Categoria: Rana Plaza

  • OLI 425: LAVORO – Un concerto di macchine da cucire in ricordo del Rana Plaza

    A due anni dalla terribile tragedia avvenuta a Dacca in Bangladesh per il crollo dell’edificio Rana Plaza del 24 aprile 2013, a Genova sono state ricordate le 1138 vittime al Palazzo Ducale durante la performance “13600hZ concerto per macchine da cucire“.
    “Un progetto che nasce dall’abitare l’abito, dalla responsabilità dei consumatori in relazione al reale rapporto con l’abito” dichiara Sara Conforti dell’Associazione Culturale Hòferlab “e mira a coinvolgere il pubblico attraverso un discorso sensoriale per quel che riguarda la compulsività contemporanea rispetto all’acquisto”
    Il crollo del Rana Plaza è stato uno dei più gravi incidenti nella storia del tessile. Un edificio di otto piani, l’ultimo costruito illegalmente, in cui c’erano cinque fabbriche tessili che non rispettavano le norme di sicurezza.
    Il giorno prima dell’incidente le lavoratrici avevano visto delle crepe e sentito dei rumori ed ebbero paura, visti i crolli di edifici simili nei mesi precedenti, e nonostante le loro denunce furono costrette dai padroni ad entrare quel giorno 24 aprile nell’edificio.
    Gli operai del Rana Plaza lavoravano per 30 marchi internazionali della moda tra cui la Benetton italiana che dopo due anni di pressioni da parte della Campagna Abiti Puliti ha deciso di pagare solo 1,1 dei 5 milioni richiesti per il fondo delle vittime.
    La Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign) da 30 anni segue casi di violazione di diritti del lavoro e violazione dei diritti umani, da due anni fa pressione a livello internazionale per il risarcimento economico ai familiari delle vittime del crollo del Rana Plaza da parte dei grandi marchi della moda coinvolti.
    La Campagna ha ottenuto due risultati importanti” dichiara Deborah Lucchetti portavoce italiana della Clean Clothes Campaign “un’accordo per la sicurezza e la prevenzione degli incendi in Bangladesh entrato in vigore l’anno scorso e firmato da 170 marchi multinazionali e un accordo per il risarcimento dei danni ai familiari delle vittime. Questo accordo non è ancora compiuto perchè mancano 7milioni di dollari al fondo che ne richiede 30milioni”
    Ad oggi sono 80milioni gli operai, donne e bambine nell’industria del tessile che lavorano in condizioni

    disumane e di sfruttamento, 16 ore al giorno per sei giorni a settimana per pochissimi dollari al giorno, il 2% del prezzo finale del prodotto, ogni giorno cuciono e confezionano abiti e accessori per i consumatori occidentali ma loro non potranno mai comprare quello che producono. “Oggi, in questa età del capitalismo contemporanea” dice Deborah Lucchetti “non esiste un meccanismo globale che faccia si che un’impresa che produce danni di violazione di diritti umani in paesi terzi, venga in qualche modo accusata e penalizzata per tali comportamenti”.
    Per questo motivo è sempre più urgente la necessità di costruire momenti di sensibilizzazione e presa di coscienza sulle storie di ingiustizia che si celano dietro le etichette che indossiamo, solo così possiamo diventare consumatori critici per i nostri acquisti e dire “mai più Rana Plaza”.
    (Maria Di Pietro – foto di Giovanna Profumo)

  • OLI 375: LAVORO – Benetton nella fabbrica crollata in Bangladesh

    Ennesima catastrofe in Bangladesh per il crollo della fabbrica Rana Plaza a 30 km da Dhaka, avvenuto il 24 aprile scorso, che ha causato la morte di oltre 380 operai, 2000 feriti e molti dispersi che lavoravano per i grandi marchi della moda internazionale. L’edificio Rana Plaza ospitava 5 fabbriche di abbigliamento dove migliaia di operai ogni giorno lavoravano stipati in condizioni disumane. Loro stessi avevano denunciato le preoccupanti crepe all’interno dell’edificio, ma gli era stato intimato dai datori di lavoro di restare nella fabbrica.
    La Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign), associazione internazionale nata per assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori e lavoratrici del tessile, sta intervenendo denunciando i grandi marchi implicati tra cui Primark, Mango e l’italiana Benetton, quest’ultima in un primo momento aveva dichiarato di non aver legami diretti con le fabbriche del Rana Plaza.
    L’agenzia AFP ha fotografato tra le macerie alcune t-shirt con etichetta “United Colors of Benetton”.

    Inoltre Abiti Puliti è in possesso di una copia di un ordine d’acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una della 5 fabbriche dell’edificio.
    La Campagna Abiti Puliti sta facendo pressione sull’azienda veneta chiedendo di assumersi le proprie responsabilità su queste tragiche morti sostenendo i familiari delle vittime. “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi” ha dichiarato Deborah Lucchetti – coordinatrice e referente italiana della Campagna Abiti Puliti – “e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”.
    Il crollo del Rana Plaza è una delle tante tragedie avvenute nel sud est asiatico: ricordiamo l’incendio della fabbrica pakistana Ali Enterprises dove lo scorso settembre sono arsi vivi 300 lavoratori per la mancanza di uscite di sicurezza e l’incendio di novembre della Tazreen Fashions in Bangladesh dove hanno perso la vita più di 100 operai che cucivano per C&A, Carrefour, Kik e Walmart, lavorando 12 ore al giorno per 30 dollari al mese.
    Il tessile è un settore redditizio e le aziende occidentali di abbigliamento sono più interessate a massimizzare i profitti che alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori. Il sud-est asiatico è il più grande esportatore di prodotti tessili al mondo, come possiamo notare dalle etichette che ogni giorno indossiamo.
    Anche i consumatori spesso sono responsabili e complici inconsapevoli di questo processo in cui, attraverso l’acquisto di abbigliamento, contribuiscono a mantenere in schiavitù i lavoratori che cuciono e confezionano i nostri abiti per pochi dollari al mese.
    Come consumatori consapevoli possiamo sostenere la campagna firmando la petizione online che chiede che i lavoratori in Bangladesh siano tutelati da norme di sicurezza più severe.
    (Maria Di Pietro – foto da internet)