Categoria: MIGRANTI

  • OLI 277: FESTIVAL DELLA SCIENZA – I piccoli futuri italiani che amano la Torre di Pisa

    Festival della Scienza. Un laboratorio prevede che i partecipanti, bambini e ragazzi delle medie, disegnino una carta geografica secondo le loro conoscenze. Gli animatori stimolano i giovani partecipanti “Che luogo conoscete, che città avete visto, che cosa immaginate?”. Animali, monumenti, bandiere, mostri, paure e la lavagna si popola.

    I bambini di una tra le prime classi si siedono rumorosi sul tappeto, e sulla carta piazzano innanzitutto i continenti. Molto piccoli, di prima elementare, hanno una geografia un po’ confusa ma colorata e piena di spunti per capire il loro mondo. “Cosa ci mettiamo sulla nostra mappa, bambini?”. Uno gnomo dalla felpa grigia si alza e dice “Mettiamo la Francia” “E dove” incalza l’animatore “In Europa”.”Altri posti?” “La Spagna!-in Europa” “La Germania – in Europa”.

    Una maestra interrompe il gioco e si rivolge ad un altro scricciolo dal nome e dall’aspetto esotico e gli propone “Mettiamo sulla carta il luogo da cui provengono i tuoi genitori, Mukesh?“ e lui risponde “Ah si, l’India” e con il pennarello disegna una bella India tra la Francia e l’Italia, nel bel mezzo d’Europa…

    Nella stessa giornata, un altro bambino patito di geografia e proveniente dal Sudamerica, sui nove anni, scalpita. “Cosa vuoi disegnare, Juan? Un monumento del tuo Paese?”. “Si, risponde il bimbo, con un sorriso “la Torre di Pisa!”.

    Qualche turno dopo un altro bambino, sempre di sei, sette anni, decide di disegnare qualcosa sul continente da cui è arrivato, l’Asia: è un posto in cui è stato da poco ed ha visto degli enormi ottovolanti: si chiama Gardaland…”.

    Caso complicato, con una ragazzina cinese un po’ più grande: qualche difficoltà di lingua, tanta timidezza, ai suoi compagni che le chiedono di disegnare il suo paese o qualcos’altro, risponde che lei non sa niente, non conosce nulla, non sa disegnare e non le piace nulla. Verso la fine del laboratorio però si alza e disegna un po’ imbarazzata la cosa che le è venuta in mente: la Torre di Pisa.

    Sembra proprio che queste terze generazioni, questi giovani studenti abbiano ben chiaro qual è il loro Paese e si riconoscano in esso, nella sua lingua, nei suoi luoghi e monumenti. Peccato che non si possa affermare il contrario, visto che il Paese – con le sue leggi miopi – non li riconosce come propri cittadini.

    (Eleana Marullo)

