Categoria: ILVA

  • OLI 422: ILVA – Landini, media assemblea

    Un reporter riprende un lavoratore che fotografa un fotografo mentre scatta primi piani a Landini. L’immagine più evidente che si è nel cuore di una rappresentazione è data dal fatto che, ad un certo punto, due fotografi sistemano un casco ILVA proprio sopra i tubi innocenti che reggono il palco, come se quel casco fosse stato dimenticato da un operaio, ed iniziano a scattare foto.
    Quella con Landini, non è, come promesso dal volantino affisso nelle bacheche aziendali, un’assemblea. Ma è incontro a porte spalancate, con stampa, lavoratori e cittadini. Un momento storico per l’ILVA di Cornigliano una giornata che ha dato alla siderurgia genovese visibilità, ma non un’assemblea che significa confronto, riflessione, condivisione di idee, tra lavoratori e sindacato.
    Landini – dio lo benedica per il suo impegno politico – ha detto le cose che dice a Ballarò, Piazza Pulita, Servizio Pubblico, ma ha perso un’occasione importante: sentire le opinioni di chi in quella fabbrica lavora e di chi da quella fabbrica è stato messo in cassa integrazione. Dispiace che tutto diventi media, che in questo cacofonico rivolgersi all’esterno non ci sia più tempo per un ascolto autentico, il tempo per le parole. Anche scomode. Quelle che il sindacato non vuole sentir dire. I numeri, investiti in questa partita, sulla carta non permettono di immaginare grandi scenari sul fronte dei salari che drenano  milioni di euro al mese. Un miliardo e duecento milioni dei Riva – ancora da rimpatriare – sono esclusivamente destinati alla legittima realizzazione dell’AIA e 556 milioni, provenienti dalle risorse della cassa depositi e prestiti oltre che dai soldi di Fintecna, sono una cifra che ILVA è capace di fumarsi in 6 mesi soprattutto alla luce dell’anticipata chiusura dell’altoforno 5 – indispensabile per la messa in sicurezza dell’impianto – che ridurrà ulteriormente la capacità produttiva del sito di Taranto già oggi, in perdita. I conti non tornano.
    La Newco è ancora un soggetto molto magmatico. Si aggiunga che i Riva hanno fatto ricorso contro lo stato di insolvenza dell’Ilva lamentando che La mano pubblica potrà impunemente non eseguire quelle stesse misure per la realizzazione delle quali ha illegittimamente sottratto a degli imprenditori privati la propria fabbrica. E’ vero che nella fase più delicata della discussione del decreto legge, Claudio Riva aveva chiesto che si terminasse il ciclo delle audizioni in Commissione Senato, prima di procedere alla dichiarazione di insolvenza dell’ILVA, richiesta inascoltata. Che piaccia o meno – e la gestione Riva non è piaciuta affatto – a processo ancora da fare, le scelte strategiche che hanno riguardato l’Ilva rischiano di essere oggetto di ricorsi da molti fronti e sanzioni, comprese quelle della Comunità Europea.
    Un ragionamento con Landini poteva mettere a fuoco dove trovare 150 milioni di euro per l’impianto della banda stagnata. Altro spunto di riflessione cosa ne sarà delle centinaia di lavoratori genovesi oggi “utile risorsa” degli enti pubblici, destinati però a rientrare a settembre 2015 con i contratti di solidarietà, e ancora cosa significa nel testo della legge, votata dal parlamento “garanzia di adeguati livelli occupazionali”.
    Adeguati, rispetto a quale modello siderurgico? Sulla base di quale piano industriale?
    Si fa strada il precedente Alitalia, e qualcuno, purtroppo, vuole afferrarlo al volo.
    (Giovanna Profumo)

