Categoria: Partecipazione

  • OLI 415: CITTA’ – Come se si stesse su un vulcano


    Due rappresentazioni a confronto dello stesso territorio, con i torrenti Bisagno e Fereggiano, a 210 anni di distanza l’una dall’altra. Le avevamo già pubblicate dopo l’alluvione del 4 novembre 2011 (OLI 319), senz’altro commento che la didascalia: 
    Sopra: 
    dall’Album topografico di Genova e suoi dintorni, penna ed acquerello colorato, circa 1797, Genova, Collezione Topografica del Comune, inv. n. 1127 (particolare). 
    Sotto: 
    da Google Earth, 9 agosto 2007.
    Le ripubblichiamo ora tali e quali, aggiungendo stavolta alcune riflessioni.
    Dopo tre anni la replica dello spettacolo è andata in scena quasi identica, ma più intensa e straziante, il 9 ottobre 2014. Solo l’orario della rappresentazione è cambiato: se fosse rimasto lo stesso, invece che a notte fonda, il numero delle vittime sarebbe stato ben maggiore dell’unico sventurato travolto dalla piena.
    Di sicuro ci sono responsabilità degli amministratori locali – Comune e Regione – che non hanno diramato per tempo l’allerta fidandosi più di uno sballato modello previsionale che non dei loro occhi, che non potevano non vedere quant’acqua stesse precipitando da ore dal cielo.
    Ma il preavviso non avrebbe comunque fermato la furia dei torrenti: i negozi, i laboratori, le cantine, i magazzini e gli altri locali a pianterreno o seminterrati sarebbero stati in ogni caso allagati.
    Se – altra grave mancanza di chi gestisce il territorio – si fossero mantenuti gli alvei perfettamente puliti, sgombri da alberi, arbusti e cespugli che son pittoreschi a vedersi quando è bel tempo e ospitano animali selvatici, ma riducono di molto la portata nei momenti di piena, probabilmente si sarebbe ridotto il danno, però quasi certamente non si sarebbe evitato lo straripamento, data l’entità delle precipitazioni in relazione allo stato di un territorio ormai irreparabilmente compromesso da un secolo e mezzo di urbanizzazione sempre più intensa e irrispettosa di un ambiente che da sempre è soggetto per sua natura a periodiche inondazioni.

    Luigi Garibbo dis. e inc., Veduta del Ponte della Pila sul Bisagno presso alle mura di Genova,
    poco dopo il suo diroccamento per la gran piena de’ 26 Ottobre del 1822.

    Ben lo sapevano i nostri antichi, che nel medioevo costruirono il lunghissimo ponte di Sant’Agata (le poche arcate superstiti nel greto del Bisagno non sono che una minima parte delle originarie 28 che si estendevano da Borgo Incrociati fino alla chiesa di Sant’Agata, presso piazza Giusti) per garantire la continuità del transito anche nei momenti di piena.
    Lo stesso fecero gli ingegneri sabaudi che nei primi decenni del XIX secolo realizzarono la nuova carrozzabile verso la Toscana, il cui primo tratto (via Minerva, oggi corso Buenos Aires) correva su un terrapieno sopraelevato di alcuni metri sul piano di campagna, in previsione delle rare ma sempre in agguato alluvioni che, allora come oggi, interessavano la piana estesa tra le odierne piazza Tommaseo e vie Galata e Cesarea. La strada fu abbassata solo con l’attuazione del piano regolatore del 1877, col quale, dopo l’annessione a Genova di sei comuni a levante del Bisagno nel 1873/’74, si disposero case dove prima erano orti.
    Poco male se un tempo finivano sott’acqua per qualche ora campi coltivati e pochi edifici rurali sparsi qua e là.
    Assai peggio è quanto avviene oggi e continuerà sicuramente ad accadere in futuro, senza rimedio, dato l’assetto assunto da questa porzione di città di cui, in modo assai poco lungimirante se non addirittura colpevole, si è consentito nei decenni lo sviluppo in tale area critica.
    L’asfalto e le costruzioni hanno ricoperto le pendici delle colline impermeabilizzandole e obbligando la pioggia a correre in basso invece di essere parzialmente assorbita dal terreno, specie grazie alla speculazione edilizia dal secondo dopoguerra fino ad oggi, considerando pure i numerosi parcheggi interrati in gran voga negli ultimi anni. I corsi d’acqua nei fondovalle sono stati ridotti d’ampiezza e in parte nascosti sotto strade sicuramente funzionali e anche belle, come il viale Brigata Bisagno e Brigate Partigiane, ma esiziali nei momenti di piena: è ben noto come la portata di un fiume o torrente coperto si riduca di colpo in maniera considerevole nel momento in cui il pelo dell’acqua tocca la sommità del condotto, con conseguente esondazione.
    Questo video impressionante, girato da una finestra dirimpetto e con drammatiche voci fuori campo, realizzato e pubblicato su Facebook da Maria Principalli, documenta quanto successo l’altra notte col Fereggiano:

