Categoria: palestina

  • OLI 373: PALESTINA – Samer Issawi, in fin di vita per la libertà

    In occasione della giornata internazionale di solidarietà con i detenuti politici palestinesi del 17 aprile, riportiamo il discorso del prigioniero Samer Issawi, da 8 mesi in sciopero della fame, che nonostante sia in fin di vita per le sue condizioni fisiche, continua a lottare contro la repressione israeliana. Il 20% della popolazione palestinese residente nella West Bank è stata arrestata almeno una volta, in questo momento ci sono 4700 prigionieri nelle carceri israeliane rinchiusi in celle di pochi metri quadrati in cui vivono in media 30 detenuti ammassati in condizioni igieniche nulle. Per questo i prigionieri ammalati continuano ad aumentare e continuano a non ricevere alcuna assistenza sanitaria. I prigionieri palestinesi vengono sottoposti in maniera sistematica ad atroci torture sia fisiche che psicologiche.
    Chi esercita maltrattamenti e torture ha l’assoluta impunità anche se si tratta di personale sanitario le cui azioni entrano in conflitto con l’etica medica.

    Israele utilizza una struttura giudiziaria arbitraria che consente l’arresto e la detenzione in carcere senza processo e senza la presenza di un avvocato su individui dai 12 anni di età. E’ partita una campagna internazionale organizzata dalle associazioni per i diritti umani contro la detenzione amministrativa.
     La detenzione amministrativa è una tattica usata per detenere i palestinesi a tempo indeterminato senza mai portarli in giudizio. L’uso che Israele fa della detenzione amministrativa viola diverse norme internazionali: deportazione dei palestinesi da Israele ai territori occupati, la negazione delle visite regolari dei parenti ed avvocati, la non considerazione dell’interesse superiore dei bambini detenuti come richiesto dal diritto internazionale.
    (Maria di Pietro – Immagini da internet)
    Per leggere il discorso di Samer Issawi clicca su: continua a leggere

     “Israeliani Sono Samer Issawi in sciopero della fame da otto mesi consecutivi, attualmente ricoverato in uno dei vostri ospedali chiamato Kaplan. La mia situazione è monitorata 24 ore su 24 grazie ad un dispositivo medico che è stato inserito sul mio corpo. I miei battiti cardiaci sono rallentati e il mio cuore può cessare di battere da un momento all’altro. Tutti – medici, funzionari e ufficiali dell’intelligence – attendono la mia resa e la mia morte. Ho scelto di rivolgermi a voi intellettuali, scrittori, avvocati, giornalisti, associazioni e attivisti della società civile per invitarvi a farmi a visita, in modo tale che possiate vedere ciò che resta di me, uno scheletro legato ad un letto d’ospedale, circondato da tre carcerieri esausti che, a volte, consumano le loro vivande succulente, in mia presenza. I carcerieri osservano la mia sofferenza, la mia perdita di peso e il mio graduale annullamento. Spesso guardano i loro orologi e si chiedono a sorpresa: come fa questo corpo così martoriato a resistere dopo tutto questo tempo? Israeliani Faccio finta di trovarmi innanzi ad un intellettuale o di parlare con lui davanti ad uno specchio. Vorrei che mi fissasse negli occhi e osservasse il mio stato comatoso, vorrei rimuovere la polvere da sparo dalla sua penna e il suono delle pallottole dalla sua mente, in modo tale che egli sia in grado di scorgere i miei lineamenti scolpiti in profondità nei suoi occhi. Io vedo lui e lui vede me; io lo vedo nervoso per le incertezze future, e lui vede me, un fantasma che rimane con lui e non lo lascia. Potete ricevere istruzioni per scrivere una storia romantica su di me, e lo potreste fare facilmente. Dopo avermi spogliato della mia umanità, potrete descrivere una creatura che non possiede null’altro che una gabbia toracica, che respira e soffoca per la fame, perdendo di tanto in tanto coscienza. Ma, dopo il vostro freddo silenzio, il racconto che parla di me, non sarà null’altro che una storia letteraria o mediatica da aggiungere al vostro curriculum, e quando i vostri studenti diventeranno adulti crederanno che i Palestinesi si lasciano morire di fame davanti alla spada dell’israeliano Gilad e voi potrete rallegrarvi per questo rituale funebre e per la vostra superiorità culturale e morale. Israeliani Io sono Samer Issawi il giovane “Araboush” come mi definisce il vostro gergo militare, l’Uomo di Gerusalemme che avete arrestato senza accusa, colpevole solo di essersi spostato dal centro di Gerusalemme verso la sua periferia. Io sono stato processato due volte senza alcuna accusa perché nel vostro Paese sono le leggi militari a governare e i servizi segreti a decidere mentre tutti gli altri componenti della società israeliana devono limitarsi a trincerarsi e nascondersi dietro quel forte che continua ad essere chiamato purezza di identità – per sfuggire all’esplosione delle mie ossa sospette. Non ho udito neanche uno di voi intervenire per tentare di porre fine allo squarciante gemito di morte. E’ come se ognuno di voi – il giudice, lo scrittore, l’intellettuale, il giornalista, l’accademico, il mercante e il poeta – si fosse trasformato in un affossatore e indossasse una divisa militare. E stento a credere che una società intera sia diventata spettatrice della mia morte e della mia vita e protettrice dei coloni che hanno distrutto i miei sogni insieme agli alberi della mia Terra. Israeliani Morirò soddisfatto e avendo soddisfatto gli altri. Non accetto di essere portato fuori dalla mia patria. Non accetto i vostri tribunali e le vostre leggi arbitrarie. Dite di aver calpestato e distrutto la mia Terra in nome di una libertà che vi è stata promessa dal vostro Dio, ma non riuscirete a calpestare la mia nobile anima disobbediente. La mia anima si è risanata, si è liberata e ha celebrato il tempo che le avete tolto. Forse capite che la consapevolezza della libertà è più forte di quella della morte… Non date ascolto a quei luoghi comuni, ormai obsoleti perché lo sconfitto non rimarrà sconfitto in eterno così come il vincitore non resterà un vincitore in eterno. La storia non si misura solo attraverso battaglie, massacri e prigioni ma anche e soprattutto dal sentirsi in pace con gli Altri e con se stessi. Israeliani Ascoltate la mia voce, la voce dei nostri tempi, nonché la vostra voce! Liberate voi stessi dell’eccesso avido di potere! Non rimanete prigionieri dei campi militari e delle sbarre di ferro che hanno serrato le vostre menti! Io non sono in attesa di essere liberato da un carceriere ma sto aspettando che voi vi liberiate della mia memoria.” (Samer Issawi)