  • OLI 418 – ILVA: Tutto e il contrario di tutto

    Un quadro di Escher, con le scale che finiscono nel nulla per ritrovare se stesse, capovolte. Sono quadri che sfidano l’osservatore, accompagnandolo nell’anticamera della follia. Ma l’insieme che Escher tratteggia ha un suo equilibrio, una sua logica. Così se ne rimane incantati.
    L’Ilva pittoricamente è questo: un quadro di Escher. E’ tutto e il contrario di tutto. Il palcoscenico nazionale dove si mostrano le doti di un leader, l’impegno del governo, la capacità a gestire l’emergenza, la produzione a cui non si può rinunciare, la tutela del territorio insieme alla salvaguardia dell’occupazione. E piani. Molti e diversi, ognuno in contraddizione con l’altro.
    Come una matrioska l’Ilva è abbracciata da Taranto, anche lei oggetto delle suggestioni più coraggiose, alla quale va riconosciuta la vocazione culturale e turistica. Dove oltre al Museo Archeologico – visitato di recente dal ministro Franceschini – si potrà promuovere la città “come unica città spartana al mondo” – superando l’immaginario dato dall’inquinamento – “intercettando i milioni di cittadini che sono legati al mito di Sparta”. Il presidente del senato Grasso pare stupito dalle sue stesse parole, ma ammette che la lettura del progetto, tra passione storica, sportiva e mediatica, gli ha permesso di scoprire che “esiste un brand Sparta” che può “rappresentare un volano per una città così sofferente sul piano dell’immagine”.
    Per la Puglia sono prossime le elezioni regionali. Nel frattempo sono scesi in sciopero i camionisti, è partito il processo e urge rivedere gli estimi catastali del quartiere Tamburi – naturalmente al ribasso – poiché quanto venduto solo a quaranta è registrato con un valore di cento.
    Di inquinamento e malattie parla Bonnelli, che ritiene impossibile rendere compatibile la produzione siderurgica con l’ambiente. E propone il modello Bilbao, tradotto: radere al suolo tutto e ricominciare da capo.
    Nel frattempo la Comunità Europea, nel ricordare che Taranto è nella top ten dei siti più inquinati d’Europa, ha chiesto numi sui soldi concessi dallo stato per le bonifiche. Ma proprio alla Bei – Banca Europea per gli investimenti – il governo intende chiedere “1,2 miliardi di euro” per opere infrastrutturali da destinare al siderurgico.
    E il risanemento del sito? Il ricorso in cassazione di Adriano Riva non permetterà di utilizzare a breve il miliardo e ducento milioni bloccati per presunti reati fiscali e destinati alla bonifica. E, nonostante la seconda tranche del prestito ponte concessa dalle banche – 125 milioni di euro, ci si pagheranno fornitori, stipendi e tredicesime – dimenticati Bondi e Ronchi, è difficile immaginare qualcosa di minimamente sensato per l’anno nuovo.
    In questo delirio generale in cui una dichiarazione lava l’altra, i dipendenti del gruppo, 16.000 di cui 11.000 a Taranto, traguardano mese dopo mese, confusi tra svendita, liquidazione, cessione, nazionalizzazione, perdite. Come per magia appaiono e spariscono cordate di investitori italo stranieri, con proposte indecenti, nell’attesa che l’azienda sia ridotta allo stremo per salvarla con pochi euro. E si leggono pacate dichiarazioni di Dini Lamberto che invoca un rientro dello stato. O di chi garantisce il supporto della cassa depositi e prestiti. Dichiarazioni confermate da Renzi che chiosa “Valutiamo l’intervento pubblico, non faccio saltare Taranto”. Nel frattempo c’è chi, in assemblea sindacale a Genova, nutre sospetti sulla gestione Gnudi e chiede numi su consulenze e acquisiti di auto aziendali, mentre a Taranto l’USB chiede dove siano finiti i soldi ricavati dalla produzione “150-170 rotoli a turno che vengono immediatamente spediti”.
    Il tasso di fiducia, alla terza gestione in due anni, è al minimo.
    A ricordare a tutti loro di chi è l’Ilva, si fa carico Claudio Riva in un’intervista a la Repubblica: “Gli azionisti sono disposti a investire e a fare la loro parte per contribuire alla soluzione del problema” e desiderano essere “coinvolti o quanto meno interpellati nelle decisioni che verranno prese in merito all’Ilva nonostante la società sia commissariata”
    La commedia delle beffe, i conti senza l’oste.
    (Giovanna Profumo – immagine da internet)

  • OLI 417: REGIONALI 2015 – L’usato sicuro: il candidato sindacalista

    “I sindacati li sento, li guardo, non so sinceramente cosa vogliano fare”, risponde serafico Sergio Cofferati a Lilli Gruber , su Ottoemezzo, il 4 novembre, come se a Roma a sfilare ci fosse stato il suo ologramma. Fa l’occhiolino a sinistra e si mette l’elmetto da pompiere, tante le sollecitazioni commoventi, come le definisce lui, a presentarsi alle primarie Pd, in vista delle elezioni regionali in Liguria.
     Proprio non sa , ma pochi giorni dopo, dal foyer del teatro Carlo Felice lo comunica al mondo, per fare un favore alla comunità, pare sottendere il suo accettare la sfida. Non dice che il Pd genovese non sa più che a santo votarsi, a fronte della novella Lella di Spezia, una renziana della seconda ora come Pinotti e dintorni. E vorrebbe schierare un usato sicuro. Insomma, tutto un nuovo che avanza per la gioia degli affranti cittadini-elettori. Soltanto sei mesi fa, alla vigilia delle elezioni europee l’ineffabile Sergio dichiarava urbi et orbi (Oli 404): “Cinque anni sono molti, ma il mio lavoro dovrebbe ancora proseguire all’insegna della continuità dell’impegno” . Gulp, ma non era venuto a Genova per fare il papà?
    Sarebbe stato interessante un suo commento alla Commissione in Comune per l’inserimento dei lavoratori Ilva, svoltasi il giorno prima dell’alluvione: sono 765 e la situazione si trascina dal 2005. “Ma non sono lavoratori che faranno corsi di formazione per essere ricollocati, ritorneranno all’Ilva”, afferma un rappresentante sindacale al grido di “tornate sul web” rivolto ai grillini, che chiedono chiarezza sui ruoli assegnati. Era per dare maggior dignità agli incarichi, spiegano i 5 Stelle e altri, ma i sindacati non l’hanno presa bene a sentire qualcuno che sindaca nelle loro proposte.
     Come recita la delibera, “tra impiegati, operai e persone con conoscenze informatiche”, 163 sono gli assegnati alle manutenzioni, 131 al Verde, 99 ad Amiu “per ripristino ambientale”, 28 ad Aster “per attività specialistiche”, mentre 28 operai saranno nelle scuole “per lavori di pubblica utilità”, che non significa fare il bidello o aggiustare un banco.
     Con il dovuto rispetto dei lavoratori, le collocazioni non appaiono del tutto congrue alle esigenze del Comune e della città, dai 42 uscieri, ai 58 per i cimiteri e altre decine di incarichi fumosi. E’ un accordo-pilota, il primo in Italia, eppure… Storia amara è quella dell’Ilva, ma forse i cinquecento euro oltre la cassa integrazione conforteranno un po’ i lavoratori: tanti ragazzi precari prendono quei soldi lì come stipendio globale, se mai lavorano.
     Si capisce il furore dei dipendenti Ilva, cause note purtroppo, dai proprietari, ad una gestione dissennata, alla crisi del settore.Comunque i sindacati rassicurano, precisano che al Comune non costerà nulla, paga tutto la Società per Cornigliano. Che è una società nata con Statuto a firma del sindaco Pericu, per la bonifica delle aree siderurgiche, al 45% ne è proprietaria Regione Liguria e per l’altra metà Comune e Provincia, in una sorta di matrioske verso altri rami sempre pubblici, con finanziamenti governativi e poteri d’appalto. A retribuzione zero ne è presidente il vicesindaco di Genova, prima presidente di quel Municipio.
    Solidarietà per i lavoratori, ma chi parla per loro ha un’aria fumosa, un’aria stizzita, un’aria feroce anche con chi cerca di dare un aiuto.Viene il dubbio se per davvero si sono avute a cuore le vite degli altri, il futuro delle persone, che magari in questi dieci anni di trattative avrebbero potuto ricollocarsi altrove, ancor prima della crisi economica globale, invece di far credere ad un posto di lavoro nell’acciaio, che non ci sarebbe stato più.
    Ecco, questi sono i sindacati di cui anche Cofferati è stato per anni la guida, oggi più che mai sulla scena, al ricordo dei tre milioni in piazza di dodici anni fa, quando si approssimavano la globalizzazione moderna, il web e il cellulare – non per parafrasare Renzi, ci mancherebbe – ma perché nel bene e nel male, il tempo ha lasciato segni indelebili.
    (Bianca Vergati)