    Chi risiede o lavora in queste zone deve purtroppo prendere atto di tale amara realtà, elaborare la consapevolezza che dopo periodi più o meno lunghi di quiete il dramma si ripresenta inesorabile, abituarsi a convivere con questo pensiero, agire di conseguenza. 

    Nell’ultimo mezzo secolo la cadenza era all’incirca ventennale: 1953, 1970, 1992, 2011 (per limitarsi al bacino del Bisagno, senza parlare di altre zone altrettanto a rischio con tempi diversi). Ora dopo appena tre anni ci risiamo, complici i rivolgimenti climatici in atto a livello planetario. Non possiamo sapere quando sarà la prossima.
    È come stare sulle pendici del Vesuvio, di cui con beata incoscienza molti godono il magnifico ambiente e lo splendido panorama, pur sapendo con fatalistica rassegnazione che prima o poi il vulcano si risveglierà e allora sarà la fine per la miriade di case che ospitano circa 600.000 abitanti, che si spera riescano a mettersi tutti in salvo coi piani di evacuazione da tempo predisposti. Ma laggiù accadrà una volta soltanto, qui invece chissà quante volte ancora, con l’acqua al posto del fuoco.
    Occorre partire da questa considerazione, con realismo
    Di sicuro si deve cominciare col perseguire almeno la riduzione del danno, curando la costante manutenzione e pulizia dei greti e monitorando di continuo l’efficienza dei tombini, investendo risorse economiche innanzitutto in queste azioni minute e assai poco d’immagine, ma utili per la collettività, piuttosto che in grandi opere visionarie.
    Se i soldi non bastassero, si possono sempre coinvolgere i cosiddetti  “angeli del fango” e nuovi volontari, in ricorrenti giornate di faticosa ma gratificante festa tutti insieme non a spalare fango, ma a prevenirlo periodicamente sotto il coordinamento organizzativo dei municipi. O avvalersi – se mai sarà avviato – del  nuovo Servizio civile obbligatorio per tutti, come lo era il vecchio servizio miliate di leva, di cui si sta cominciando a parlare a livello nazionale.
    Assai più impegnativo, ma indispensabile, è il completamento dello scolmatore del torrente Fereggiano e di altri rivi, per condurli a sfociare direttamente in mare attraverso una galleria solo in piccola parte scavata e poi interrotta per intricate vicende burocratiche e giudiziarie.
    Ma poiché, come probabile, nonostante queste azioni gli eventi potranno comunque ripetersi, sia pur – si spera – con minore intensità e frequenza, è opportuno che si stabiliscano norme di comportamento per tali occasioni, da diffondere capillarmente tra la cittadinanza coinvolta affinché le faccia proprie, a partire dall’infanzia, stimolando anche la capacità di autonoma valutazione del rischio senza attendere i comunicati ufficiali. Qualcosa si era cominciato a proporre, anche con manifesti disegnati dalle scuole, ma molto resta ancora da fare.
    Rimane il problema delle attività al pianterreno, già duramente provate nel 2011 e ora di nuovo ferite in modo gravissimo, con la prospettiva di esserlo ancora non si sa quando e quante volte. Altrettanto vale per i mezzi di trasporto privati, posteggiati ovunque nelle aree inondabili.
    Quali soluzioni si potrebbero escogitare, che siano davvero praticabili e non fantascientifiche?
    Sarebbe utile oppure no scoperchiare il Bisagno nel tratto terminale fino alla Foce, come alcuni sostengono, demolendo la copertura realizzata ottant’anni fa, rifatta con gran dispendio da poco ma soltanto a metà (alta incompiuta, per un’incredibile alluvione di ricorsi in un contesto dove l’accusa di tangenti è stata tangibile)? Ce la sentiremmo di annullare un’arteria di grande traffico, vanificare quanto già speso e alterare radicalmente un compiuto e valido contesto urbano degli anni Trenta?
    Questi ed altri interrogativi possono essere materia di elaborazione per architetti, urbanisti e pubblici amministratori in diretto e costante confronto con i cittadini, con l’obiettivo di risolvere problemi vitali prima di abbandonarsi a sogni fantasmagorici e redditizi per pochi.
    Il dibattito è aperto.
    (Ferdinando Bonora)

