La cronaca quotidiana del caso di Elena, la bambina morta dimenticata in auto sotto il sole, riempie televisioni e giornali in due momenti specifici del dramma: la morte prima, compensata dalla vita donata ad altri bambini dopo. Con dovizia di nomi di ospedali e di chirurghi presi dai comunicati stampa, in questo articolo di Lettera 43 si comincia a porre la prima pietra di quella che si concluderà, in un articolo di Repubblica, come una violazione palese della privacy dei riceventi. Infatti sono messi in contatto donatore e riceventi attraverso il giornalista che svela l’identità dei due soggetti, contro gli obblighi della legge italiana, citando il nome e cognome del bambino ricevente, oltre a quello di Elena. Le interviste che si trovano in rete alla mamma di Elena, che perdona il marito, e ai genitori di Tommaso, che ringraziano per la donazione, concludono il normale percorso del caso “donazione” tipico della stampa italiana.
AIDO (Associazione Italiana Donatori Organi) nella persona di Rossella Pietrangeli della sede di Roma conferma che per legge le generalità di donatori e riceventi devono restare accuratamente segrete. Lo scoop giornalistico ha quindi violato bellamente una norma non solo intransigente, ma anche logica nella sua etica, senza che né l’Ordine dei giornalisti né alcun altro organo di controllo se ne accorgessero. Tantomeno l’Ordine dei medici, in quanto è evidente che le informazioni potrebbero essere fuoriuscite solo dagli ospedali dove sono state effettuate le operazioni chirurgiche. Al di là della legge, non è comunque buon giornalismo sfociare nel pettegolezzo, svelando identità che sono inutili ai fini della cronaca, per cui segnaliamo con vigore anche al Direttore di Repubblica, Ezio Mauro, l’operato del suo giornalista.
(Stefano De Pietro)
Categoria: PRIVACY
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OLI 314: PRIVACY – La legge sulle donazioni d’organo non vale per la stampa
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OLI 292: PUBBLICITA’ – Eni, convincere od obbligare ?
Sta accadendo da tempo su molte testate web che sopra il giornale appaia una “finestra” indesiderata di pubblicità quando si apre la pagina iniziale del giornale. Una volta queste pubblicità si chiamavano pop-up, oggi sono state sostituite da tecniche che aggirano i software di sicurezza ma ne mantengono lo scopo, quello di far apparire alla vista del lettore qualcosa che non desiderava, in un momento di massima attenzione visiva. E’ sicuramente una cosa sgradevole, ma fino a qui si tratterebbe di una lotta di furbizia confinata all’interno di quella discrezione che deve comunque accompagnare la pubblicità (convincere ma non obbligare), con la possibilità di eludere rapidamente il messaggio chiudendo la finestra con la classica “x” che viene posta in un qualche angolo dello schermo, prima che la stessa lo faccia da sola passato un determinato tempo. Così che il lettore, dopo un iniziale fastidio, si sente liberato e può considerare questa piccola intrusione come un qualcosa di necessario, per mantenere il web gratuito, per consentire al giornale di finanziarsi, insomma, alla fine, che la pubblicità abbia uno scopo “buono”. Mai un servizio come Facebook o Google Ads di sognerebbe di fare quello che ha fatto, invece, Eni.
Infatti, la nostra primaria azienda nazionale propone una pubblicità sibillina, che è stata in onda sul sito del Secolo XIX per alcuni giorni partendo dal 2 febbraio 2011. La sua finestra ha sì la “x” presente in bella vista al solito angolo, ma è finta e non serve affatto a chiudere la finestra, ma come trappola per saltare direttamente al sito web dell’offerta (che non viene qui linkata come nostro solito per “pena del contrappasso”). Sembra insomma che abbia voluto puntualizzare che il proprio comportamento è sempre e comunque scorretto, inadatto, incurante degli altri fin dei propri consumatori/clienti.
Peggio: con questa tecnica un utente inesperto, cercando di levarsi di torno il sito Eni apparso in modo inatteso, finirà per chiudere anche quello del giornale, restando disorientato. Un doppio effetto negativo, per Eni, che riceverà le maledizioni del consumatore, e per il giornale, che non controllando le funzionalità “maleducate” dei suoi inserzionisti lascerà un’alea di incompetenza se non di complicità da parte della propria direzione. Sarebbe auspicabile un comportamento più attento da parte della stampa, anche perché sono i loro direttori responsabili i possibili target di azioni legali volte a tutelare il diritto delle persone di non essere costrette a vedere una pubblicità.