  • OLI 413: ILVA – Gnudi alla meta

    Ci risiamo.
    A un chilometro dalla sede della Film Commission di Genova sono iniziate le riprese della nuova stagione della serie ILVA e l’Accordo di Programma. Una produzione tutta genovese che vede nel cast un migliaio di comparse, diversi attori, alcune new entry – come il commissario Piero Gnudi – magnati dell’acciaio, politici e i sindacati.
    Difficile ragionare di siderurgia a Cornigliano senza dubitare che quanto accade non sia fiction, un mega Lost, la cui regia è stata affidata nel passato alla superficialità spavalda di pochi potenti.
    Dal 2005 ad oggi l’Ilva di Genova – dopo la chiusura dell’area a caldo, accompagnata dalla promessa di un faraonico piano industriale che doveva garantire occupazione a 2200 addetti a Cornigliano – ha perso mille posti di lavoro ai quali si aggiungeranno, dal 1° ottobre, settecentosessantacinque dipendenti collocati, per un anno, in cassa integrazione in deroga e destinati  a lavori di pubblica utilità. Settecentosessantacinque, ai quali è stata presentata la bozza dell’Allegato C al Secondo Atto Modificativo dell’Accordo di Programma. Lavoratori che non sanno, se non attraverso articoli di stampa (Secolo XIX), al 30 settembre, dove andranno a lavorare il 1° ottobre, perché i progetti ai quali dovrebbero essere destinati nessuno li ha ancora indicati loro e nessuno è stato in grado, ad oggi, di dare certezza assoluta che siano finanziati.
    Un milione di metri quadrati di aree assegnate dal 2005 per mantenere e creare lavoro, hanno prodotto questo bilancio disastroso, al quale vanno sommati i contraccolpi dell’inchiesta tarantina Ambiente Svenduto.
    Una balena spiaggiata, definivano il gruppo ILVA alcuni commentatori economici, all’avvio dell’inchiesta; commentatori che invocavano la necessità di salvare il colosso siderurgico perché rappresentava il 4% del Pil nazionale
    Monti aveva individuato in Enrico Bondi l’uomo giusto per occuparsi della faccenda. Una missione difficile poiché attuare le prescrizioni dell’Aia a Taranto, individuare i fondi, immaginare un piano industriale in grado di sostenere la filiera nazionale per produrre acciaio, senza il rischio di avvelenare la gente, erano una meta coraggiosa che pretendeva tempo e sulla quale il governo avrebbe dovuto assolutamente investire risorse, recuperabili solo dopo la fase di risanamento. Risorse che si è preferito anche questa volta destinare agli F35, risorse sottratte a sanità, scuola e lavoro.
    L’errore del commisario Bondi, qualcuno ha detto in azienda, è stato quello di voler mettere la mani nel tesoro dei Riva. A giugno 2014, nuovo giro di giostra, il governo Renzi dà il benservito a Bondi colpevole di aver presentato un piano industriale che non piace ai Riva e ai vertici della siderurgia tricolore (la Repubblica 9.6.14). E con lui si liquida il lavoro di un anno, e un piano che prevedeva per Genova sostaziosi investimenti in un impianto di banda stagnata (presente in origine nell’Accordo di Programma e cancellato nel 2008).
    In questo mese, delegazioni di siderurgici indiani visitano gli impianti del gruppo valutando acquisti a prezzi di saldo. La vocazione industriale del nostro paese viene ceduta agli indiani, gli stessi con i quali l’Italia non ha dimostrato l’autorevolezza per mediare il rientro definitivo nel paese di due marò.
    Si poteva evitare tutto questo a Genova?
    Ai Componenti del Collegio di Vigilanza, alla politica locale, ai sindacati e ai vari governi  che per nove anni hanno seguito le vicende dell’Accordo di Programma, va posta questa domanda.
    Ai  lavoratori della Sertubi di Trieste si possono chiedere notizie in merito alla loro significativa esperienza con la società indiana Jindal Saw.
    Sapranno essere parecchio esaustivi.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 410: ILVA – Se anche Edo Ronchi lascia la partita

