attraverso la sua vita tra immagini d’inizio Novecento, inquadrature della Torino d’oggi, eccezionali disegni dal carcere di Ernesto Rossi, filmati della liberazione e della Costituente, l’immancabile cucina di Formia e le montagne amate dall’infanzia della Valle d’Aosta. Tutto questo accompagnato dalle parole di Foa, punteggiate dai suoi “nevvero” e i suoi silenzi carichi di riflessione a non intimorire l’interlocutore, a ricordarci che ascoltare non è solo mezzo per imparare, ma anche per rispettare l’altro da se, vederlo come una risorsa e non un ostacolo. A fargli da contraltare le domande di Federica Montevecchi e Pietro Medioli, i discreti, ma essenziali interventi di sua moglie Sesa.
    Così davanti agli occhi dei partecipanti è corsa una vita lunga un secolo, Foa l’avrebbe compiuto il 18 settembre scorso. Una durata quasi eterna, che non è bastata ai sindacati italiani a comprendere che l’unità non è fatta di sole parole, interessi di categorie e calcoli aritmetici, ma di un impegno morale e politico per se e per gli altri al di là delle differenze, per lo sviluppo di una società comune. Un’unità che non è omologazione, ma che nasce dalla diversità. Ettore Scola intervenendo l’ha ricordato, se il pensiero rimane uguale a se stesso, allora si è persa di vista la realtà, il suo fluire. Vittorio Foa aveva realtà e futuro davanti a sé.
    Quando le luci si sono accese, lasciando gli spettatori con Vittorio davanti alle sue montagne, tutti avrebbero voluto continuare la cena con lui, sentirsi rivolgere una domanda personale ed attenta, interrogarsi sul futuro.
    Potrebbe esserci un dolce a sorpresa, perché non diffondere il documentario nelle scuole, da dove il futuro dovrebbe partire?
    (Maria Alisia Poggio)


    http://tv.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/per-esempio-vittorio-ricordando-foa-uno-dei-padri-della-sinistra/53236?video

  • Oli 268: PUBBLICITA’ – Un altro punto di vista

    Partendo e arrivando nelle stazioni ferroviarie d’Italia da circa un mese ci si sente inspiegabilmente osservati. Sono esseri viventi, in gruppo o da soli, che ci guardano da cartelloni pubblicitari dallo sfondo cupo, senza ammiccare. Uomini e donne, nudi, o forse cani e gatti per via della maschera che indossano? Nessun golden retriever che ispira tenerezza o mellifluo gatto che annusa un patè raffinato, nessun bikini o jeans attillato in zona pubica, ad ostentare i gioielli di famiglia. Semplicemente, naturalmente nudi. Al punto che ci si sorprende a domandarsi chi guardi chi, animale-uomo, uomo-animale. Un ambiguità che nulla ha a che vedere con i baci saffici di alcune patinate pubblicità, che corre invece sul sottile confine tra uomo ed animale. 

    Si tratta di una campagna pubblicitaria di alimenti per animali firmata da Oliviero Toscani. Forse basta quest’ultimo particolare a dar adito a polemiche, insieme alla nudità dei soggetti fotografati. Il Secolo XIX ha recentemente pubblicato una lettera di un gruppo di studentesse e professoresse dell’Istituto Duchessa di Galliera di Genova, infastidite dall’esibizione strumentale del nudo femminile. Su facebook è apparso qualche sparuto gruppo che si oppone all’oscenità della campagna, il dibattito è poi attivissimo sulla pagina facebook della stessa azienda che l’ha commissionata. 
    Proviamo però a guardare la questione da un altro punto di vista, parafrasando lo slogan di questa pubblicità. Senza chiederci quale messaggio Toscani voglia trasmetterci, se le sue immagini ci piacciano o meno, se siano in linea con il prodotto o ci sia invece una relazione strumental-provocatoria. Domandiamoci la ragione profonda del fastidio che evocano. Difficilmente si potrà ravvisare nell’ostentazione di un corpo nudo, quando ormai curve ed avvenenza, nel bene e nel male, sembrano diventate essenziali elementi del successo in ogni campo. Il turbamento nasce laddove scorgiamo in quei corpi con i volti coperti una naturale ferinità che ci appartiene, ma che rifuggiamo. Perfettamente complementare alla pratica quotidiana dell’umanizzazione degli animali domestici, la ferinità, nella sua accezione positiva, non feroce, è un punto di incontro tra noi e loro, una comunanza sulla quale fondare il rispetto della natura e degli esseri che reciprocamente la abitano. 
    La maturità, non solo sessuale, par essere inversamente proporzionale alla sua esibizione…
    (Maria Alisia Poggio)
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  • OLI 258: STORIA – L’orizzonte transnazionale