  • OLI 370: PALESTINA – Vittorio Arrigoni: ambasciatore di pace

    (foto dell’autrice)

    Un incontro emozionante domenica sera a Genova con Egidia Beretta Arrigoni e Don Andrea Gallo per la presentazione del libro “Il viaggio di Vittorio“, scritto dalla madre, che ripercorre la breve vita di Vittorio Arrigoni rapito e assassinato a Gaza il 14 aprile 2011.
    Molta commozione nel ricordare Vittorio. La sua passione per la giustizia e per la dignità umana lo portano a servizio degli oppressi durante i suoi viaggi. Attivista, militante, volontario, pacifista, scudo umano, reporter. Vittorio trova il senso della sua vita in Palestina nella Striscia di Gaza nella prigione a cielo aperto dove gli abitanti non possono varcare i confini neanche per andare a lavorare. Vittorio decide di stare affianco ai palestinesi nella loro quotidiana lotta di sopravvivenza interponendosi tra i contadini e i cecchini israeliani che sparano durante il raccolto, tra i pescatori e la marina militare israeliana che con ogni mezzo violento impedisce la pesca ai palestinesi.
    Vittorio vivrà a Gaza 3 anni fino al suo assassinio. Soggetto scomodo per le autorità militari israeliane, inserito già nella black list delle persone sgradite ad Israele, arrestato e poi espulso, Vittorio torna nella Striscia via mare, non si lascia intimidire e continua il suo impegno con l’International Solidarity Movement; decide di restare nell’inferno di Gaza durante “Operazione Piombo Fuso”: tre settimane di bombardamenti israeliani su Gaza che tra dicembre e gennaio del 2009 hanno causato oltre 1300 morti e più di 5000 feriti. Vittorio, unico testimone italiano, attraverso il suo blog guerrillaradio ha dato voce alla popolazione martoriata. I suoi reportage sono stati raccolti nel libro “Gaza. Restiamo umani“.
    “Davanti a tanta disumanità devi restare umano…” mi disse quando lo incontrai a Genova dopo Operazione Piombo Fuso; e Vittorio la disumanità la conosceva bene: raccogliere pezzi dei suoi amici palestinesi e teste di bambini erano le cose più atroci che aveva visto quando girava con le ambulanze della mezzaluna rossa per trasportare i feriti all’ospedale. “…ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman” scrive Vittorio durante la strage a Gaza “non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perchè piango anche io….”.

