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| 26 marzo 2016, nel comune di Roccavignale (SV), lungo la strada tra Millesimo e Montezemolo. |
(Ferdinando Bonora – fotografia dell’autore)

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| 26 marzo 2016, nel comune di Roccavignale (SV), lungo la strada tra Millesimo e Montezemolo. |
(Ferdinando Bonora – fotografia dell’autore)
“Benvenuti nel centralino automatico del Comune di Genova. Per ricerca cognome e nome, dica o prema: 1; per gli uffici comunali: 2; per centralino: 3; per parlare con l’ufficio relazioni con il pubblico: 4”.
Così risponde da anni una voce meccanica a chi si avventura nella composizione dello 010557111.
Se si commette l’errore di fidarsi della macchina invece di interrogare subito un essere umano e si dice o preme 1 oppure 2 (ricevendo un messaggio di sollecito, se non si è immediatamente pronti all’azione, che al seguente tentativo fallito si trasforma in un perentorio: “Non è stata effettuata nessuna selezione valida. La ringraziamo per aver
chiamato” e la comunicazione si chiude), scatta l’invito: “Prego, pronunci chiaramente il cognome, seguito dal nome”. Nonostante ci si sforzi di scandire al meglio il nominativo cercato, raramente si è indirizzati ad esso: può capitare che l’automatismo capisca male e proponga il collegamento con un altro tra le migliaia di dipendenti, oppure, assai più spesso, che non capisca del tutto e chieda di nuovo “Può ripetere, per cortesia?”.
Al secondo tentativo, la capitolazione: “Attenda, prego: la sua chiamata sta per essere trasferita a un operatore del centralino”.
Entrati finalmente in contatto con una voce umana dopo aver perso tempo che a volte può essere prezioso, prima di chiedere il contatto cercato non si può resistere alla tentazione di domandare irritati di disattivare l’automatismo e a questo punto accade inaspettato il prodigio: nella persona dell’operatore, l’istituzione si mette davvero a dialogare col cittadino, non come entità astratta ma come organismo composto da uomini e donne che vi lavorano nell’obiettivo condiviso – si spera – di gestire la città nell’interesse di chi la abita, sia pur non senza conflitti e contrasti al proprio interno.
Nel mio caso, all’altro capo del filo è una pacata signora (ma potrebbe essere un maschio) che inizia a colloquiare precisando con gentilezza che non è la prima volta che riceve tale richiesta e che i suoi superiori, responsabili del servizio, sono informati del disagio espresso da alcuni utenti. Ci intratteniamo in una brevissima ma confortante conversazione su certe contraddizioni e arroganze di cui siamo vittime entrambi. Prima di inoltrare la mia chiamata mi fornisce di sua iniziativa il numero interno cercato, nel caso fosse stato occupato o assente, per poterlo richiamare direttamente senza dover ripercorrere la snervante trafila.
Ci salutiamo con simpatia e le auguro buon lavoro.
Qualche riflessione: il Comune di Genova è soltanto uno dei molti enti pubblici e privati che da tempo ricorrono a tali marchingegni per ridurre i costi del personale addetto, con criticità analoghe. Lo stesso vale per altri servizi, come ad esempio l’automatizzazione della riscossione dei pedaggi autostradali e dei ticket sanitari o dell’emissione dei biglietti ferroviari, con macchine che non di rado vanno fuori uso o semplicemente mettono in difficoltà gli utenti meno avvezzi a tali innovazioni.
Ne vale davvero la pena?
Senza voler essere luddisti, è impagabile sentire una voce uscire non da un altoparlante ma da una bocca, scambiarsi uno sguardo, due parole, un saluto, anche nell’asetticità di un rapporto professionale ma pur sempre fra due persone.
(Ferdinando Bonora – immagini da internet: Charlie Chaplin, Tempi Moderni, 1936)
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| San Silvestro e Santa Maria in Passione, marzo 2015 |
Sulla vetta della Collina di Castello dove Genova nacque 2500 anni fa, accanto al complesso di San Silvestro ricostruito come sede universitaria di Architettura si estende Santa Maria in Passione, altro convento femminile dalla storia millenaria anch’esso devastato dalla seconda Guerra mondiale, che però giace ancora rovinato dai crolli bellici e postbellici, proprietà del Comune.
