Un reporter riprende un lavoratore che fotografa un fotografo mentre scatta primi piani a Landini. L’immagine più evidente che si è nel cuore di una rappresentazione è data dal fatto che, ad un certo punto, due fotografi sistemano un casco ILVA proprio sopra i tubi innocenti che reggono il palco, come se quel casco fosse stato dimenticato da un operaio, ed iniziano a scattare foto.
Quella con Landini, non è, come promesso dal volantino affisso nelle bacheche aziendali, un’assemblea. Ma è incontro a porte spalancate, con stampa, lavoratori e cittadini. Un momento storico per l’ILVA di Cornigliano una giornata che ha dato alla siderurgia genovese visibilità, ma non un’assemblea che significa confronto, riflessione, condivisione di idee, tra lavoratori e sindacato.
Landini – dio lo benedica per il suo impegno politico – ha detto le cose che dice a Ballarò, Piazza Pulita, Servizio Pubblico, ma ha perso un’occasione importante: sentire le opinioni di chi in quella fabbrica lavora e di chi da quella fabbrica è stato messo in cassa integrazione. Dispiace che tutto diventi media, che in questo cacofonico rivolgersi all’esterno non ci sia più tempo per un ascolto autentico, il tempo per le parole. Anche scomode. Quelle che il sindacato non vuole sentir dire. I numeri, investiti in questa partita, sulla carta non permettono di immaginare grandi scenari sul fronte dei salari che drenano milioni di euro al mese. Un miliardo e duecento milioni dei Riva – ancora da rimpatriare – sono esclusivamente destinati alla legittima realizzazione dell’AIA e 556 milioni, provenienti dalle risorse della cassa depositi e prestiti oltre che dai soldi di Fintecna, sono una cifra che ILVA è capace di fumarsi in 6 mesi soprattutto alla luce dell’anticipata chiusura dell’altoforno 5 – indispensabile per la messa in sicurezza dell’impianto – che ridurrà ulteriormente la capacità produttiva del sito di Taranto già oggi, in perdita. I conti non tornano.
La Newco è ancora un soggetto molto magmatico. Si aggiunga che i Riva hanno fatto ricorso contro lo stato di insolvenza dell’Ilva lamentando che La mano pubblica potrà impunemente non eseguire quelle stesse misure per la realizzazione delle quali ha illegittimamente sottratto a degli imprenditori privati la propria fabbrica. E’ vero che nella fase più delicata della discussione del decreto legge, Claudio Riva aveva chiesto che si terminasse il ciclo delle audizioni in Commissione Senato, prima di procedere alla dichiarazione di insolvenza dell’ILVA, richiesta inascoltata. Che piaccia o meno – e la gestione Riva non è piaciuta affatto – a processo ancora da fare, le scelte strategiche che hanno riguardato l’Ilva rischiano di essere oggetto di ricorsi da molti fronti e sanzioni, comprese quelle della Comunità Europea.
Un ragionamento con Landini poteva mettere a fuoco dove trovare 150 milioni di euro per l’impianto della banda stagnata. Altro spunto di riflessione cosa ne sarà delle centinaia di lavoratori genovesi oggi “utile risorsa” degli enti pubblici, destinati però a rientrare a settembre 2015 con i contratti di solidarietà, e ancora cosa significa nel testo della legge, votata dal parlamento “garanzia di adeguati livelli occupazionali”.
Adeguati, rispetto a quale modello siderurgico? Sulla base di quale piano industriale?
Si fa strada il precedente Alitalia, e qualcuno, purtroppo, vuole afferrarlo al volo.
(Giovanna Profumo)
Categoria: Siderurgia
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OLI 422: ILVA – Landini, media assemblea
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OLI 413: ILVA – Gnudi alla meta
Ci risiamo.