    (foto da internet)

    Certi giorni, quando sono sola, mi rifugio nella stanza segreta del mio cuore e lascio che il dolore mi strazi, e piango e lo chiamo, chiamo forte il mio bambino che non c’è più” scrive Egidia nel libro. E per lei Vittorio oggi vive attraverso gli incontri, attraverso la corrispondenza che aveva con lui, attraverso il blog e attraverso le persone che lo hanno conosciuto e che continuano a ricordarlo.
    Vittorio, “ambasciatore di pace” e ” grande fiore della pace” come lo ha ricordato Don Gallo, sembrava essere insieme a noi domenica, con la sua pipa e il berretto nero, ad esortarci a “restare umani”.
    E noi domenica lo abbiamo ricordato così:
     “La storia siamo noi, la storia non la fanno i governanti codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti. La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario, che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani. La storia siamo noi che mettendo a repentaglio le nostre vite, abbiamo concretizzato l’utopia, regalando un sogno, una speranza a centinaia di migliaia di persone. […] 
    Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione per tutte le persone comuni , a non delegare al vita al burattinaio di turno, a prendersi di petto la responsabilità di una rivoluzione, rivoluzione interiore innanzitutto, verso l’amore, l’empatia, che di riflesso cambierà il mondo. […] la pace non è un’utopia e se lo è abbiamo dimostrato che a volte le utopie si concretizzano. Basta crederci, fermamente impegnarsi, contro ogni intimidazione, timore, sconforto, semplicemente restando umani”.  Vittorio Arrigoni, 3 settembre 2008

    video dell’incontro del 17 marzo: http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=15797
    (Maria Di Pietro)

  • OLI 365: PALESTINA – Israele non applica la pena di morte

    Sono più di 3848 i palestinesi arrestati nel 2012, secondo i dati ufficiali diffusi dal Dipartimento di Statistica presso il ministero degli Affari dei detenuti di Ramallah, tra cui 881 bambini e 67 donne. La media mensile degli arresti è stata di 321 palestinesi, quella giornaliera di 11.
    Gli arresti da parte delle forze militari israeliane sono all’ordine del giorno: accademici, giornalisti, insegnanti, figure di spicco in campo politico della società palestinese, componenti dei comitati popolari vengono aggrediti ed arrestati con la scusa della “sicurezza”.
    Sono tanti i prigionieri che protestano con lo sciopero della fame, il caso più discusso in questi giorni è quello di Samer Tarek al-’Issawi di 34 anni arrestato per la seconda volta il 7 luglio 2012 con l’accusa di aver organizzato attività politiche e visitato alcune zone della Cisgiordania; il pubblico ministero israeliano ha chiesto di condannarlo a vent’anni di carcere. Samer viveva nel villaggio di al-‘Issawiya a nord est di Gerusalemme. I suoi genitori sono stati più volte arrestati; nel 1994 è morto il fratello di Samer di 16 anni ucciso da un soldato israeliano durante gli scontri che seguirono il massacro della moschea di al-Ibrahim a Hebron. Un altro fratello è detenuto in un carcere israeliano e lo hanno messo in isolamento, non può incontrare la sua famiglia. Samer, che ha già perso 47 chili, sta portando avanti una battaglia contro le condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti palestinesi nel sistema carcerario israeliano.
    … non sapere se tuo figlio morirà, attendere con angoscia che ti dicano che non ce l’ha fatta. Non potergli stare vicino in un simile momento”, ha dichiarato la mamma, “Lo so, dobbiamo essere coraggiosi: ci hanno preso la terra, hanno ucciso nostro figlio, e ora hanno in mano Samer e Medhat“.
    I militari israeliani non perdono l’occasione per arrestare durante le manifestazioni anche attivisti internazionali che protestano insieme ai palestinesi contro l’occupazione. Sabato scorso a Canaan è stato arrestato un attivista italiano, Marco Di Rienzo, uno inglese dell’ISM (International Solidarity Movement) e 12 palestinesi di cui 4 giornalisti. Gli attivisti stavano costruendo il quinto villaggio formato da tende come segno di protesta contro gli insediamenti illegali israeliani.
    Di Renzo ha deciso di seguire lo sciopero della fame avviato tre giorni fa in solidarietà con i detenuti politici palestinesi in carcere in Israele, in particolare con Samer Issawi.
    Il ministero dell’Informazione in Cisgiordania ha paragonato il protrarsi della detenzione di al-’Issawi ad “una condanna a morte, eseguita lentamente da uno Stato che dichiara di rispettare le leggi internazionali e si vanta di non applicare la pena di morte”.
    (Maria Di Pietro )
  • OLI 363: PALESTINA – La nonviolenza non fa notizia