  • OLI 275: IMMIGRAZIONE – Puglia, la Corte Costituzionale da ragione a Vendola

    Il Presidente del Consiglio aveva chiesto l’intervento della Corte Costituzionale sollevando la questione di legittimità di alcune disposizioni della Legge Regionale Puglia sull’Immigrazione (L. 22/2010). La sentenza della Corte Costituzionale n.299 del 22 ottobre 2010 ha dato ragione all’operato della Regione governata da Vendola su almeno tre questioni importanti:
    1) Il Testo Unico sull’immigrazione garantisce l’assistenza sanitaria gratuita agli immigrati irregolarmente soggiornanti per le cure urgenti o essenziali, anche a carattere continuativo, e prevede inoltre che a loro sia rilasciato un tesserino con il codice STP (Straniero Temporaneamente Presente). La legge pugliese prevede che gli assistiti con il codice STP abbiano diritto alla scelta del medico di base. Il governo ha protestato contro questa misura non prevista dalle disposizioni nazionali ma la Corte Costituzionale ha dichiarato legittima questa disposizione.
    2) Il governo, modificando il Testo Unico sull’immigrazione, con la legge 132/2008, ha escluso i cittadini dell’Unione Europea (ad esempio i romeni) non iscritti all’anagrafe dall’assistenza sanitaria gratuita di cui fruiscono i cittadini non europei irregolarmente soggiornanti. La legge pugliese invece prevede per i cittadini appartenenti all’Unione Europea privi dei requisiti per l’iscrizione al sistema sanitario l’assistenza gratuita con il codice ENI (Europeo Non in Regola) con le stesse modalità per l’attribuzione e l’accesso alle prestazioni previsti per i cittadini irregolari non appartenenti all’Unione Europea assistiti con il codice STP. Berlusconi ha protestato ma la Corte Costituzionale ha dichiarato legittima anche questa disposizione.
    3) La Legge Regione Puglia n. 22/2010, infine, usa la vecchia formulazione del Testo Unico, cancellata dalla modifica governativa, per stabilire che “le disposizioni della legge regionale si applicano qualora più favorevoli anche ai cittadini appartenenti all’Unione Europea”. Una norma di buon senso che non è piaciuta al governo Berlusconi, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale; e la Corte, anche in questo caso, ha dichiarato la legittimità della norma.
    Tre provvedimenti di diritto, di buon senso, di civiltà e di provata costituzionalità che insieme all’iscrizione a tempo indeterminato al Sistema Sanitario Regionale degli immigrati regolari (vigente sempre in Puglia) attendono di essere adottati dalla Regione Liguria e dalle altre Regioni di centro sinistra.
    (Saleh Zaghloul)
     
  • OLI 271: MIGRANTI – I quiz sono incomprensibili e la patente diventa un miraggio

    L’italiano è morto. La punteggiatura è ormai generata dal caso. I congiuntivi defungono, giorno dopo giorno, l’uso comune ha dimenticato, in un processo irreversibile, migliaia di vocaboli e si è ridotto alle quattro parole ripetute senza tregua dalla Tv.
    Esiste una sola isola, arcaica e tutelata per legge, dove vigono, anzi proliferano a sproposito, arcaismi, termini obsoleti e periodi lunghi con infinite subordinate: i quiz per l’esame teorico della patente B.
    Questa giungla di termini, sinonimi, veri e propri test di logica e trabocchetti linguistici è piuttosto ostica già per gli italiani; la situazione si complica se, a dover affrontare l’esame, sono degli stranieri, magari con una buona – od ottima – competenza linguistica, ma inermi di fronte alle trappole dei quiz.
    Fino al settembre 2006 era possibile per gli stranieri sostenere la prova d’esame teorico come orale, con quattro domande, che sostituivano la paginata di quiz. Successivamente una modifica del Codice della strada ha eliminato questa possibilità, introducendo l’esame informatizzato e la possibilità di impostare sette differenti lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, cinese e arabo). Detta così sembrerebbe la soluzione ottimale.
    In realtà non è tutto facile come sembra. Alcune traduzioni in lingua sono meno comprensibili del pur astruso italiano ministeriale: per la lingua araba, ad esempio, la traduzione adatta per un marocchino spesso non è comprensibile per un libanese, la varietà linguistica regionale non è presa in considerazione e le traduzioni in alcuni casi non sono esatte, rendendo difficile rimanere entro il margine dei quattro errori.). L’esame diventa un ostacolo insormontabile se si conosce sommariamente l’italiano e solo qualche dialetto escluso dal ventaglio di lingue ammesse per il test. Vedi il caso degli indiani del Punjab residenti nella provincia di Piacenza, che nel 2009 hanno risolto il problema acquistando patenti contraffatte (http://www.atopiacenza.it/Allegati/Eventi/2009.08.27_PRO43_2782009-123757.pdf .
    Il Codice della strada è stato aggiornato di recente, lo scorso agosto, ma nessun intervento si è posto il problema di questa situazione, per la quale il tasso dei bocciati tra gli stranieri, all’esame di guida, è molto più alto rispetto agli italiani, e non per carenze sulla conoscenza delle norme ma per il gap linguistico.
    Se nell’esame per la patente gli stranieri devono essere equiparati agli italiani (come non avviene, purtroppo, in molti altri casi, come alcuni concorsi pubblici, il famoso “bonus bebè”, i bonus vacanze, tanto per citare qualche caso spicciolo), perché non rimodernare i quiz, sciogliendo le formule complicate, le doppie negazioni e le trappole logiche, sostituendo i termini desueti? Si otterrebbe un oggetto in grado di selezionare i futuri guidatori in base alla reale conoscenza del codice stradale, anziché su parametri linguistici. E forse ne gioverebbero anche gli italiani.
    (Eleana Marullo)

  • Oli 268: MIGRANTI – Un appello disperato dalle carceri libiche

    29 giugno: la rivolta di un gruppo di eritrei rinchiusi nel carcere di Misratah, in Libia, viene sedata con la carica della polizia.