A un chilometro dalla sede della Film Commission di Genova sono iniziate le riprese della nuova stagione della serie ILVA e l’Accordo di Programma. Una produzione tutta genovese che vede nel cast un migliaio di comparse, diversi attori, alcune new entry – come il commissario Piero Gnudi – magnati dell’acciaio, politici e i sindacati.
Difficile ragionare di siderurgia a Cornigliano senza dubitare che quanto accade non sia fiction, un mega Lost, la cui regia è stata affidata nel passato alla superficialità spavalda di pochi potenti.
Dal 2005 ad oggi l’Ilva di Genova – dopo la chiusura dell’area a caldo, accompagnata dalla promessa di un faraonico piano industriale che doveva garantire occupazione a 2200 addetti a Cornigliano – ha perso mille posti di lavoro ai quali si aggiungeranno, dal 1° ottobre, settecentosessantacinque dipendenti collocati, per un anno, in cassa integrazione in deroga e destinati a lavori di pubblica utilità. Settecentosessantacinque, ai quali è stata presentata la bozza dell’Allegato C al Secondo Atto Modificativo dell’Accordo di Programma. Lavoratori che non sanno, se non attraverso articoli di stampa (Secolo XIX), al 30 settembre, dove andranno a lavorare il 1° ottobre, perché i progetti ai quali dovrebbero essere destinati nessuno li ha ancora indicati loro e nessuno è stato in grado, ad oggi, di dare certezza assoluta che siano finanziati.
Un milione di metri quadrati di aree assegnate dal 2005 per mantenere e creare lavoro, hanno prodotto questo bilancio disastroso, al quale vanno sommati i contraccolpi dell’inchiesta tarantina Ambiente Svenduto.
Una balena spiaggiata, definivano il gruppo ILVA alcuni commentatori economici, all’avvio dell’inchiesta; commentatori che invocavano la necessità di salvare il colosso siderurgico perché rappresentava il 4% del Pil nazionale
Monti aveva individuato in Enrico Bondi l’uomo giusto per occuparsi della faccenda. Una missione difficile poiché attuare le prescrizioni dell’Aia a Taranto, individuare i fondi, immaginare un piano industriale in grado di sostenere la filiera nazionale per produrre acciaio, senza il rischio di avvelenare la gente, erano una meta coraggiosa che pretendeva tempo e sulla quale il governo avrebbe dovuto assolutamente investire risorse, recuperabili solo dopo la fase di risanamento. Risorse che si è preferito anche questa volta destinare agli F35, risorse sottratte a sanità, scuola e lavoro.
L’errore del commisario Bondi, qualcuno ha detto in azienda, è stato quello di voler mettere la mani nel tesoro dei Riva. A giugno 2014, nuovo giro di giostra, il governo Renzi dà il benservito a Bondi colpevole di aver presentato un piano industriale che non piace ai Riva e ai vertici della siderurgia tricolore (la Repubblica 9.6.14). E con lui si liquida il lavoro di un anno, e un piano che prevedeva per Genova sostaziosi investimenti in un impianto di banda stagnata (presente in origine nell’Accordo di Programma e cancellato nel 2008).
In questo mese, delegazioni di siderurgici indiani visitano gli impianti del gruppo valutando acquisti a prezzi di saldo. La vocazione industriale del nostro paese viene ceduta agli indiani, gli stessi con i quali l’Italia non ha dimostrato l’autorevolezza per mediare il rientro definitivo nel paese di due marò.
Si poteva evitare tutto questo a Genova?
Ai Componenti del Collegio di Vigilanza, alla politica locale, ai sindacati e ai vari governi che per nove anni hanno seguito le vicende dell’Accordo di Programma, va posta questa domanda.
Ai lavoratori della Sertubi di Trieste si possono chiedere notizie in merito alla loro significativa esperienza con la società indiana Jindal Saw.
Sapranno essere parecchio esaustivi.