    Serata partecipata quella di giovedi 24 gennaio che ha visto coinvolti esponenti della Lista Marco Doria del Comune di Genova e l’Assessore comunale alla legalità e diritti Elena Fiorini all’incontro con Abdallah Abu Rahma, coordinatore dei comitati di resistenza nonviolenta palestinese ed attivista per i diritti umani, e con Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento Europeo. Dopo la visione di alcuni filmati sugli ultimi eventi che stanno accadendo in Palestina si è affrontato il tema della resistenza nonviolenta. Nonviolenza intesa come lotta organizzata contro il muro e contro gli insediamenti. Palestinesi con attivisti israeliani e internazionali, attraverso i Comitati Popolari, si organizzano in modo creativo, come è successo recentemente per la costruzione di Bab Al Shams (Porta del Sole) in cui sono stati coinvolti i partiti, le autorità palestinesi e la società civile. All’indomani del voto sul riconoscimento della Palestina come membro osservatore delle Nazioni Unite, il governo israeliano ha proclamato la costruzione di un nuovo insediamento a est di Gerusalemme sui territori occupati: così i Comitati Popolari hanno pensato che dovevano impedire questa nuova colonizzazione in quell’area estremamente importante per il futuro stato palestinese; se venisse costruito l’insediamento questo taglierebbe tra nord e sud la Cisgiordania, con Gerusalemme in mezzo. L’azione è stata quella di costruire un villaggio su quell’area con cinquanta tende e con l’aiuto di mille attivisti; per un popolo costantemente vigilato quest’azione anche se svolta in segretezza non è stata facile. Con astuzia, ingegno e soprattutto coraggio, il villaggio è stato costruito anche se il giorno dopo è stato evacuato dalla polizia israeliana (vedi Oli 362).
    Nonviolenza è resistenza all’occupazione, ai soprusi, alla prevaricazione dei diritti umani” afferma Enrico Pignone, consigliere comunale e capolista della Lista Marco Doria: “il potere della nonviolenza dà ai palestinesi gli strumenti di sfidare chi li sta soggiogando”. Le azioni di nonviolenza palestinese non consistono solo nell’organizzare manifestazioni per fermare l’occupazione e rivendicare il diritto alla propria terra, all’acqua e altre risorse sottratte dal governo israeliano, ma è anche aiutare le famiglie dei prigionieri, pagare le spese legali e sostenere le persone dei villaggi sotto repressione. Abdallah afferma che la nonviolenza è la strada più efficace per combattere l’occupazione. Ma non è semplice usare questa forma di lotta quando dall’altra parte i militari continuano ad usare violenza e repressione sui palestinesi; in questi anni sono 33 i palestinesi uccisi nei villaggi in cui è stato costruito il muro e 1500 le persone arrestate.
    “Gli israeliani giocano sulla compiacenza e la complicità internazionale” dice la Morgantini “nessuno ferma il governo israeliano con la sua politica di colonizzazione”. La comunità Europea è responsabile perché permette ad Israele di essere impunita, anche noi abbiamo una grande responsabilità nel far conoscere l’esistenza di queste lotte, bisogna rompere gli stereotipi che i palestinesi sono quelli che ci fanno vedere in tv. I media dovrebbero svolgere un ruolo importante in questa fase ed invece sono silenti, come è avvenuto durante la serata alla quale non si è presentato nessun giornalista o tv locale con la scusa della campagna elettorale in atto. Forse non interessa la vita del popolo palestinese o forse non si ha ancora il coraggio di denunciare la politica di morte da parte del governo israeliano o forse la notizia non fa scalpore se si associa la parola “nonviolenza” alle azioni dei palestinesi. Tutto questo è irresponsabile da parte dei media, cominciando dal nostro corrispondente Rai del Medio Oriente Claudio Pagliara che, come dice la Morgantini, parla di Palestina seduto nel suo ufficio di Gerusalemme.
    La serata non è stata solo un’opportunità per ascoltare le testimonianze dalla Palestina ma anche uno stimolo per le istituzioni comunali a cui è stato chiesto di firmare una dichiarazione di sostegno ai comitati popolari e di riconoscimento del villaggio di Bab Al Shams come simbolo di resistenza.
    “Tutti possiamo fare qualcosa perchè la nostra lotta e i nostri diritti vengano riconosciuti” afferma Abdallah “non vogliamo più né morire noi né che muoiano israeliani; l’umanità ha bisogno anche di voi e di questa lotta comune per riuscire a far cessare l’occupazione militare”.
    (Maria Di Pietro)