    Ad ogni popolo la sua nazione e ad ogni nazione il suo popolo! Assunto che sembra appartenere a La Repubblica di Platone, logico quanto la geometria euclidea. Connubio fondato sull’epica narrazione della storia dei popoli. In realtà idea che risale all’epoca moderna e vede nel XX° secolo, con la conclusione dei due conflitti mondiali, la definizione in strutture statali dai confini geopolitici ridisegnati o assegnati ex-novo.
    Il 17 aprile scorso per La Storia in Piazza, dinnanzi ad una gremita sala del Gran Consiglio del Palazzo Ducale di Genova, Beshara Doumani, professore di storia all’Università della California di Berkley, e Shlomo Sand, professore dell’Università di Tel Aviv, hanno provato a scardinare l’equivalenza popolo-nazione partendo dalla più emblematica situazione internazionale, Israele, Palestina e i rispettivi abitanti.
    Doumani ha focalizzato il suo intervento “The Ironies and Iron Law of Palestine and Palestinians”, sulla situazione paradossale (Ironies) vissuta dal popolo palestinese, che ha subito la sua prima sconfitta in coincidenza della dichiarazione dello stato palestinese. I palestinesi si sono scoperti popolo nell’accezione moderna del termine solo nel 1948, dopo l’ufficializzazione della nascita della Palestina. Da allora sino ad oggi i suoi confini murati si sono chiusi progressivamente nell’assurdo di uno stato non governato dai suoi abitanti, sui quali vigono leggi inflessibili (Iron Law), senza che venga loro riconosciuto alcun diritto. Un’esposizione chiara, accompagnata dall’evidenza di una serie di diapositive. L’uditorio poteva facilmente presagire una chiusura nei confronti dell’altro interlocutore.
    Shlomo Sand esordisce dichiarando I’m from Israel. Rafforza, I’m Israeli. E da lì, sorprendentemente, muove nella direzione di Doumani. Il punto di partenza, illustrato nel suo The Invention of the Jewish People, è diverso: l’invenzione del popolo ebraico e, come alterità, quella del popolo palestinese. Ritiene che attribuire l’appellativo popolo agli ebrei sia un falso storico, emanazione del pensiero sionista, sorretto sull’evidenza non scientifica della Bibbia. Parte dal principio che un popolo si possa definire tale su comuni basi linguistiche, religiose, di tradizione e di sangue. Solo la religione poteva accomunare ebrei nordafricani ad ebrei ucraini. Fondandosi su una particolare interpretazione della diaspora e della storia dei popoli fuoriusciti, sostiene che sarebbe più facile rintracciare origini ebree nei palestinesi. La religione è l’identità di popolo che rende Israele nazione degli ebrei del mondo e di Woody Allen, più che degli israeliani stessi. Dunque una democrazia negata. Tesi molto dibattute quelle di Sand, volte a sostenere l’idea di Israele stato di tutti i suoi cittadini, ebrei ed arabi. Contestate, non nella positiva conclusione, da alcuni studiosi, tra i quali Anita Shapira, come artificiale riscrittura della storia. Salutate positivamente da altri, tra i quali Eric J. Hosbawn.
    Forse la retorica storica sulla quale si sostiene una nazione è una delle tante possibili. Sicuramente il suo vuoto è rischiosamente sostituibile con altre ancor più negative. La storia ce l’ha dimostrato. Quale antidoto per il futuro? Doumani e Sand sono d’accordo nel partire dalla critica dell’identità nazionale. Doumani ricorda che i palestinesi si trovano nella condizione più difficile e simbolicamente globale: l’assenza totale di diritti. Il linguaggio politico attuale non coglie che superficialmente la situazione. Solo un orizzonte transnazionale, forse tra qualche generazione, potrà comprenderla e superarla. Sand conclude con un’immagine proposta ai suoi studenti. Siamo su una macchina che corre all’impazzata senza modo di fermarsi. I vetri sono sporchi delle lordure della storia, Pol Pot, Stalin etc. ad impedire la vista. Il tergicristalli non funziona. Per andare avanti possiamo solo guardare nello specchietto posteriore. Ci dirigiamo verso la catastrofe.
    È possibile che le future generazioni inventino qualcosa per fermare la corsa? Uno studente risponde di no, ma aggiunge, possiamo spaccare un finestrino…
    (m.a.p.)
  • OLI 258: CITTA’ – Busvia: alla ricerca di una alternativa