(Giovanna Profumo – foto dell’autrice) -
OLI 410: ILVA – Se anche Edo Ronchi lascia la partita
Se le le cose andranno come qualcuno ha deciso, fatta carta straccia di un anno di lavoro e del piano industriale di Enrico Bondi, parte dell’Ilva verrà svenduta, con la benedizione di Federacciai, spacchettata e una buona percentuale di Pil – chi non ricorda il mantra proprio sul Pil quando erano iniziate le inchieste della Todisco? – sarà polverizzata dalla concorrenza straniera.
Forte il rischio che, tra due o tre anni, succeda come sta accadendo oggi in Alitalia: chiusura di stabilimenti ed esuberi da accompagnare alla porta.
Una delegazione di Arcelor Mittal sta mappando tutti i siti produttivi dell’azienda ma anche la fantasia più ottimista fatica ad immaginarli travestiti da Olivetti mentre investono miliardi di euro per contribuire a rendere ecocompatibile l’Ilva di Taranto. Più probabile, invece, che mirino a quote di mercato. Non stupisce che proprio mentre ci sono movimenti così importanti di un gruppo straniero, la Riva Fire abbia deciso, proprio ora, di presentare ricorso al Tar del Lazio contro il piano ambientale dell’Ilva, bollandolo come atto unilaterale (Secolo XIX, 9 luglio 2014).
Mentre al livello nazionale si spostano queste pedine, su quelle di Genova, i 1740 dipendenti di Cornigliano, pende la spada di Damocle della fine dei contratti di solidarietà il 30 settembre. Un assaggio di quello che potrà accadere, se il problema non verrà tempestivamente risolto, si è visto i 3 e il 4 luglio quando un gruppo di lavoratori – dopo aver sentito le ragioni del direttore di stabilimento sulla mancanza di risorse per pagare i premi a luglio – è sceso in sciopero bloccando la città. Gli operai dell’Ilva di Genova sono abituati così, il salario – non lo stipendio – ha detto in assemblea uno di loro, rivendicando la provenienza di classe – non si tocca. Qui siamo. Un’azienda alla deriva, che stava lentamente riprendendo la rotta del proprio futuro con Enrico Bondi, viene nuovamente spinta in balia delle onde e affidata ad un nuovo Comandante Commissario che dovrà ripercorrere le tappe del predecessore per capire come gestire un gruppo di 16mila unità nella fase di crisi più acuta. Se non fosse successo davvero sarebbe una barzelletta.
A Genova, in assemblea, i lavoratori hanno sollecitato le OO.SS Ilva a ritrovare l’unità sindacale andata dispersa da un sito all’altro e c’è chi ha chiesto al sindacato di cambiare marcia rispetto al passato. Richiesta ancor più giustificata viste le evidenti perplessità espresse sull’ultimo decreto ILVA , decreto che ha spinto anche Edo Ronchi a fare un passo indietro e a sottrarsi dalla partita. In assemblea, le parole sono state sempre le stesse: stipendio, salario, famiglie, lavoratori, dignità, operai, padrone, produzione, reddito, posto, sciopero. E Accordo di Programma: la bitta alla quale sono incatenate tutte le garanzie del sito produttivo di Cornigliano e dei suoi dipendenti. Nell’aria la consapevolezza che allo stabilimento dell’Ilva di Genova e non solo lì si aprirà un nuovo doloroso capitolo.
Forse il più difficile.
(Giovanna Profumo – foto dell’autrice) -
OLI 409: ILVA – Al tempo di Burlando
I Rom sono stati fatti spostare. Alloggiati in corridoio. Praticamente un’unghia che, nella mappa delle aree di Cornigliano, si colloca tra Via Muratori e la palazzina della Film Commission, quella che un tempo ospitava la mitica direzione delle Acciaierie. Il corridoio è transennato. Nomadi, roulotte suppellettili sono tutti lì, circondati da una cancellata. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Certo, non abitano più sul ciglio della strada, quindi, il rischio che un bambino finisca sotto una macchina, almeno sulla carta, dovrebbe essere ridotto.