    Se le le cose andranno come qualcuno ha deciso, fatta carta straccia di un anno di lavoro e del piano industriale di Enrico Bondi, parte dell’Ilva verrà svenduta, con la benedizione di Federacciai, spacchettata e una buona percentuale di Pil – chi non ricorda il mantra proprio sul Pil quando erano iniziate le inchieste della Todisco? – sarà polverizzata dalla concorrenza straniera.
    Forte il rischio che, tra due o tre anni, succeda come sta accadendo oggi in Alitalia: chiusura di stabilimenti ed esuberi da accompagnare alla porta.
    Una delegazione di Arcelor Mittal sta mappando tutti i siti produttivi dell’azienda ma anche la fantasia più ottimista fatica ad immaginarli travestiti da Olivetti mentre investono miliardi di euro per contribuire a rendere ecocompatibile l’Ilva di Taranto. Più probabile, invece, che mirino a quote di mercato. Non stupisce che proprio mentre ci sono movimenti così importanti di un gruppo straniero, la Riva Fire abbia deciso, proprio ora, di presentare ricorso al Tar del Lazio contro il piano ambientale dell’Ilva, bollandolo come atto unilaterale (Secolo XIX, 9 luglio 2014).
    Mentre al livello nazionale si spostano queste pedine, su quelle di Genova, i 1740 dipendenti di Cornigliano, pende la spada di Damocle della fine dei contratti di solidarietà il 30 settembre. Un assaggio di quello che potrà accadere, se il problema non verrà tempestivamente risolto, si è visto i 3 e il 4 luglio quando un gruppo di lavoratori – dopo aver sentito le ragioni del direttore di stabilimento sulla mancanza di risorse per pagare i premi a luglio – è sceso in sciopero bloccando la città. Gli operai dell’Ilva di Genova sono abituati così, il salario – non lo stipendio – ha detto in assemblea uno di loro, rivendicando la provenienza di classe – non si tocca. Qui siamo. Un’azienda alla deriva, che stava lentamente riprendendo la rotta del proprio futuro con Enrico Bondi, viene nuovamente spinta in balia delle onde e affidata ad un nuovo Comandante Commissario che dovrà ripercorrere le tappe del predecessore per capire come gestire un gruppo di 16mila unità nella fase di crisi più acuta. Se non fosse successo davvero sarebbe una barzelletta.
    A Genova, in assemblea, i lavoratori hanno sollecitato le OO.SS Ilva a ritrovare l’unità sindacale andata dispersa da un sito all’altro e c’è chi ha chiesto al sindacato di cambiare marcia rispetto al passato. Richiesta ancor più giustificata viste le evidenti perplessità espresse sull’ultimo decreto ILVA , decreto che ha spinto anche Edo Ronchi a fare un passo indietro e a sottrarsi dalla partita. In assemblea, le parole sono state sempre le stesse: stipendio, salario, famiglie, lavoratori, dignità, operai, padrone, produzione, reddito, posto, sciopero. E Accordo di Programma: la bitta alla quale sono incatenate tutte le garanzie del sito produttivo di Cornigliano e dei suoi dipendenti. Nell’aria la consapevolezza che allo stabilimento dell’Ilva di Genova e non solo lì si aprirà un nuovo doloroso capitolo.
    Forse il più difficile.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 409: ILVA – Al tempo di Burlando

    I Rom sono stati fatti spostare. Alloggiati in corridoio. Praticamente un’unghia che, nella mappa delle aree di Cornigliano, si colloca tra Via Muratori e la palazzina della Film Commission, quella che un tempo ospitava la mitica direzione delle Acciaierie. Il corridoio è transennato. Nomadi, roulotte suppellettili sono tutti lì, circondati da una cancellata. Lontani dagli occhi, lontani dal cuore. Certo, non abitano più sul ciglio della strada, quindi, il rischio che un bambino finisca sotto una macchina, almeno sulla carta, dovrebbe essere ridotto.
    Da lì all’accesso Est dell’Ilva il paesaggio è lunare: aree spelacchiate, lego di container colorati, il cantiere della strada a mare, cumuli di terra.
    Dentro allo stabilimento il paesaggio è emotivo. Scandito, soprattutto, da articoli di stampa e voci da macchinetta del caffè. Si accenna ad una delegazione di siderurgici indiani venuta in visita in fabbrica, e si teme, dopo l’allontanamento di Enrico Bondi, che l’Ilva si avvii ad un rapido spacchettamento nei vari siti produttivi, per essere messa sul mercato, non come corpo organico ma a pezzi. Ipotesi, timori che si aggiungono alla preoccupazione che al 10 luglio non ci siano risorse per pagare gli stipendi
    Puntuali le dichiarazioni del sindacato, senza salario millesettecento persone a Genova e 12mila nel territorio nazionale possono “diventare un problema”. Le modalità sono note alle prefetture, il copione già scritto.
    La scelta governativa di sostituire Bondi con Gnudi costringe adesso a tornare ai blocchi di partenza cestinando un piano che presupponeva un investimento di capitale per il 2014 da 1,8 miliardi e una necessità di cassa da 3,5 miliardi. Cifre inimmaginabili senza un impegno concreto dello stato. Ma questo si sapeva. Come a Genova i dipendenti sanno che, a fine settembre,scadono i contratti di solidarietà e allora il governo dovrà immaginare qualcosa, visto che la creatività non difetta.
    All’Ilva, si è accennato anche durante la tormentata assemblea di Confindustria il 30 giugno. In agenda: “I perché di un insuccesso – Evitare gli errori di ieri per le scelte di oggi”. Ma sono state allusioni a tavoli, ad aziende interessate, a ipotetici soggetti. E a “pezzettini” ha detto Burlando “che si liberano di Piaggio e di Ilva” sui quali qualche imprenditore potrebbe voler investire. Tutto di una vaghezza disarmante.
    Poi, Burlando, riferendosi a certe dinamiche di Confindustria di cui pare sia stata vittima la sua azione politica, ha dichiarato: “io non ho più tempo da perdere”.
    Davvero?