    Come conseguenza, duecentocinquanta persone, migranti in cerca di asilo politico, sono deportate nel carcere di Brak, nel deserto libico, attraverso gli ormai noti carri-container. I profughi eritrei sono sottoposti a trattamenti degradanti e rischiano di essere rimpatriati nel paese d’origine, dove rischiano la vita, oppure di essere dispersi nel deserto (pratica tutt’altro che inusuale per la polizia libica).

    I prigionieri sono riusciti a far conoscere la loro situazione tramite un sms, ripreso poi da L’Unità (2 luglio) “Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non vogliamo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate” .
    Alcune delle persone rinchiuse a Brak sono tra i richiedenti asilo ricacciati verso le coste libiche durante i respingimenti collettivi, approvati dal parlamento nel 2009.
    Al momento i media continuano ad ignorare la situazione, tranne alcune eccezioni (L’Unità, GR3, RaiNews24 e un trafiletto su Repubblica del 6 luglio). Ma da più parti prendono vita iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e richiedere l’intervento del governo: la lettera agli italiani di Dagmawi Yimer (tra gli autori di “Come un uomo sulla terra”), l’appello de L’Unità, e quello degli scrittori Lucarelli e De Cataldo, che si conclude così: “Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire”.
    E’ previsto un sit-in giovedì 8 luglio alle 17, davanti a Palazzo Chigi.


    http://www.terrelibere.org/terrediconfine/4025-la-sala-di-tortura-di-brak-l-altro-volto-degli-accordi-italia-libia

    http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=19803


    (Eleana Marullo)