Da lì all’accesso Est dell’Ilva il paesaggio è lunare: aree spelacchiate, lego di container colorati, il cantiere della strada a mare, cumuli di terra.
Dentro allo stabilimento il paesaggio è emotivo. Scandito, soprattutto, da articoli di stampa e voci da macchinetta del caffè. Si accenna ad una delegazione di siderurgici indiani venuta in visita in fabbrica, e si teme, dopo l’allontanamento di Enrico Bondi, che l’Ilva si avvii ad un rapido spacchettamento nei vari siti produttivi, per essere messa sul mercato, non come corpo organico ma a pezzi. Ipotesi, timori che si aggiungono alla preoccupazione che al 10 luglio non ci siano risorse per pagare gli stipendi
Puntuali le dichiarazioni del sindacato, senza salario millesettecento persone a Genova e 12mila nel territorio nazionale possono “diventare un problema”. Le modalità sono note alle prefetture, il copione già scritto.
La scelta governativa di sostituire Bondi con Gnudi costringe adesso a tornare ai blocchi di partenza cestinando un piano che presupponeva un investimento di capitale per il 2014 da 1,8 miliardi e una necessità di cassa da 3,5 miliardi. Cifre inimmaginabili senza un impegno concreto dello stato. Ma questo si sapeva. Come a Genova i dipendenti sanno che, a fine settembre,scadono i contratti di solidarietà e allora il governo dovrà immaginare qualcosa, visto che la creatività non difetta.
All’Ilva, si è accennato anche durante la tormentata assemblea di Confindustria il 30 giugno. In agenda: “I perché di un insuccesso – Evitare gli errori di ieri per le scelte di oggi”. Ma sono state allusioni a tavoli, ad aziende interessate, a ipotetici soggetti. E a “pezzettini” ha detto Burlando “che si liberano di Piaggio e di Ilva” sui quali qualche imprenditore potrebbe voler investire. Tutto di una vaghezza disarmante.
Poi, Burlando, riferendosi a certe dinamiche di Confindustria di cui pare sia stata vittima la sua azione politica, ha dichiarato: “io non ho più tempo da perdere”.
Davvero?(Giovanna Profumo – Foto dell’autrice)
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OLI 397: ILVA – Guido Rossa, i bambini nel deserto
Cosa direbbe oggi Guido Rossa se fosse qui?
E lui è qui! Basterebbe chiudere gli occhi e attorno a noi potremmo sentire una folata di vento dolcissima
E se lui è qui, cosa direbbe oggi in questo contesto?
Lui direbbe che bisogna difendere la classe lavoratrice!
Lui direbbe che oggi la crisi pretende che ci sia più giustizia e più uguaglianza!
Lui direbbe che quando si firma un accordo, quell’accordo va rispettato!Carla Cantone, Spi-Cgil in occasione della commemorazione di Guido Rossa il 24.1.14Quando tutto si mescola il quadro risulta confuso.
Questa operazione favorisce i responsabili di azioni, ancor più se numerosi, nell’evitare con cura di riconoscere i propri errori e porvi rimedio.
Nella faccenda dell’Ilva di Cornigliano il quadro, dopo nove anni, è diventato un pastone letale. Ma quello che lascia basiti è l’assenza totale di un bilancio politico che individui le ragioni per le quali si è arrivati qui.
La colpa, quando si è parlato di siderurgia genovese, è sempre stata di altri – magistratura, ambientalisti, crisi – questo ha consentito negli anni passati l’auto-assoluzione di tutti i firmatari dell’Accordo di Programma. Con la differenza che un colpevole oggi – ma solo oggi – pare sia stato individuato: Riva.
Adesso, che quel nome – dominus incontrastato di Cornigliano – è stato cancellato persino sui cartelli dei parcheggi riservati di stabilimento, è permesso prendere atto pubblicamente che l’Accordo di Programma non è stato rispettato, va riveduto e che bisogna porre rimedio all’emergenza occupazione.