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| San Silvestro e Santa Maria in Passione, circa 1985 |
Contestualmente alla rinascita di San Silvestro, alla fine degli anni Ottanta si erano avviati consistenti lavori di sgombero delle macerie, ritrovando vani sepolti congelati al momento della distruzione, con affascinanti tracce della vita che vi si svolgeva: quasi una Pompei di pochi decenni prima con saloni, cucine, cisterne, scale, corridoi, scantinati, i parlatori e la grande lavanderia, oltre alla chiesa e al chiostro con giardino che erano rimasti sempre in vista. Saggi di scavo avevano indagato anche testimonianze dell’antichissimo insediamento preromano. Dal 1992, con l’intenzione di farne un parco archeologico co-finanziato dall’Unione Europea, si era proceduto alla messa in sicurezza delle strutture pericolanti, alla protezione dei resti con coperture moderne e alla ricostruzione della parte affacciata su via di Mascherona, adibita a sede dell’Osservatorio Civis, un ufficio comunale che forniva un eccellente servizio di documentazione e monitoraggio computerizzati, con la diffusione di informazioni sul centro storico, attività di sostegno della pianificazione urbana e ottimizzazione della gestione operativa degli interventi sul territorio.
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| San Silvestro e Santa Maria in Passione, circa 1985 |
Custodiva anche le chiavi della zona recintata, curandone la pulizia e l’ordinaria manutenzione e consentendone l’accesso al pubblico in occasioni particolari, come visite guidate o nel 1999 e 2005 le affollatissime Giornate di Primavera del Fai, il Fondo per l’Ambiente Italiano, durante le quali flussi ininterrotti di centinaia e centinaia di genovesi e no entrarono per la prima volta a scoprire tale inaspettato tesoro.
Subentrata nel 2007 la giunta Vincenzi a reggere la Civica Amministrazione con differenti indirizzi rispetto alla precedente, l’Osservatorio venne smantellato e sostituito da nuovi organismi collocati altrove, mantenendone però il sito web che consente di continuare ad accedere almeno in parte al patrimonio di dati raccolti.
Attualmente quei locali ospitano il Centro antiviolenza e l’Ufficio cittadini senza territorio, realtà degnissime che però nulla hanno a che vedere con la specificità di un sito così ricco di significati e di storia e soprattutto che più non si curano del suo mantenimento. L’area delle rovine, scampata a un immaginifico progetto di ricostruzione come ampliamento della Facoltà e annessa biblioteca, rimase abbandonata a se stessa e preclusa alla città, nell’apatia degli enti che avrebbero dovuto occuparsene. Una squallida rugginosa ed eternamente provvisoria barriera in tubi Innocenti, rete metallica e filo spinato, in mezzo alla ricostruita piazza di San Silvestro, la separava dall’accesso ad Architettura, finché il 15 marzo del 2012 un gruppo di studenti e altri volontari che già si dedicavano a una sottostante zona verde utilizzata per sperimentazioni didattiche all’aperto e occasioni di incontro, da loro risistemata e battezzata Liberi Giardini di Babilonia (vedi Oli 345), in cui si parlava pure di analoghe azioni in salita della Misericordia e nei Giardini Rotondi) decise che i tempi erano maturi per abbattere lo sbarramento e occupare l’area non per sé, ma per riaprirla a tutti e in primo luogo agli abitanti nei dintorni.
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| San Silvestro e Santa Maria in Passione, marzo 2015 |
“L’inerzia burocratica e il rimbalzo delle responsabilità hanno portato a questa condizione di immobilismo e hanno fallito: per questo motivo un atto semplice, spontaneo, consapevole e risolutore trova legittimazione anche se varca i confini della consuetudine legalitaria. Ci assumiamo la responsabilità di questo gesto collettivo, perché crediamo nella necessità di tornare a pensare la società non solo come insieme di leggi, ma come sistema di valori etici, culturali e politici”, aggiungendo “Vola solo chi osa farlo”, citazione da Luis Sepúlveda.
E ancora: “Oggi dimostriamo quanto possa essere semplice ed efficace interagire con lo spazio pubblico in autonomia: la responsabilità individuale e collettiva è infatti il motore del nostro agire, giusto anche se illegale”.
Questo e molto altro hanno scritto – e non può non venire in mente Antigone, nodo cruciale della coscienza civile occidentale – nei comunicati che via via producono, frutto di matura riflessione politica alimentata da assemblee settimanali che non si esauriscono in teorizzazioni, ma producono azioni concrete come la faticosa pulizia dell’area invasa da arbusti e sterpaglie, bonificata e resa praticabile nell’ottobre 2014, con la massima attenzione al rispetto e alla salvaguardia dei resti poi commentati con visite guidate e apparati illustrativi, restituendole quella dignità di parco archeologico in nuce vagheggiato all’inizio.