      (Giovanna Profumo – Foto dell’autrice)

  • OLI 406 – CORNIGLIANO: Sul ciglio della strada

    Può capitare, la mattina, che le donne allattino i bambini. Se c’è il sole ne vedi sempre una che stende: strizza i panni e li dispone sulla corda tesa lungo la cancellata. Gli uomini spiluccano la colazione nel déhors mentre le ragazze sparecchiano.
    Dopo le cinque, nel pomeriggio, la comunità si fa più numerosa, bambini di diverse età corrono lungo la strada, vanno in bici, giocano, mentre gli uomini si fanno un giro di carte, le sedie messe in cerchio. A quell’ora una lunga fila di macchine fiancheggia il parcheggio accanto ai giardini di Villa Bombrini per svoltare a destra proprio davanti al campo che campo non è, ma è un domino di una quindicina di vecchie roulotte parcheggiate davanti alla carreggiata. I bambini sgusciano rapidi accanto alle auto, e chi è alla guida deve prestare attenzione a non investirli.
    Marco Doria, in occasione dell’incontro con Marco Revelli e la Lista Tsipras il 28 aprile u.s. riflettendo su sinistra e rappresentanza ha così descritto la situazione: “gli stessi operai dell’Ilva sono quelli che, magari – perché hanno due roulotte di rom fuori dalla strada di accesso allo stabilimento – mi dicono sul tema dei Rom delle cose che è veramente faticoso ricondurre a degli orizzonti di sinistra”. E’assolutamente vero. Anni di Lega Nord, anche nella roccaforte di Lotta Comunista, hanno prodotto narrazioni, parafrasando Vendola, di stampo profondamente razzista. Ma è legittimo chiedersi perché in questo ragionare su civiltà, sinistra e solidarietà, nell’orizzonte di un sindaco sia invece accettabile, ormai da mesi, che dei bambini vivano in quelle condizioni: sul ciglio della strada incastrati tra roulotte e traffico di pendolari senza nulla che li protegga e in assenza delle condizioni igieniche minime. I sentimenti che la comunità Rom genera nel quartiere sono quelli di cui Doria parla e basta un’occhiata ad un articolo  apparso negli ultimi mesi per capire che in quella posizione i Rom non sono protetti; né da se stessi, né dalla deriva estrema che una certa politica può produrre.
    Oltre ad essere la dimostrazione plastica del fallimento di un progetto che doveva restituire aree alla città e lavoro all’Ilva, il campo rom in quelle condizioni ci ricorda che questa non è la politica di sinistra che vogliamo.
    Come ulteriore beffa, alle spalle di quella strada, da anni, moltissimi metri quadri sono transennati, occupati dal nulla.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 402: LAVORO – Salute, lobby e serial killer