Il presidente della Regione ha il candore di un ragazzino che finisce un ciclo scolastico, non un cicloamministrativo, quando invoca un nuovo accordo per l’acciaio.
Ma che ne è stato dell’altro? Perché chi doveva vigilare o quantomeno proporre soluzioni alternative per una prospettiva occupazionale seria ha taciuto?
Il deserto siderurgico descritto da Bruno Viani sul Secolo XIX del 25 gennaio è frutto di nove anni di assenza di vigilanza con la volontà di silenziare le voci di chi diceva che con quegli impianti era fantascienza occupare tutti. In quel deserto sono stati fatti rientrare cinquecento lavoratori tre anni fa, dopo cinque anni di lavori socialmente utili, per essere collocati il giorno dopo nei contratti di solidarietà. Di quel deserto prima era vietato parlarne. Scoraggiante sollevare la questione anche nelle assemblee sindacali dove l’analisi del rapporto occupazione-impianti veniva allontanata con malcelato fastidio.
In tutto questo Guido Rossa cosa c’entra?
La retorica sui lavoratori dovrebbe, almeno oggi, avere il pudore di fare un passo indietro, senza mettergli in bocca valutazioni sul presente e sul futuro della sua fabbrica.
Meglio sarebbe stato dare più spazio ai bambini della scuola elementare X Dicembre in quell’ora di ricordo per Guido. Alle loro fabbriche dai nomi magici – Guanto Schioccante, Desiderio, Clanma – disegnate con cura e fatte scivolare sotto gli occhi di telecamere veloci a registrare la tenerezza dell’evento: i bambini nel reparto di Guido Rossa. O far raccontare alla loro maestra come si spiega oggi ai bambini la realtà delle fabbriche italiane.
Chissà come si insegna a difendere i grandi sogni.
(Giovanna Profumo – foto dell’autrice) -
OLI 365: ILVA – Purtroppo, in Clini
Corrado Clini, Ministro dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare, è stato invitato sabato 9 febbraio alla Prima Conferenza Programmatica del PD di Genova, titolo Connessioni, fare per fermare il declino.
Interpellato sulla questione ILVA, il Ministro ha rilasciato la seguente dichiarazione:Il relatore della legge su Ilva ha fatto un lavoro preziossimo in una situazione molto difficile. Quello che noi abbiamo fatto è stato applicare le direttive europee. Sostanzialmente abbiamo riscritto l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) utilizzando come riferimento la lista delle migliori tecnologie che vanno applicate nella siderurgia europea, pubblicate dalla Commissione Europea a marzo del 2012, l’abbiamo trasferita nell’autorizzazione per ILVA, abbiamo detto all’azienda: questo è il contesto nel quale le attività industriali possono essere esercite.
Abbiamo detto chiaramente all’azienda che non c’erano margini di contestazione, cioè se loro volevano aprire una contestazione come avevano fatto negli anni passati – conflitti, attacchi ecc. – noi, sostanzialmente, non avremmo concesso margini, perché ormai il tempo era andato troppo oltre e su questo l’azienda ha accettato e ha sottoscritto un piano di interventi.
Come sapete c’è in atto una polemica, che è ancora ovviamente in corso, sulla possibilità di chiudere, perché i danni erano troppo grandi, eccetera. Noi siamo rimasti fermi su un principio: che se si rispettano le direttive europee e le leggi nazionali c’è la garanzia per la protezione dell’ambiente. Ci sono dei problemi di eredità del passato che sono pesantissimi, ma che vanno separati, perché altrimenti, se non si afferma questo principio, viene a mancare un riferimento che non vale solo per l’ILVA, ma che vale per qualunque attività. E su questo abbiamo tenuto il punto. C’è un dialogo in corso con la magistratura di Taranto che mi sembra si stia evolvendo in modo positivo.