A dicembre si è avviata l’impegnativa organizzazione delle periodiche Raibe, le animate aperture al pubblico così chiamate ricordando gli antichi magazzini/mercati genovesi dal nome arabeggiante, d’ora in poi con cadenza mensile, ogni seconda domenica.
Video https://www.youtube.com/watch?v=XpDKYYXsDHI
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| Raiba, 8 marzo 2015 |
L’ultima è stata lo scorso 8 marzo, dal mattino a sera inoltrata, riuscitissima con folta partecipazione e attività di vario genere distribuite ovunque, come si può vedere nella pagina Facebook dei Liberi Giardini di Babilonia. Nel desolante panorama partitocratico locale e non solo, verso il quale la disaffezione e il disgusto dei cittadini stanno crescendo in modo sempre più preoccupante, questa esperienza di entusiasta gestione diretta di una sia pur minuscola porzione della polis da parte di chi vi abita o studia o lavora o desidera comunque prendersene cura – che tra l’altro la fotografa Federica De Angeli ha scelto quale stimolante tema per l’edizione 2015 del suo Corso di Fotografia Avanzata – rappresenta un vitale laboratorio di buona politica che le istituzioni, con le quali sono già avviati contatti, farebbero bene a non ignorare né sottovalutare, o ancor peggio ostacolare, ma favorire, senza tentare di fagocitarlo ma rispettandone l’autonomia e la libertà, come modello positivo per il diffondersi di analoghe pratiche di buon governo dal basso, qui a Genova e nel resto d’Italia.
Non siamo che agli inizi. Il seguito alla prossima puntata.
(Ferdinando Bonora – fotografie dell’autore)
Bel colpo, complimenti!
Siamo a Genova in Strada Nuova, oggi via Garibaldi. Dal 2006 riconosciuta dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità nell’ambito del complesso dei Palazzi dei Rolli, l’originale sistema che tra 1576 e 1664 individuò e classificò circa 160 dimore private in grado di offrire degna ospitalità di Stato ai forestieri illustri.
Trascorrono i secoli, cambiano gli stranieri e soprattutto il concetto di accoglienza. Il sontuoso palazzo che nel Cinquecento fu di Angelo Giovanni Spinola ospita oggi una banca dall’altisonante nome tedesco, ma il cartello posto all’entrata esprime una considerazione per coloro che vi si affacciano a dir poco insultante e molto genovese, secondo certi standard attuali. “PROPRIETÀ PRIVATA / Si pregano i / Sigg. Visitatori / di non / sporcare / l’atrio / BENI SOTTO TUTELA”.
La falsa cortesia del “Si pregano i Sigg. Visitatori” si stempera subito nel perentorio invito a “non sporcare l’atrio”, dando a chiunque del potenziale sozzone. Il tutto sormontato da una lapidaria dichiarazione di proprietà privata, quasi che se fosse un bene pubblico potrebbe essere invece impunemente lordato. A rafforzare il concetto, il tutto è concluso dal’annotazione che si tratta di “beni sotto tutela”.
Che ci si preoccupi della tutela del bene è chiaro anche per la cura con cui sono stati predispostii i vistosi cordoni corredati da targhe “VIETATO SEDERSI”, posti davanti ai due monumentali e solidi sedili in muratura concepiti e realizzati quattro secoli e mezzo fa per consentire a tutti di sostare, riposandosi nella bella atmosfera del vasto atrio affrescato. Essi sono tuttora in perfetto stato di conservazione, malgrado le innumerevoli terga che si sono appoggiate nel tempo sui loro lastroni di ardesia. A titolo di confronto, nell’atrio del poco distante Palazzo Rosso – di proprietà pubblica – due ben più delicate panche in legno dipinto sono a completa disposizione di chi desidera sedervisi. Evidentemente i responsabili della gestione di questo palazzo paventano orde di barbari invasori pronti a stravaccarsi sui sedili per farne scempio e a bivaccare spargendo immondizie. Meglio prevenire, anche a costo di suscitare i commenti ora infastiditi e ora sarcastici di coloro – italiani e stranieri – che notano questi cartelli improntati a quella tipica genovesità fortunatamente sempre meno diffusa ma che stenta a morire, con la sua chiusura così ben sbeffeggiata da Fabrizio Casalino nell’esilarante ridoppiaggio di celebri film, giocato sul tema dell’accoglienza ligure:
Sia pur con le migliori intenzioni, le suddette scritte ottengono uno sgradevole effetto respingente che ben si lega alla generale sciatteria presente ovunque ormai da anni tra cantieri eterni, marciapiedi e strade sconnesse, aiuole rinselvatichite, arredi urbani trasandati (in primis i vergognosi, luridi e sgangherati vespasiani di via Turati e soprattutto piazza Caricamento, a due passi dall’Acquario e accanto alla sosta dei pullman di comitive allibite).