Una violenza paragonabile ad una specie di sequestro “a scopo pubblicitario” che si riscontra anche quando ci si reca al cinema, nei multisala, dove l’orario di ingresso è tassativo, ma solo per essere presenti davanti al megaschermo 3D all’inizio dei (minimo) 15 minuti di pubblicità obbligatoria che ci si deve sorbire senza alcuna possibilità di fuga. Ma non dovrebbe esserci la libertà di scelta in Italia? Il pubblico si lamenta, ogni volta dopo 10 trailer iniziano i primi commenti a voce alta, poi qualche fischio. Sarebbe utile un’iniziativa legale in tal senso, anche a tutela dei minori messi di fronte a immagini violente, sunto di altre pellicole non certo adatte ai bambini che sono in sala per assistere a ben altra proiezione.
A conclusione, è intanto partito un messaggio al sito di Eni, per lamentarsi della stupida furbizia usata per “costringere” a leggere la pubblicità. Come ci si aspettava, ad un mese dall’invio ancora nessuna risposta, a conferma della cecità di questa azienda italiana, una volta simbolo del “buon made in italy” ed oggi ridotta a elemosinare qualche “hit” sul suo sito attraverso uno stratagemma un po’ troppo furbesco.
(Stefano De Pietro) - 
		
		
OLI 275: SOCIETA’ – Le leggerezze di un pm
Facendo i debiti scongiuri, se qualcuno vi rubasse la chiave di casa e vi entrasse facendoci un semplice giro uscendone senza danneggiare nulla, questo sarebbe considerato una violazione di domicilio. Aggiungendo a questo la rottura di un televisore, qualsiasi sentenza comporterebbe in aggiunta un reato di danneggiamento, con relativo danno per il ripristino del bene danneggiato. Se il bene danneggiato fosse un bel “puzzle” appeso al muro, al valore del gioco dovremmo aggiungere un “costo” delle ore di impegno necessarie per montarlo, valutabili in chissà quale modo.
Quindi non si riesce a capire come mai una persona che ha subito il danneggiamento di un proprio “puzzle” personale su Facebook (la sua casa di Pet Society), costruito con centinaia di ore davanti al PC e spendendo soldi nei negozi virtuali della rete, debba subire il doppio scorno della richiesta di archiviazione da parte di un pubblico ministero. Perché è questo che sarebbe successo ad una persona di Palermo, la cui vicissitudine è stata riportata da diversi quotidiani (*).
Lascia sconcertati che un pm non sia stato in grado di riconoscere un reato così evidente, previsto in termini espliciti dalla legge, che comincia con il furto della password per finire con una casa vuota, anche se virtuale, e nemmeno di capire che, oggi, i beni possono essere anche dematerializzati, possono consistere in un archivio di musica, di film regolarmente acquistati su un supporto diverso dai classici CD. E possono consistere anche nell’idea di possedere qualcosa per la quale si è pagato denaro sonante (più o meno, vista la dematerializzazione anche di quest’ultimo): è il caso di Pet Society.
Per fortuna che il giudice per le indagini preliminari ha invece accolto l’opposizione agguerrita degli avvocati della danneggiata, disponendo l’indagine della polizia postale per individuare il colpevole. E se riusciranno a trovarlo, lo scherzo costerà caro al nostro Lupin virtuale, vista la somma di reati ascrittigli, dal furto d’identità fino al danneggiamento: tutti reati penali.
Un’osservazione più tecnica a piè d’articolo: il termine hacker usato dall’Ansa (l’agenzia stampa dalla quale la notizia deriva) è usato in questo caso in modo errato, in quanto per i pirati informatici che creano danneggiamenti è in uso un termine diverso, cracker. Hacker è colui che non abusa della propria capacità ma, anzi, spesso la mette a disposizione proprio per il miglioramento dei sistemi di difesa informatica.* http://www.ilsecoloxix.it/p/magazine/2010/10/22/AMvxIxAE-facebook_svaligiata_inchiesta.shtml
* http://www3.lastampa.it/costume/sezioni/articolo/lstp/369891/(Stefano De Pietro)