  • OLI 362: PALESTINA – This must be the place

    Così si chiama la campagna per l’abolizione della Firing zone 918 nelle colline a Sud di Hebron dove il Ministro della Difesa israeliana ha deciso di far demolire i 12 villaggi presenti e far evacuare i 1000 abitanti.
    La storia risale agli anni 70 quando Israele ha dichiarato quest’area zona militare chiusa per adibirla ad addestramenti militari.
    Demolire case e villaggi significa soprattutto demolire vite umane e per questo motivo che nonostante il freddo e il gelo, nella zona E1 ad est di Gerusalemme, oltre 250 palestinesi organizzati dai Comitati Popolari di resistenza nonviolenta palestinese insieme ad attivisti internazionali il 12 gennaio hanno fondato un nuovo villaggio formato da tende e strutture fornite dal governo palestinese e l’hanno chiamato Bab Al Shams che significa “Porta del Sole”.
    Gli attivisti hanno dichiarato: “Noi figli della Palestina, provenienti da tutte le parti della patria, dichiariamo la creazione del villaggio Porta del Sole, come scelta del popolo palestinese e senza il permesso dell’occupazione israeliana. Non abbiamo bisogno dell’autorizzazione di nessuno perché questa è la nostra terra ed è nostro diritto costruire e rimanere su di essa. Abbiamo deciso di stabilire il nostro villaggio su questa cosiddetta zona E1 in cui l’occupazione ha annunciato di voler costruire 4.000 unità abitative per gli israeliani, perché non rimarremo più in silenzio di fronte agli insediamenti e alla colonizzazione continua della nostra terra … Noi crediamo nell’azione e nella resistenza non violenta e siamo sicuri che il nostro villaggio si sostengano con forza fino a quando i legittimi proprietari faranno valere i propri diritti sulla loro terra”.

    I neo abitanti hanno invitato tutto il popolo palestinese, in tutte le sue parti sociali e politiche, ad aderire e partecipare agli eventi culturali e alle attività che si sarebbero dovute svolgere alla Porta del Sole i giorni successivi, ma purtroppo dopo due notti 600 soldati militari israeliani hanno sgomberato ed evacuato gli abitanti di Bab Al Shams anche se la Corte Suprema aveva dato indicazione di attendere almeno sei giorni prima di decidere. Sono stati arrestati 18 attivisti che hanno partecipato alla fondazione del villaggio.
    Il premier israeliano ha voluto evacuare immediatamente un villaggio occupato “illegalmente” anche se questo trattamento non viene effettuato per la continua occupazione di colonie e avamposti israeliani sul suolo palestinese anzi la maggiorparte delle volte considera legali queste occupazioni selvagge.
    Abdullah Abu Rahme, coordinatore dei comitati popolari di restistenza nonviolenta palestinese, sarà a Genova il 24 gennaio accompagnato da Luisa Morgantini (già vice presidente del parlamento europeo) per raccontare l’esperienza dei comitati e del perchè il popolo palestinese si rifiuta di morire in silenzio.
    L’incontro sarà il 24 gennaio alle h.21 presso la Cooperativa Sociale “Il Laboratorio di piazza Cernaia 3/6”.
    Per maggiori informazioni:
    Sito web: www.nofiringzone918.org / www.operazionecolomba.it/nofiringzone918
    Petizione online: http://www.change.org/en-GB/petitions/campaign-for-abolition-of-firing-zone-918-in-south-hebron-hills 
    (Maria Di Pietro)

  • OLI 361: NATALE – Betlemme, il Natale a un passo dall’inferno

    Buon Natale.
    Betlemme si sta preparando al Natale: il piazzale della Chiesa della Natività è illuminato da luci colorate, dentro la chiesa ci sono le processioni di avvento in attesa del Natale.
    Nella chiesa al piano inferiore c’è la stella dorata che indica il luogo dove più di 2000 anni fa è nato Gesù Bambino.