Genova è sicuramente “MORE THAN THIS” – come recita lo slogan del nuovo logo promozionale della città – ma fa ben poco per darlo a vedere. Cerchiamo tutti, cittadini e pubbliche amministrazioni, di dedicarci con impegno e orgoglioso entusiasmo a invertire la rotta.
(Ferdinando Bonora – fotografie dell’autore – filmato da internet)
Si sa che le informazioni non si trasmettono soltanto con parole dette o scritte, ma in larga misura anche per immagini.
Pure le città – e qualsiasi altro territorio – narrano le proprie vicende non tanto con le rare iscrizioni apposte nei secoli qua e là, quanto attraverso tutto il complesso di testimonianze visive costituite dagli innumerevoli manufatti realizzati dalle generazioni che le hanno vissute e trasformate, anche in modi radicali, ma con esiti quasi sempre armoniosi e organici alle preesistenze, finché non hanno preso il sopravvento materiali, tecniche e mentalità propri della civiltà industriale, nella banale omogeneità e ripetitività seriale dei suoi prodotti, infarciti per giunta di disastrosi fraintendimenti formali quando si pretende di realizzare “in stile”.
Gli intonaci con le loro rifiniture superficiali e colori, i serramenti, le pavimentazioni, le recinzioni, gli arredi urbani e altri elementi solo in apparenza insignificanti – e ritenuti sostituibili a piacere – costituiscono in realtà, nella loro autenticità, ciò che connota gli specifici luoghi, distinguendoli l’uno dall’altro ed esprimendone lo spirito.
Troppo spesso si interviene in modo sconsiderato, con uno stillicidio continuo di perdite irreversibili e rimpiazzi incongrui che, in modo irrimediabile, impoveriscono e rendono standardizzato l’ambiente in cui si vive o nel quale si accolgono i forestieri, mortificandone l’identità, l’interesse, la piacevolezza e il fascino, con la progressiva cancellazione, per sempre, di quanto fu vissuto da chi ci precedette e dei messaggi – percepiti spesso inconsciamente – che esso sarebbe in grado di trasmettere se opportunamente tutelato.
Di tanto in tanto capita di imbattersi in interventi in controtendenza, attenti al valore dell’esistente e risultato di una felice interazione tra committenti di intelligente e colta sensibilità e maestranze capaci, detentrici di saperi tramandati nel tempo.
Un bell’esempio, che a occhi poco accorti può sembrare di scarso rilievo ma che in realtà è da prendere a modello, ce lo fornisce il recente ripristino del portone in legno di un caseggiato nel centro storico genovese, in vico del Campanile delle Vigne. Un semplice intervento di manutenzione, ma condotto nel migliore dei modi.
Vecchio e malandato, pesante, con problemi nella chiusura e di non eccezionale valore artistico e storico, ma autentico, avrebbe potuto essere sostituito con un anonimo manufatto moderno, magari realizzato imitando il vecchio, come talvolta si fa con tristi risultati. Così si sarebbe però prodotta l’ennesima perdita di una tessera di quel grande mosaico che è la città antica, in cui ogni elemento, anche quello apparentemente meno importante, contribuisce al mantenimento di tutto l’insieme nella sua genuinità, da tramandare il più a lungo possibile a coloro che verranno dopo di noi.
I condòmini hanno deliberato di affidare il loro oggetto a un bravo falegname nei dintorni, esperto nel ripristino di serramenti logori – si occupa anche di persiane alla genovese e altro – il quale lo ha portato nel suo laboratorio in piazza dell’Amor Perfetto e, in alcune settimane di lavoro, lo ha rimesso in sesto, verniciato a regola d’arte con un bel verde scuro lucido, lustrati gli ottoni, aggiustati i cardini sgangherati e riposizionato le due ante, ora perfettamente funzionanti e con una gran bella figura. Il tutto per una spesa inferiore a 1500 euro, assai meno di quanto sarebbe costato un analogo portone nuovo e con un risultato di gran lunga migliore.
Interventi corretti ed esemplari come questo non dovrebbero essere lasciati all’iniziativa di singoli particolarmente sensibili e consapevoli, ma dovrebbero essere gestiti dagli enti pubblici istituzionalmente preposti alla tutela di un patrimonio che non può ridursi a un numero limitato di casi eccezionali sottoposti a vincolo, ma che è rappresentato dall’intero contesto. Occorrerebbe lavorare su più fronti: da un lato elaborare una normativa che più che imposizioni proponga suggerimenti per ben operare, con incentivi anche economici; dall’altro promuovere una capillare azione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, con esempi e indicazioni pratiche sulle modalità di intervento, i materiali, le tecnologie e le opportunità concrete costituite dalle imprese e dagli artigiani in grado di effettuare quanto richiesto, offrendo in tal modo pure un sostegno a realtà lavorative di alto livello ma spesso in sofferenza e che meritano di essere salvaguardate.