L’azienda oggi a Taranto è in condizioni di produrre pienamente perché l’unico sequestro rimasto attivo riguarda una quota di prodotti finiti in un periodo per altro molto limitato.
Il problema che abbiamo ora è, purtroppo – posso dire purtroppo perché avrei voluto non avere questo problema di fronte – la verifica dell’affidabilità dell’azienda in termini di investimenti per attuare completamente le prescrizioni dell’AIA. Su questo stiamo lavorando con l’impresa. Abbiamo chiesto all’impresa – come è già stato chiesto, per altro giustamente, anche dalle organizzazioni sindacali – di legare la riqualificazione industriale, prevista dall’Autorizzazione Integrata Ambientale, con un piano industriale dell’impresa e con un piano finanziario e su questo stiamo lavorando.
Io sono abbastanza confidente, perché credo che una parte importante dei problemi è stata risolta. Abbiamo anche previsto nella legge, nel caso in cui l’azienda non sia in grado di corrispondere ai suoi impegni, subentrano altre procedure di gestione dello stabilimento perché comunque consideriamo questo un presidio industriale strategico per il paese.
Penso che anche questo sia un tema che rimarrà aperto nei prossimi mesi, perché sarà necessario continuare a lavorare nell’area, verificare che cosa avviene. In parallelo è partito il piano del risanamento del territorio, abbiamo insediato la struttura a Taranto che si sta occupando di questo, legata anche alla riqualificazione del porto, per cui tutto sommato oggi gli elementi positivi sono molto più importanti degli elementi negativi.
(a cura di Giovanna Profumo – foto dell’autrice) -
OLI 361: LETTERE – Mio padre all’ILVA di Taranto
Mentre passavo da piazza Corvetto osservando la disperazione e la rabbia degli operai dell’ILVA, ho pensato a quando, nel 1967 a Taranto, mio padre mi disse che costruire in quel modo lo stabilimento siderurgico preludeva a disastri ambientali e sociali. E che la colpa era della politica, dell’avidità, dell’ignoranza e dell’infernale combinazione di questi tre elementi. Oggi avrebbe usato il termine collusione. L’Italsider aveva trasferito Giovanni Sissa a Taranto nel 1966. Dottore in Chimica, siderurgista, aveva lavorato prima alla SIAC (Società Italiana Acciaierie Cornigliano) e poi all’Italsider. Era un quadro (anche se allora l’espressione non usava), ma soprattutto era un tecnico. Bravo. Conosceva i processi industriali e chimici, ma anche la realtà del lavoro in officina, che aveva seguito come responsabile a Campi, prima e dopo la Guerra. La fabbrica aveva contribuito a salvarla da partigiano durante la resistenza in città. E poi, dopo la fine della Guerra, in fabbrica ci stava e tanto, con gli operai nei reparti della lavorazione a caldo.La SIAC fu assorbita dall’Italsider a metà degli anni ’60. Forse i suoi eroici trascorsi da partigiano di Giustizia e Libertà non gli giovarono in un’Italia dove solo chi era democristiano o comunista aveva dei punti di riferimento e sostegno. Essere un bravo tecnico, competente, indipendente, coraggioso e senza copertura politica non era il mix vincente. Appena entrato all’Italsider fu spedito a Taranto, quando si stava costruendo appunto lo stabilimento.
In quanto siderurgista e innovatore, con anche una ottima conoscenza dell’inglese, spesso era stato a contatto con tecnici del settore di altri paesi, in particolare giapponesi e russi. Era stato Bruxelles presso la CECA. Conosceva i processi di produzione dell’acciaio, capiva la dinamica industriale internazionale. Insomma conosceva bene il settore ed era dotato di una buona capacità previsionale, come dimostrato in altre occasioni. Antifascista della prima ora, aveva infatti perso i diritti politici per aver detto in fabbrica nel 1939 che se l’Italia fosse entrata in Guerra l’avrebbe persa perché l’esercito non era equipaggiato (la Guerra però la fece ed in Africa, salvandosi per puro miracolo).