    In questo periodo molti pellegrini si recano a Betlemme per il pellegrinaggio natalizio e visiteranno i luoghi circostanti come da classico programma di pellegrinaggio: Gerusalemme, Nazareth, Gerico e Betlemme.
    Chissà che momenti suggestivi per un pellegrino cristiano partecipare alla messa di Natale proprio in uno dei luoghi più importanti del Vangelo.
    Ma a Betlemme non c’è solo la chiesa della Natività che ogni anno attira pellegrini da tutto il mondo, lì vicino c’è il campo profughi di “Aida” dove abitano cinquemila persone sia musulmane che cristiane sfollate dai propri villaggi, e dove sabato sono avvenuti degli scontri tra i militari israeliani e i ragazzi profughi; c’è la colonia di Gilo costruita sulla terra espropriata illegalmente ai palestinesi, c’è il check point 300 dove la mattina alle 4 si trova una fila di palestinesi che si recano a Gerusalemme per lavoro: solo chi ha il permesso di lavoro, che viene rinnovato ogni 3 mesi, può oltrepassare il muro di divisione dopo ore di controlli.
    I palestinesi di Betlemme non possono recarsi al di là del muro senza permessi.
    Sono molti i palestinesi che non hanno mai visto Gerusalemme che dista a soli 7 km da Betlemme.
    Caro pellegrino cristiano e credente che ti stai recando a Betlemme, ricorda che se Gesù nascesse oggi in Palestina sarebbe un profugo o un perseguitato solo perché nato nei territori occupati, e quindi considerato altamente pericoloso dal governo israeliano.
    Per il messaggio di giustizia e amore che ha dato durante la sua vita sarebbe dalla parte degli oppressi.
    (Maria Di Pietro –  Foto dell’autrice)

  • OLI 360: TESTIMONIANZE – Perché vai in Palestina?

    Vittorio Arrigoni

    Perché vai in Palestina? Al corso di formazione per andare nei territori occupati mi chiedono cosa mi spinge a fare questo viaggio, cosa mi fa paura e cosa mi aspetto.
    L’ultima volta che sono stata in Palestina è stato quattro anni fa e da quel periodo sono successe molte cose in quella terra: l’occupazione militare si espande, gli arresti e incursioni sono maggiori, l’operazione piombo fuso che a Gaza mette in ginocchio una popolazione, l’assassinio di Vittorio che avevo conosciuto a Genova e che mi aveva dato il suo libro “Restiamo umani”, la collaborazione al documentario per la traduzione di “Le lacrime di Gaza” ecc.
    Ho voglia di tornare in Palestina e interagire con persone che vivono quotidianamente l’occupazione, ho voglia di entrare nelle loro storie e nel loro vissuto e mi piacerebbe tornare in Italia con delle interviste e del girato da mostrare. Se ho paura? Sì certo, sono consapevole di trovare un clima di tensione, ho paura di non saper gestire le eventuali ansie, ho paura di non sapermi muovere da sola in un paese in conflitto e ho l’ansia di subire un eventuale interrogatorio per entrare ed uscire dal paese da parte delle autorità israeliane. Cosa mi aspetto? Giornate cariche di input che mi permettono di mettermi in gioco ogni momento. Certo che le paure ci sono, ma le motivazioni per partire sono maggiori. Prenoto un biglietto aereo e dopo 15 giorni mi trovo sull’aereo per Tel Aviv: prima destinazione Ramallah nei territori occupati, poi si vedrà. Starò in Palestina circa un mese.
    Tutto quello che mi motivava e che mi angosciava prima della partenza si è avverato.
    A distanza di quattro mesi dal mio ritorno penso sia stato un viaggio forte sia emotivamente sia psicologicamente, un viaggio difficile ma intenso. Ho vissuto incontri emozionanti, ho ascoltato storie che mi sono entrate nel cuore, storie di una Palestina che subisce l’occupazione militare israeliana e che subisce violenze e assedi affinché gli interessi economici israeliani siano difesi e tutelati; ho raccolto storie di palestinesi che hanno ricordato momenti della prima o seconda intifada, ho incontrato i profughi che vivono nei campi sia in Palestina sia in Libano a Chabra e Chatila e che sono entrati per la prima volta nella loro terra. Storie di persone che fanno resistenza non violenta e soprattutto storie di palestinesi che hanno voglia di normalità.
    Cerco di documentare e di intervistare, però la maggior parte delle volte è bello stare a contatto con le persone senza una telecamera che separi l’intimità che si crea; sono tutti molto ospitali, ti invitano a casa e con la scusa di bere un tè insieme ognuno entra nella vita dell’altro. Non è sempre facile girare nei territori, i controlli da parte dei militari israeliani sono all’ordine del giorno, le lunghe attese ai check point mi innervosiscono; non riesco ad abituarmi al filo spinato disseminato ovunque, alle torrette di controllo e al muro che divide i due popoli, ai rumori assordanti di alcuni aerei militari che periodicamente sfrecciano nell’aria. Tutto questo è assurdo. Cercherò di raccontarvelo.
    (Maria Di Pietro – immagine da internet)

  • OLI 359: ESTERI – Benvenuta Palestina

    Con 138 voti a favore, 9 contro e 41 astenuti, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato, il 29 novembre, una risoluzione che promuove la Palestina a Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite.