(Ferdinando Bonora – fotografie dell’autore)
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| (fotografia di Ferdinando Bonora) |
“A POCHI MINUTI DA / A FEW MINUTES FROM / PALAZZO DUCALE”, esclama un grande pannello sistemato da non molto nel cortile minore di Palazzo Ducale a Genova – quello che affaccia su piazza De Ferrari, di grande passaggio – con una pianta semplificata del centro cittadino.
Vi sono evidenziati alcuni importanti poli culturali, con linee rosse che suggeriscono i percorsi per raggiungerli e, nella fascia in basso, indicazioni pratiche sulla localizzazione, gli orari di apertura, le distanze e i tempi per raggiungerli a piedi o in autobus. Sono citati anche i due organismi che hanno prodotto tale informazione: “Genova Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura” e “Genova Musei”, che fa capo all’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune.
Compaiono solo complessi museali, oltre ovviamente lo stesso Palazzo Ducale. Una scelta di campo limitata, che sulle prime può apparire riduttiva, ma che in fin dei conti è condivisibile, in una città antica che è un unico grande monumento in cui c’è molto altro da trovare, conoscere e godere, la cui presentazione avrebbe però creato qui un farraginoso sovraccarico di dati e annullato l’efficacia di questo sintetico strumento promozionale.
Fissiamo pure l’attenzione sui musei, come luoghi in cui si concentrano variegate testimonianze del passato e del presente, lasciando la scoperta di tutto il resto all’autonomia dei visitatori.
Ma perché soltanto questi?
Vediamo infatti il Museo del Risorgimento, i Musei di Strada Nuova, il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone, il Museo di Sant’Agostino, il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce; oltre all’Acquario di Genova, anch’esso a pieno titolo museo naturalistico, con animali vivi e non imbalsamati. E basta, in una città con ben altra ricchezza di strutture analoghe.
Non è difficile immaginare il criterio col quale sono stati selezionati: salvo prova contraria, si tratta degli unici musei civici presenti nell’area rappresentata e gestiti direttamente ed esclusivamente dal Comune; a parte il Ducale – dove ci si trova – e il famoso Acquario, che in virtù di un’eccellente strategia promozionale è ancor oggi impropriamente considerato da molti, fuori Genova, il principale motivo – se non l’unico – per venire da noi e quindi può anche starci, come riferimento e rimando di grande notorietà.
Se davvero è così, il pannello in questione risulta indecente, irritante e inaccettabile.
Vogliamo promuovere la città nel suo insieme, o soltanto un settore della sua amministrazione?
Intendiamo privilegiare le esigenze dei visitatori e dell’intera collettività, o soltanto di coloro che si occupano di una parte dei beni accessibili al pubblico – di cui non sono proprietari, ma gestori per conto della comunità – e che hanno prodotto questo invito?
Ai turisti, e anche ai residenti, interessa poco sapere se il tale museo fa capo al Comune piuttosto che allo Stato, o a una realtà ecclesiastica o privata, se non come informazione accessoria che arricchisce la conoscenza storica, ma non incide sulla sua sostanza di tessera di un vasto mosaico, la quale ha senso anche e soprattutto nel suo rapporto organico con tutto il resto, poco importa quale sia l’ente che se ne cura.
Dov’è il Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, appena al di là della piazza? Che fine ha fatto il Galata Museo del Mare, comunale ma con una gestione a sé stante che tocca anche la vicina Commenda di Prè? E il Museo del Tesoro di San Lorenzo, gioiello di fama mondiale tra gli addetti ai lavori, condiviso da Comune e Curia arcivescovile? E il Museo Diocesano? E il complesso conventuale e museale di Santa Maria di Castello? E il Museo dei Beni Culturali Cappuccini? E la magnificenza delle Gallerie nazionali di Palazzo Spinola e Palazzo Reale, proprietà dello Stato e non del Comune? E il Museo Luzzati a Porta Siberia? E la Villa del Principe, tuttora degli eredi di Andrea Doria?
Solo per citarne alcuni.
Continueremo a fare poca strada, se ciascuno continuerà a farla nel proprio carrugio.
(Ferdinando Bonora – fotografie dell’autore)