  • OLI 262: MIGRANTI – Famiglie in movimento

    “Non si può più parlare di famiglia. Si deve parlare di famiglie, al plurale, perché c’è ormai una pluralità di famiglie: eterosessuali, omosessuali, di fatto, oppure fondate sul matrimonio. Il legislatore però fatica a prenderne atto”. Queste parole di Giovanna Savorani, presidente dei Corsi di laurea in Servizio sociale presso la Facoltà di Giurisprudenza, introducono la presentazione del libro “Famiglie in movimento” (*). Ad ascoltare un’aula piena di ragazze – tra loro anche qualche ragazzo – che studiano per diventare assistenti sociali. Una professione, dice la docente, che deve proporsi azioni “leggere, complesse, preventive, riparative”.
    L’iniziativa della presentazione di questo libro agli studenti nasce da una collaborazione tra il Centro Studi Medì – Migrazioni nel Mediterraneo (http://www.csmedi.it/) e la Facoltà di Giurisprudenza.
    Oggetto della ricerca, basata su 300 interviste a donne migranti in Liguria e curata da Maurizio Ambrosini e Emanuela Abbatecola, sono le “molte” famiglie migranti, che contraddicono il formato unico che alcuni vorrebbero proporre come modello di una inesistente normalità. Emerge la figura delle madri “transnazionali”: il 53 % ha tutti i figli in patria, il 7 % ne ha un pò qui e un po’ in patria, il 40 % è riuscita a ricongiungerli. Ma anche in questo caso, quello apparentemente più favorevole che noi vediamo come una storia “a lieto fine”, la realtà è variegata e complessa, e Ambrosini avverte: “Si tratta sempre di un nuovo, difficile inizio che va progettato, seguito, curato, e che può avere esiti imprevisti e lontani dalle aspettative”.
    Anche quando il ricongiungimento va in porto tra le mani non c’è più quello che si aveva quando si è partiti. Per arrivarci – se ci si arriva, e se lo si desidera davvero – sono necessari in media non meno di sei, sette anni, di cui almeno due per conquistare il permesso di soggiorno. A proposito: solo il 15 % delle intervistate è potuto entrare in Italia con un regolare titolo di soggiorno, e tanto valga per tutti quelli che continuano a distinguere tra “regolari buoni” e “clandestini cattivi”.
    Nell’aula attenta le ricercatrici (oltre ai due coordinatori già citati: Deborah Erminio, Francesca Lagomarsino, Maria Grazia Mei) propongono dati e frasi raccolti nel corso della ricerca che offre una visione complessa e per nulla scontata di questa realtà sociale. L’80 % delle donne intervistate sono venute in Italia da sole e sono loro, quando decidono di farlo, ad attivare i ricongiungimenti col coniuge e con i figli. Questo aprire la strada della emigrazione appartiene soprattutto alle donne sudamericane e dell’Est Europa. Mi chiedo quanto questo protagonismo nella immigrazione sia conseguenza, e quanto incida, sui cambiamenti della condizione culturale e sociale delle donne. I dati della ricerca offrono molti spunti per riflettervi. Nel corso della emigrazione il 31 % dei legami familiari si spezza definitivamente, ma queste rotture, prevalentemente, non derivano dal fatto che l’emigrazione è un processo destabilizzante: “In realtà sembra soprattutto vero l’inverso, l’e migrazione rappresenta un’opportunità socialmente legittimata per porre fine ad un’unione matrimoniale che non funziona più. Su 93 donne separate / divorziate 86 erano emigrate da sole … solo 6 sono venute al seguito dei coniugi”.
    Ma oltre al coniuge ci sono i figli, e qui si arriva al nodo: “Le madri sono schiacciate da processi di colpevolizzazione e di auto – colpevolizzazione” perché non vi è nessun riconoscimento sociale del fatto che riescano ad inviare ai figli rimasti in patria mediamente 300 euro al mese, un terzo dello stipendio, “Le madri non vengono considerate procacciatrici di risorse materiali. A loro si chiede la cura e l’affetto”. Quindi un padre che emigra continua ad essere un buon padre, mentre una madre che emigra è “una madre che abbandona”. In realtà i figli non sono abbandonati, ma curati da una rete familiare costituita soprattutto da donne (nonne, zie).
    Rapporti tenuti vivi da rimesse economiche, regali, telefonate, e rientri in patria in media ogni due anni, aprono riflessioni sul potere o non potere essere madri quando non si può essere fisicamente presenti, e sui nuovi ruoli nella famiglia allargata che in assenza della madre si prende cura dei suoi figli: “Si può essere buone madri anche a distanza. La richiesta di una presenza fisica deriva da una concezione paternalistica”. Ma quello che domina è ancora la censura sociale, e le madri stesse hanno di sé una “immagine filtrata dallo sguardo degli altri”. Emergono strazianti rivelazioni delle rotture che si sono compiute: i figli che non ti chiamano più mamma, che non riconoscono più la tua immagine nella fotografia che hai mandato, le conversazioni telefoniche sempre eguali, tu stessa che incontrando all’aereoporto la figlia improvvisamente cresciuta ti accorgi che ti è estranea, che non provi per lei la prescritta emozione di amore: “la separazione è come quando si incrina un vetro, anche se è apparentemente intatto ha una frattura che non si sana”.
    Una donna però rompe l’inconfessabile tabù della “madre che abbandona” e dice “ … Io non avevo nessuna intenzione di ricongiungermi …”. E’ una sola voce esplicita dietro cui probabilmente vi è una realtà più diffusa, che viene percepita dalla rete familiare che osserva le assenze sempre più prolungate, i ritorni differiti “Forse aveva proprio voglia di partire … “.
    A conclusione dell’incontro Ambrosini si guarda intorno nell’aula universitaria affrescata, e osserva: “Siamo circondati da simbologie legate alla famiglia. Possiamo quindi capire l’influenza di ciò sulla nostra cultura, e la fatica che implica la de-costruzione di questo modello. E’ importante ragionare sulle rappresentazioni. La ricerca ci aiuta a leggere più lucidamente al realtà”. Che bella lezione!
    (*) “Famiglie in movimento – Separazioni, legami, rinnovamenti nelle famiglie migranti” a cura di Maurizio Ambrosini e Emanuela Abbatecola. Ed. Il Melangolo. – La ricerca è stata finanziata dall’Assessorato alle Politiche Sociali della Regione Liguria.
  • OLI 257: MIGRANTI – Ambulanti e vigili: dettagli di un safari