    “65 anni fa, in questo giorno, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione 181, che divideva la terra della Palestina storica in due stati, e ciò divenne il certificato di nascita di Israele”, ha affermato Abbas di fronte all’assemblea delle 193 nazioni, ricevendo applausi entusiasmanti.
    Il 29 novembre del 1947 l’Onu approvò il piano di spartizione della Palestina, con uno Stato di Israele e uno Stato palestinese che invece non è mai nato.
    Le pressioni e ricatti al presidente Mahmoud Abbas non sono mancati e fino all’ultimo si è temuto che l’Olp si tirasse indietro.
    I voti contrari sono stati quelli di Stati Uniti, Canada, Israele e pochi altri.
    I diplomatici israeliani hanno accusato l’Olp di seguire la strada della guerra e non della pace e hanno minacciato di non trasferire i proventi delle tasse all’Anp e di imporre nuove restrizioni sui movimenti. Si tratta di circa 92 milioni di euro che, anziché essere trasferire all’Anp, per conto di cui sono stati raccolti, rischiano di essere trasferiti da Israele alla società elettrica israeliana.

    Gli Usa hanno minacciato il ritiro totale degli aiuti economici, come già fatto in occasione del voto di ammissione della Palestina presso l’Unesco.
    Il governo italiano, dopo le dichiarazioni del ministro Terzi, durante l’operazione a Gaza “Pillar of Clouds”, di proporre che il voto non avesse luogo, ha cambiato idea forse spinto dal pronunciamento del si di altri paesi europei.
    L’aver ottenuto il nuovo status è un passo fondamentale nella lotta per la giustizia. Questo permetterà alla Palestina e ai suoi cittadini, ancora sotto shock per lo sterminio avvenuto a Gaza i giorni scorsi, di accedere alla Corte penale e alle altre sedi giuridiche internazionali dove potrebbe presentare un’istanza contro il governo israeliano.
    La reazione di Netanyahu è stata di superbia, ha annunciato la costruzione di 1600 unità abitative in aggiunta alle 3000 previste nel corridoio tra Tel Aviv e Gerusalemme: se ciò si verificasse, spezzerebbe in due parti la cisgiordania e renderebbe impossibile la creazione di uno Stato palestinese.
    Intanto ieri l’assemblea generale delle nazioni unite ha approvato una risoluzione con la quale chiede ad Israele l’ingresso di ispettori nei siti nucleari. Un’altra sorpresa negativa per Netanyahu che continua ad ignorare le richieste di alcuni paesi dell’Ue (Francia, Danimarca, Spagna e Svezia) che hanno convocato gli ambasciatori israeliani per comunicare la loro preoccupazione.
    Chissà se il portare “democrazia” nei territori occupati attraverso incursioni militari e con l’uso di armi non convenzionali porterà Israele ed essere sempre più isolato dal resto del mondo soprattutto ora che ha gli occhi puntati addosso.
    Di certo i palestinesi si sveglieranno anche oggi con i soldati israeliani sul loro territorio, i coloni aggrediranno i contadini e i pescatori, spianeranno terra e sradicheranno alberi, ma una scintilla è stata accesa.
    (Maria Di Pietro – Foto da internet)

  • OLI 358: CITTA’ – De Ferrari crocevia: donne, Gangnam style e Palestina

    Foto di Giorgio Bergami

    Sabato 24 novembre Piazza De Ferrari è stato un interessante crocevia, e forse è proprio questo insieme, questa contemporaneità di eventi, che andava raccontata. Attorno ai gradini di Palazzo Ducale dal primo pomeriggio bandiere, musica araba e un centinaio di persone che manifestavano a sostegno del popolo palestinese e per raccogliere medicinali tramite l’associazione Music for Peace. L’evento più separato e ignorato. Contemporaneamente le donne della “Rete di donne per la politica” e di “Se non ora quando” avevano iniziato ad allestire una iniziativa contro la violenza sulle donne: uno ad uno più di cento di palloncini bianchi sono stati gonfiati, vi è stata disegnata in nero una croce, e sono stati gettati nella fontana, con l’acqua colorata in rosso.