    Sempre più frequentemente una serie di eventi correlati alla qualità del lavoro inducono l’opinione pubblica a porsi una serie di domande specificatamente riferite al rapporto fra il lavoro, anzi il mantenimento del posto di lavoro, (perché c’è la crisi, perché il Paese ne abbisogna, perché è necessario tenere i piedi per terra e stare attenti ai paesi dell’Est, perché lì costa tutto meno ed un operaio guadagna un Euro l’ora che nemmeno i cinesi) ed il suo impatto sulla salute degli addetti, se pur nella salvaguardia dell’ambiente circostante il sito produttivo.
    E’ sinonimo di civiltà o di inadeguatezza del mercato lavorare in sicurezza nel rispetto dell’ambiente? Se ci si riferisce a chi lavora all’interno dell’impresa, non possiamo che pretendere la verifica del rispetto di quanto è considerato il significato del termine stesso “salute”, cioè lo “stato di completo benessere psico fisico e sociale dell’individuo”, e scusate se è poco. Tale definizione non è un parere filosofico, etico o quanto risultante da una discussione fra saggi o letto in un fumetto di Cipputi, ma quanto per legge è obbligatoriamente compito di colui il quale ha “obbligo di prevenzione” nei confronti dei lavoratori: il Datore di Lavoro in una qualsiasi delle varie forme in cui nell’ordinamento italiano si manifesti.
    Obbligo di prevenzione, non libera scelta. La filosofia infatti dell’impianto prevenzionistico vigente definisce un percorso routinario dal quale egli, il Datore di Lavoro, non può esimersi prima di svolgere una qualsiasi attività lavorativa infatti, deve immaginare gli eventi pericolosi che possono manifestarsi per la salute dei lavoratori che intende impiegare, affrontarli e eliminarli o ridurli a quanto definibile come un livello di sicurezza accettabile.
    Lo sviluppo di questo percorso legislativo è relativamente recente e si è trasformato nel tempo, è il risultato di lotte operaie e sindacali a seguito di decine di migliaia di morti causati da infortuni sul lavoro, centinaia e centinaia di migliaia di feriti gravi, di arti amputati, di schiacciamenti fratture e cadute, di intossicazioni, organi interni deteriorati, sordità, cecità, dolore e sangue, tanto ma tanto sangue. E orfani e vedove in lacrime, e bandiere ai funerali.
    Sino all’altro ieri non era impedito dalla legge monetizzare il rischio, cioè incentivare il lavoratore a svolgere una attività per varia natura rischiosa pagandolo per affrontare il pericolo, nelle buste paga dell’epoca si potevano leggere a chiare lettere e senza possibilità di equivoci ad esempio i valori orari di indennità orarie a fronte di esposizione a sostanze chimiche.
    La esposizione al pericolo in quel periodo veniva spesso scambiato con ore di permesso, ferie aggiuntive, turnazioni agevolate, premi in varia natura. Allora non c’era la crisi, anzi si era in piena ricostruzione, boom economico post bellico, il potere contrattuale all’epoca elevato veniva speso anche per tali scopi, sia a livello individuale che collettivo.
    Certo, prima era ancora peggio, brutti periodi per la contrattazione, durante la trasformazione industriale delle fabbriche, la Grande Crisi, la produzione bellica con il massiccio uso di sostanze pericolose ed esplodenti, l’Autarchia, le due guerre.
    I rapporti di forza, le Società Operaie, il Sindacato, le Piazze, la direzione e veicolazione della capacità contrattuale e i sempre tanti, troppi morti sul lavoro hanno trasformato ed accresciuto l’impianto normativo rendendolo quello attuale, ma mai nulla venne regalato, ma anzi sempre scontrandosi con la forte ritrosia della controparte per la quale la sicurezza non è mai un investimento, ma un costo, sopratutto laddove il pericolo è sinonimo di “mala”organizzazione del lavoro.
    Come sempre è avvenuto sono stati proprio gli eventi di maggiore gravità a promuovere e sviluppare percorsi di prevenzione dedicati e maggiormente incisivi, eventi che a volte vengono ricordati con nomi che oggi poco ci ricordano, ma che all’epoca sviluppavano tale risonanza da non poter essere ignorati come la tragedia nella miniera di Ribolla con il conseguente sviluppo della prevenzione in ambito minerario e la nascita dei primi “Rls” della storia negli anni ’50, o la storia dell’incidente di Seveso ed il cancro da diossina, la legge Lama, la Tito Campanella, La Thyssen, le morti multiple nelle stive di cereali, in silos e ambienti confinati determinanti la legge 177, e solo ieri la Torre in porto a Genova e le nuove successive regole che ne conseguono.
    Nel frattempo si trasformava e specializzava Medicina del Lavoro, si acquisivano nuovi dati di pericolosità di sostanze da tempo in uso e si riducevano i livelli limite di esposizione, laddove sino al giorno precedente un quantitativo soglia limite di esposizione ad una sostanza veniva considerato come un adeguato livello di protezione, poteva venire nel tempo sostituita con altri valori maggiormente protettivi, sviluppando nel frattempo più adeguati percorsi di sorveglianza sanitaria per gli esposti.
    In epoca ormai lontana era considerato un toccasana sparare in atmosfera fumi e polveri tossiche ad elevata temperatura dalla bocca di una alta ciminiera, sino a quando il legislatore è stato costretto a recepire il fatto che prima o dopo gli inquinanti sarebbero ricaduti nell’ambiente circostante e che i cittadini tutti, anche non lavoratori, da tali rifiuti avrebbero dovuto essere protetti, ma oltre ai lavoratori esposti nel ciclo produttivo, anche i terreni, le piante e gli animali, l’ambiente tutto divenne oggetto di prevenzione. Si incominciò a pensare che l’essere in cima alla catena alimentare potesse non essere, in caso di siti inquinati, una grande soddisfazione.
    Mentre nel sottobosco dei palazzi romani lobby trasversali si occupavano, spesso riuscendovi (ieri come oggi), di modificare l’impianto prevenzionistico edulcorandolo e rendendolo meno impositivo per quanto riguardante le norme di salute e sicurezza sul lavoro, imprenditori di piccole e medie imprese sotterravano inusitate quantità di sostanze tossiche e rifiuti pericolosi, veri sottoprodotti del proprio ciclo produttivo, spesso con la connivenza di amministratori locali. Per molti piccoli proprietari terrieri divenne per anni, decenni, l’unica possibilità di far fruttare i propri terreni, non a caso le terre dei fuochi, che sono tante nella penisola, sono prevalentemente dislocate in zone economicamente depresse. Non solo nel centro sud italiano, ma anche al nord, laddove veniva effettuato uno scavo per una bretella autostradale, per un molo o si esauriva una cava, nottetempo, ma spesso anche alla luce del sole, camion in retromarcia riempivano buche con materiali dai contenuti più vari, dai radioattivi ai rifiuti sanitari, metalli pesanti, sostanze velenose, fumi di fonderia. Dopo una ruspa compiacente era sempre pronta a coprire e nascondere le buche.
    Di norma le aziende di piccola dimensione erano autosufficienti, ma per le grandi era necessario ricorrere a veri professionisti dello smaltimento clandestino, un business di dimensioni colossali che, per logistica ed attrezzature, ha permesso a svariate organizzazioni malavitose di specializzarsi diversificando la propria attività, Eco-Mafia è il termine corretto con cui chiamare questo ambiente. Ma attenzione i malavitosi sono senza dubbio i gestori del traffico, ma non da meno sono tali i produttori di rifiuti, gli autisti dei mezzi, gli armatori con i colletti bianchi delle compagnie di navigazione che buttavano in mare i fusti inquinanti o che a volte affondavano le navi colme di veleni, così come i Comandanti e gli ufficiali e gli equipaggi, ricattati con lavoro sicuro in cambio del silenzio.
    Ma i grandi gruppi industriali, sia pubblici che privati o partecipati, hanno da sempre usato metodi diversi: lobby di pressione, acquisto di consensi nelle amministrazioni locali o regionali o direttamente nei governi, l’uno per l’altro, atti a garantire una sorta di patto di non aggressione, la certezza di non essere controllati o, spesso, di avere dalla propria i controllori, i certificatori, i periti, gli ispettori, gli amministratori, burocrati che con un timbro giusto di forma e colore, siano in grado di asseverare il processo, di garantire che quella polvere cancerogena che uccide non paia poi così pericolosa, che l’abbattimento degli animali infetti passi sotto silenzio, che i cavoli radioattivi dell’orto siano stati irradiati dai marziani, che la scientificità dei dati presentati dai superstiti possa essere contestata, pagando mazzette a tutti, accattivandosi i lavoratori o la cittadinanza utilizzando i circoli aziendali ricreativi gestiti dalle parti sociali o finanziando le trasferte di confraternite di portacristi.
    E tutti giù a dar di matto quando le vedove denunciavano, ma venivano comprati giornalisti per condizionare l’opinione del popolo bue.
    Il dramma nel dramma è sempre lo stesso, e le domande, oggi come ieri non cambiano. Queste aziende, piccole o grandi inquinano, fanno ammalare, intossicano uccidono. Oggi come ieri. Quelle piccole tutto sommato non importano a nessuno, inquinano è vero, ma poco per volta, hanno pochi dipendenti che si ammalano e pochi inoltre perderanno il posto di lavoro se qualcuno decidesse nel rispetto delle regole di impedire l’inquinamento. Molte di queste probabilmente riescono a stare sul mercato proprio nascondendo sotto il tappeto le briciole, peccato però che le piccole imprese siano la stragrande maggioranza delle imprese italiane e che non ci sia un adeguato numero di controllori per verificarne anche solo una parte consistente e se chiudono l’impatto sull’opinione pubblica è minimo, non occuperanno mai una piazza, ma al massimo l’androne di un portone. Quelle grandi hanno dalla loro un’altra carta da giocare e si trovano alleati con parti di per se antagoniste. Queste sono quelle che inquinano il territorio per chilometri quadrati, intere città. Sono quelle che hanno sulla coscienza centinaia di morti, con amministratori delegati con stipendi a grandi cifre e studi di avvocati specializzati nel prender tempo, pelo sullo stomaco e conti nei paradisi fiscali e stupore di tanto clamore per quello che per loro non è che un danno collaterale, una bomba intelligente che solitamente produce energia od acciaio che, sorpresa sorpresa, negli anni uccide i bambini di cancro.
    Certo per i lavoratori di queste imprese non è bello sapere di essere o essere stati esposti continuamente a sostanze che possono procurare danni irreparabili, malattie incurabili e trovarsi ad un certo punto della propria vita a dover scegliere da che parte stare per campare, se pur malamente. Rischiare che, nel pretendere la salvaguardia della propria salute e, perché no, quella dei bambini dei quartieri vicini ci sia il rischio di perdere il lavoro, ‘che fuori c’è la crisi. Legittimamente domandarsi perché l’impresa, gli amministratori locali, gli esperti, non si fossero accorti di ospitare sul territorio un vero serial killer, ma non uno di quelli che ammazza tre o quattro prostitute e si prende l’ergastolo, ma bensì uno che uccide 500 o 1000 persone nell’arco di una decina d’anni e che, come capita, prenderà una multa se mai la pagherà.
    Saranno loro forse a dover pagare con una riduzione di diritti e tutele, con meno lavoro, meno certezze nel futuro.
    E’ a loro che verrà chiesto, quando scenderanno in piazza con bandiere e striscioni, quante giornate lavorative, quanti posti di lavoro vale un bambino morente di cancro.
    E sempre loro, che non c’entrano niente, verranno utilizzati dall’impresa che giocherà la carta del ricatto occupazionale, muovendo le proprie pedine, sempre le stesse, all’Ilva di Taranto come nella centrale a carbone di Vado Ligure.
    (Aris Capra – Responsabile Sportello Sicurezza CDML Genova – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 397: ILVA – Guido Rossa, i bambini nel deserto