Quella di Taranto fu per lui un’esperienza devastante, perché sentiva che nessuna ascoltava il suo parere ed i timori di quanti non accettavano di chiudere gli occhi. Ma i giochi erano troppo grossi per permettere ripensamenti. Sentiva che restando in servizio si sarebbe reso complice di quello che lui aveva previsto sarebbe stata una catastrofe industriale ed ecologica. Accettò dunque nel 1968 un prepensionamento forzoso, molto penalizzante.
Trascorsi con lui a Taranto solo un breve periodo, durante le vacanze scolastiche. Era una città lontanissima da Genova nel 1967. Ricordo la meraviglia nello scoprire come fosse il mare al Sud. Nata e vissuta Genova, non avevo mai visto tanto pesce, tante conchiglie, tanti coralli, e su una spiaggia così bianca. Proprio in città. Era davvero un viaggio andare da Genova a Taranto, in auto, quando ancora l’autostrada fra Sestri Levante e La Spezia non c’era. Si iniziava con il Passo del Bracco e poi via, fino a perdersi sui monti dell’Irpinia. Si arrivava dopo decine di ore. Di aerei neanche a parlarne (forse i treni invece erano meglio di adesso).
Era là che tutto era diverso. Era un territorio che non aveva alcuna tradizione industriale, quindi né una cultura né una coscienza collettiva pregressa. Senza esperienza di incidenti sul lavoro, di lotte per il lavoro, di sviluppo industriale e di sue contraddizioni, mancano gli anticorpi sociali sul territorio per reggere l’impatto di un’industrializzazione improvvisa di quella portata.
Oltre all’ambiente marino, bellissimo, dove sembrava il tempo di fosse fermato, c’era intorno alla città una campagna splendida, con caratteristiche di armonia arcaica. Era inimmaginabile che le pecore delle masserie locali sarebbero state un giorno abbattute perché contaminate della diossina.
Nonostante questa immagine “da cartolina” della Taranto di allora, era però possibile prevedere. Se era stato in grado di farlo mio padre, al punto di preferire di chiudere malamente la sua carriera piuttosto che rendersi connivente dello scempio in nuce, evidentemente era possibile.
Mi domando oggi cosa penserebbe oggi se fosse vivo. Di almeno una sua considerazione sono certa: che per non ripetere gli errori vanno comprese le cause. Non dimenticare per non ripetere gli errori.
Il conflitto fra potere esecutivo e potere giudiziario in atto su questa vicenda è troppo pesante perché si possa sperare che il Decreto “tutti contenti” sia davvero risolutivo. Il groviglio istituzionale è enorme, le implicazioni giudiziarie anche. Io non ho né titolo né intenzione di aggiungere altro su questo.
Su ieri però i giudizi si devono dare. Giudizi politici. Una delle peggiori brutte abitudini della nostra vita democratica è quella, inaugurata nei primi anni ’90 e mai abbandonata, di togliere alla politica la funzione di giudicare scelte e relative conseguenze e di scaricare sulle spalle della magistratura anche oneri che non le spettano. Di affidare al potere giudiziario quanto dovrebbe invece essere invece squisitamente politico (e non penale): valutare le responsabilità. Questo è il grumo paradossale, inestricabile, perché sbagliato nei termini. Stiamo parlando di vicende iniziate mezzo secolo orsono, forse un tempo sufficiente perché almeno la Storia possa esprimersi. Genova ha avuto una parte così importante, prima durante e dopo, nelle vicende di Taranto che forse gli storici potrebbero iniziare a leggere i fatti di allora. Anche per stabilire finalmente le responsabilità, quelle storiche almeno.
Non per allungare la lista degli indagati, ma per non ripetere gli errori. I disastri ambientali hanno origini lontane e se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo guardare molto indietro.
(Giovanna Sissa)