    Un palloncino per ogni donna uccisa in Italia dalla violenza maschile. Poi a poco a poco iniziano ad arrivare ragazzine e ragazzini, girano intorno alla fontana rossa che si sta popolando dei palloncini, qualcuno li prende, li tira di nuovo nell’acqua, giocano, non capiscono, e chiedono. Non sapevano cosa volesse dire, che senso dare a quel rosso e a quel bianco. Manifestano stupore, non riescono a credere che i violenti siano quasi sempre dentro la famiglia.
    Molte e molti non avevano proprio idea dell’esistenza e della dimensione della violenza verso le donne, solo in pochi casi ne avevano parlato a scuola. Le giovanissime ragazze però si sentono forti: “li mettiamo a posto noi, i maschi!” Una mi dice: “ma adesso tra un po’ come facciamo? Voi fate questa cosa e alle quattro e mezza noi balliamo la danza coreana … ” e mi fa dei gesti ritmici che suppone che io comprenda al volo. Questa volta sono io a non capire.
    Nella mia disinformazione nulla sapevo di questo flash mob promosso via Face Book per ballare il ‘Gangnam Style’. Non sapevo che su Youtube il video che ha reso famoso questo ballo ha avuto 825.545.515 visualizzazioni, in assoluto il più visualizzato del mondo, e ingenuamente le dico, beh qui c’è spazio per tutti … Proprio non immaginavo. E ancor nemmeno immaginavo che potesse esserci un anello di congiunzione tra cose tanto diverse.
    Lo scopro quando vedo le studentesse del “Gobetti”, anima coreografica dell’evento, indossare delle magliette tutte eguali, con davanti scritto in rosa “Respect, I’m pro woman” e dietro “Ne tocchi una, ci tocchi tutti”. Portano cartelli e scandiscono slogan che si collegano a quelli di anni passati Le donne di oggi hanno memoria, fuori la violenza dalla storia, Abbattiamo il muro della violenza, Col silenzio e l’indifferenza si nasconde la violenza. Alcuni ragazzi al collo portano scritto La violenza sulle donne fa violenza anche a me. Si scopre che se ne è parlato in classe, che le ragazze hanno fatto una ricerca, hanno trovato slogan del passato, e li hanno uniti alle parole e ai gesti del presente.
    (Paola Pierantoni – foto dell’autrice e di Giorgio Bergami

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    Interviste sul Secolo XIX on line 


  • OLI 353: ESTERI – Guerra tribale e di religione negli USA di Obama

    Secondo il New York Times di ieri, i capi di quindici Chiese cristiane americane hanno scritto una lettera al Congresso invitandolo a riconsiderare la concessione di aiuti a Israele accusato di violazioni dei diritti umani. La lettera ha indignato i capi religiosi ebrei americani che hanno minacciato di bloccare il dialogo ebraico cristiano e gli sforzi di lunga data per costruire relazioni interreligiose. I leader cristiani affermano che la loro intenzione era quella di mettere sotto i riflettori la situazione palestinese ed i negoziati di pace tra palestinesi ed israeliani, oggi in stallo. Tutta l’attenzione alla politica in Medio Oriente – dicono – sembra oggi incentrata sulla Siria, la primavera araba e la minaccia nucleare iraniana. “Abbiamo chiesto al Congresso di trattare Israele come farebbe con qualsiasi altro paese – ha detto il Rev. Gradye Parsons, l’alto funzionario della Chiesa Presbiteriana (USA) – per essere sicuri che il nostro aiuto militare stia andando ad un paese che abbraccia i nostri valori come gli americani e che non sia utilizzato per continuare a violare i diritti umani degli altri.” I leader ebrei hanno visto l’iniziativa dei capi delle chiese cristiane come un tradimento epocale ed hanno annunciato che non parteciperanno alla riunione di dialogo ebraico – cristiano da tempo prevista per il Lunedì prossimo. In una dichiarazione, i capi religiosi ebraici, hanno definito la lettera dei gruppi cristiani come “un passo troppo lungo” ed un segnale di “vizioso anti-sionismo”.
    (Saleh Zaghloul)

    Il link all’articolo del New York Times di ieri:
    http://www.nytimes.com/2012/10/21/us/church-appeal-on-israel-angers-jewish-groups.html?_r=0

    Il testo della lettera dei quindici capi religiosi cristiani americani
    http://globalministries.org/news/mee/pdfs/Military-aid-to-Israel-Oct-1-Final.pdf