    Cosa direbbe oggi Guido Rossa se fosse qui? 
    E lui è qui! Basterebbe chiudere gli occhi e attorno a noi potremmo sentire una folata di vento dolcissima 
    E se lui è qui, cosa direbbe oggi in questo contesto?
    Lui direbbe che bisogna difendere la classe lavoratrice!
    Lui direbbe che oggi la crisi pretende che ci sia più giustizia e più uguaglianza!
    Lui direbbe che quando si firma un accordo, quell’accordo va rispettato!

    Carla Cantone, Spi-Cgil in occasione della commemorazione di Guido Rossa il 24.1.14 

    Quando tutto si mescola il quadro risulta confuso.
    Questa operazione favorisce i responsabili di azioni, ancor più se numerosi, nell’evitare con cura di riconoscere i propri errori e porvi rimedio.
    Nella faccenda dell’Ilva di Cornigliano il quadro, dopo nove anni, è diventato un pastone letale. Ma quello che lascia basiti è l’assenza totale di un bilancio politico che individui le ragioni per le quali si è arrivati qui.
    La colpa, quando si è parlato di siderurgia genovese, è sempre stata di altri – magistratura, ambientalisti, crisi – questo ha consentito negli anni passati l’auto-assoluzione di tutti i firmatari dell’Accordo di Programma. Con la differenza che un colpevole oggi – ma solo oggi – pare sia stato individuato: Riva.
    Adesso, che quel nome – dominus incontrastato di Cornigliano – è stato cancellato persino sui cartelli dei parcheggi riservati di stabilimento, è permesso prendere atto pubblicamente che l’Accordo di Programma non è stato rispettato, va riveduto e che bisogna porre rimedio all’emergenza occupazione.
    Il presidente della Regione ha il candore di un ragazzino che finisce un ciclo scolastico, non un ciclo