    Venerdì sera le luci a festa venivano incontro a chi andava verso la chiesa di San Gottardo, restituendo un’immagine che sapeva di vigilia di Natale. L’umidità circostante ricollocava l’atmosfera in primavera. Nella sala sottostante la chiesa, all’incirca duecento persone hanno risposto all’invito dei comitati del “No busvia” in Valbisagno ad assistere alla presentazione di un progetto di viabilità alternativo, sviluppato da un gruppo di studenti della Facoltà di Architettura dell’Università di Genova, guidati dall’ing. Troilo, ordinario di architettura dei sistemi di trasporto.
    Il gruppo di lavoro si è domandato che cosa porta un cittadino a prediligere il mezzo privato rispetto a quello pubblico. La risposta è stata la disponibilità continua del proprio automezzo. Perché avvenga la transizione da mezzo privato a quello pubblico è necessario ridurre i tempi di attesa ed incrementare la flessibilità di quest’ultimo. Così nasce questo progetto di viabilità sull’alveo del Bisagno con navette automatizzate sempre disponibili nelle aree delle fermate, alla stregua del Personal Rapid Transit (PRT), che collega Heathrow a Londra. L’idea è stata sviluppata in circa quattro mesi di lavoro, dunque non definitiva, ma fondata su un’analisi accurata della valle dal punto di vista demografico, geomorfologico, non trascurando la criticità idrica del torrente che la solca e l’influenza delle valli attigue.
    I people mover sembrano rappresentare una delle alternative possibili per la viabilità della zona. E’ stato un peccato non ascoltare nella stessa serata altri progetti. Sicuramente il confronto tecnico con Troilo, che non ha voluto entrare nel merito del dibattito politico, sarebbe stato efficace e costruttivo. Gli interventi invece si sono assestati nello spazio tra doverosa opinione e preoccupazione personale, inframmezzati in alcuni casi da parole di intolleranza e malcelate interpretazioni politiche. Un contraltare non felice alle passate altrettanto infelici esternazioni dell’amministrazione cittadina.
    Al movimento “No busvia” va il merito di aver riportato l’attenzione cittadina su una valle bistrattata, risvegliato la partecipazione degli abitanti con iniziative vivaci (gli aperitivi sulle strisce pedonali sono degni delle performance del Living Theatre), ed anche quello di aver riattivato gli storici comitati di quartiere. Non mancano preoccupazioni comuni tra queste realtà, ad esempio la rimessa AMT dell’area Gavette collocata sotto il complesso scolastico di via Lodi.
    La riuscita di un’alternativa per questa valle si gioca anche sul dialogo tra i diversi comitati, al di là di una frammentazione corporativistica.
    (m.a.p.)