    La notizia è comparsa sui giornali dell’11 aprile (Corriere Mercantile, La Repubblica ed. Genova; Il Giornale Ed. Genova): un blitz di alcuni agenti in borghese contro una anziana venditrice abusiva orientale seduta con i suoi cartoni di braccialetti e occhiali in Via Ponte Reale. Secondo alcuni passanti gli agenti sono in borghese, non identificabili, il loro modo di rapportarsi alla ambulante è aggressivo. La loro protesta e richiesta di spiegazioni resta senza risposta, da qui la decisione di telefonare al 112, per far intervenire una pattuglia di Carabinieri. Alla fine tutti, cittadini ed agenti, vengono identificati, e si accerta che “l’operazione” era condotta dalla Polizia Municipale. L’ambulante scappa, pende sui cittadini che si sono intromessi una accusa di favoreggiamento. L’assessore Scidone dichiara di aver dato mandato all’Avvocatura del Comune di valutare l’ipotesi di un danno alla immagine per il corpo della Polizia Municipale, difende l’operato degli agenti di cui è certo che non possano aver agito con violenza o animati da sentimenti razzisti, e aggiunge che “non si può interrompere il lavoro della Polizia Municipale con motivazioni pretestuose, mettendo tra l’altro in pericolo l’incolumità dei passanti, perché sappiamo che quando gli abusivi fiutano il pericolo scappano travolgendo tutto e tutti”. Solidarietà agli agenti anche da parte delle associazioni di categoria degli ambulanti regolari: Anva Confesercenti e Fiva-Ascom, che affermano che l’abusivismo va debellato, e sottolineano che dietro agli ambulanti irregolari stanno organizzazioni illegali che li sfruttano.
    Quello che manca in queste cronache, per altro puntuali, sono alcuni “dettagli” che leggo in una mail del gruppo Vivoilcentrostoricovivo, scritta da Cesare Gobbo che, con altre persone, è stato protagonista dell’episodio. Dietro sua autorizzazione, riporto: “Tre persone non identificabili aggredivano una ambulante probabilmente cinese, strattonandola e strappandole di mano un paio di cartoni contenenti occhiali da sole e braccialetti di stoffa … ad una nostra richiesta di identificarsi ci veniva risposto: ‘chi cazzo siete voi … fatevi i cazzi vostri … siamo della Guardia di Finanza’”.
    Beh, questa narrazione contiene “dettagli” essenziali a interpretare l’episodio. Il punto non è la legittimità di una azione di controllo, ed eventualmente di repressione, di un comportamento illecito, ma la gratuita mancanza di rispetto con cui questa azione di controllo viene eseguita. Perché una anziana signora cinese sottoposta a un controllo deve essere “strattonata”? Perché a dei passanti che chiedono chiarimenti non si può rispondere in termini anche asciutti, ma corretti? Dove sta questo ricorso al turpiloquio e alla menzogna? Perché nascondersi dietro la Guardia di Finanza?
    La mail prosegue osservando: “Non reputando tali metodi ascrivibili a forze dell’ordine abbiamo chiamato il 112”. I metodi, denunciati dal Sig. Gobbo, possono essere considerati indipendenti dalla nazionalità e dalla condizione sociale della signora cinese? Non credo proprio. Ma allora questo si chiama razzismo. La mancanza di rispetto verso i cittadini interventisti viene di conseguenza.
    Sullo sfondo la drammatica, quotidiana farsa da guardie e ladri tra venditori ambulanti e forze dell’ordine: le contrattazioni coi turisti improvvisamente si increspano come per una raffica di vento, i lenzuoli vengono annodati, i venditori si disperdono, poi passato il controllo, la superficie del lago si ricompone. Un lago fatto di ostacoli alla regolarizzazione degli immigrati, e di leggi draconiane applicate con discrezionalità. Lo Stato di diritto è lontanissimo.
    (p.p.)