    amministrativo, quando invoca un nuovo accordo per l’acciaio.
    Ma che ne è stato dell’altro? Perché chi doveva vigilare o quantomeno proporre soluzioni alternative per una prospettiva occupazionale seria ha taciuto?
    Il deserto siderurgico descritto da Bruno Viani sul Secolo XIX del 25 gennaio è frutto di nove anni di assenza di vigilanza con la volontà di silenziare le voci di chi diceva che con quegli impianti era fantascienza occupare tutti. In quel deserto sono stati fatti rientrare cinquecento lavoratori tre anni fa, dopo cinque anni di lavori socialmente utili, per essere collocati il giorno dopo nei contratti di solidarietà. Di quel deserto prima era vietato parlarne. Scoraggiante sollevare la questione anche nelle assemblee sindacali dove l’analisi del rapporto occupazione-impianti veniva allontanata con malcelato fastidio.
    In tutto questo Guido Rossa cosa c’entra?
    La retorica sui lavoratori dovrebbe, almeno oggi, avere il pudore di fare un passo indietro, senza mettergli in bocca valutazioni sul presente e sul futuro della sua fabbrica.
    Meglio sarebbe stato dare più spazio ai bambini della scuola elementare X Dicembre in quell’ora di ricordo per Guido. Alle loro fabbriche dai nomi magici – Guanto Schioccante, Desiderio, Clanma – disegnate con cura e fatte scivolare sotto gli occhi di telecamere veloci a registrare la tenerezza dell’evento: i bambini nel reparto di Guido Rossa. O far raccontare alla loro maestra come si spiega oggi ai bambini la realtà delle fabbriche italiane.
    Chissà come si insegna a difendere i grandi sogni.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 380: ILVA – Genova, Bondi e la banda

    “Ilva. L’assemblea in fabbrica è stata tesa, per poco non si usciva in strada, aspettiamo mercoledì”, Rocco Genco, Fim, al Corriere Mercantile di Genova 2 giugno.
    Nel merito, impressioni dissonanti: a molti è parso che l’assemblea – indetta da Fim e Uilm il 31 maggio, durata poco meno di un’ora – fosse di carattere informativo con reazioni di pacata, affranta consapevolezza. Della serie: aggiornamento bollettino di guerra, alla voce perdite.
    Infatti il sindacalista ha toccato nervi storicamente scoperti dello stabilimento genovese a favore di un’analisi locale della partita ILVA, comunque nota a tutti i dipendenti del sito di Cornigliano (1742 di cui 1145 lavoratori in Contratto di Solidarietà)
    Fim e Uilm hanno incontrato Enrico Martino, capo del personale dell’azienda, nel momento più difficile – quando di fatto era acefala, dal 25 maggio al 4 giugno – per “incalzarla” e capire “se la crisi di lavoro che abbiamo è dovuta ad un mercato che non siamo in grado di aggredire oppure all’approvvigionamento tarantino…”. Non si vorrebbe che l’azienda “penalizzasse Genova e favorisse altri siti…”
    E’ stato confermato in assemblea che la crisi siderurgica genovese poco ha a che fare con le vicende dell’Ilva di Taranto. Deriva invece da scelte strategiche della famiglia Riva che sulla banda – stagnata s’intende – ha deciso di non investire affatto.
    Un mercato quello di latta, grette e tappi a corona che in Italia vede come unico produttore proprio lo stabilimento di Genova e che ad oggi colloca circa 400 addetti. La scelta di rinunciare a questo settore strategico si è concretizzata negli anni, investendo solo “nella monocultura dello zincato”, in crisi anche quella.
    Assemblee a parte, è noto da tempo che Riva ha rinunciato a un mercato nazionale di 700 – 800.000 tonnellate di banda, costringendo il potenziali clienti a rivolgersi a fornitori europei. Nel paese delle conserve alimentari siamo al miracolo della strategia industriale.
    Nel 2012 Cornigliano ha prodotto, con impianti vecchi, poco meno di 100.000 tonnellate di stagnato a fronte di una capacità produttiva di 300.000.
    La ragione? La svolta sull’Accordo di Programma con la rinuncia al nuovo impianto di stagnatura elettrolitica che aveva un obiettivo produttivo 710.000 tonnellate di latta.
    Tra commissariamenti, bonifiche, magistrati, ministri, a Genova nei sindacati si è tornati a discutere dei prodotti, con la scoperta recente che del milione e settecentomila tonnellate di materiale sequestrate a novembre dalla magistratura e poi dissequestrate nello stabilimento di Taranto solo “quattromila” erano destinate ad essere lavorate a Genova. E’ possibile?
    Quindi di cosa stiamo parlando?
    Il mantra rimane il solito: vocazione industriale, occasioni perse, tecnologia, investimenti, lavoro, salario, occupazione, ammortizzatori sociali. E forse, proprio da oggi, con Enrico Bondi commissario e la firma del  nuovo decreto siamo davanti ad uno scenario nuovo: la speranza di una vera bonifica a Taranto, accompagnata da uno sguardo d’insieme che consideri Ilva una filiera, e che non metta in competizione gli stabilimenti del gruppo l’uno contro l’altro.
    Che Bondi la mandi buona, a Genova per la produzione di banda, oggi, non rimangono che i Blues Brothers.
    (Giovanna Profumo)