  • OLI 391: COMUNE – Marco Doria da principe rosso a piccolo principe

    Chi lo conosce dice che non si tirerà mai indietro
    E’ una frase sopravvissuta all’ascolto di una rassegna TV su AMT dalla quale la Sala Rossa risulta il campo devastato di una battaglia che, già anni fa, doveva essere combattuta altrove.
    Un campo arato con cura da leggi, scelte dissennate, silenzi sindacali. E tagli.
    Ma, facendo un passo indietro, il quesito potrebbe essere un altro:
    Chi conosce veramente Marco Doria?
    E – parafrasando la metafora calcistica tanto cara ai media – per che squadra gioca?
    All’incontro con gli iscritti del circolo Zenzero il 31 ottobre la domanda è stata sostanzialmente questa.
    A porla alcuni dei più vicini sostenitori, quelli che, sciarpe arancioni al collo, avevano salutato il cambiamento con un entusiasmo ragazzino e condiviso il suo programma.
    Tra loro lo sgomento è mediato dall’età e dalla consapevolezza che lui – il secondo sindaco più amato d’Italia– era parte dello stesso sogno, quello di una sinistra rinnovata che si batteva per le richieste del proprio elettorato.
    Allora cosa è successo?
    Doria ha la flemma principesca di chi è convinto di agire per il meglio. Non sono stato eletto solo da voi – è il refrain ribadito già in altre sedi – ma da 128mila elettori, un alto grado di legittimazione rappresentato, oltre che dai sei consiglieri della sua lista, anche dai dodici del PD. Le regole democratiche – dice – gli impongono uno sguardo che rappresenti tutti. Quelle del suo ingaggio erano chiare io ero un candidato alle primarie del centro sinistra. Quindi non ero uno che si muoveva fuori da una coalizione
    Nel gioco del rispetto delle parti quella del PD e di chi rappresenti davvero in città è rimasta fuori dalla discussione. Anche se solo i recenti fatti congressuali e un qualsiasi TG dovrebbero suggerire al sindaco il beneficio del dubbio. Ma Doria vuole salvare i partiti perché è nel partito che ha fatto il suo percorso giovanile di iscritto, militante, consigliere comunale. Ed è inutile sottolineare a Doria la distanza siderale certificata oggi tra loro e i cittadini.
    Allo Zenzero si evocano i comitati d’affari che continuano a contaminare il processo decisionale ed è forte la ferita di una promessa mancata, la delibera quadro sulla partecipazione e sulla cittadinanza. E chi gli dice che per pensare alla partecipazione bisogna organizzarla chiede a Doria quando il dibattito sui temi discussi dagli elettori in molti circoli cittadini potrà approdare finalmente in Comune. C’è chi gli ricorda che la delibera sulle partecipate è stata scritta dagli stessi che hanno portato al collasso situazioni sane. E a chi gli rinfaccia di avere una giunta targata PD, risponde con il  dato di fatto che il Partito Democratico ha solo tre assessori su undici – Bernini, Dagnino e Garotta – in una giunta che si è scelta da solo. Forse è proprio questo suo piglio da condottiero solitario che non gli ha permesso di mettere insieme una squadra che fosse solidale con il suo programma e governasse al suo fianco. Presunzione? Un pochino. Mescolata al tragico sospetto che Doria non avesse compreso le condizioni in cui versavano le aziende comunali e con quali risorse economiche avrebbe dovuto governare.
    Massacrato da vertenze aziendali e dai conflitti, bersaglio della sua stessa rigidità,  più che un  principe rosso appare come un piccolo principe caduto in un pianeta di cui stenta ad apprendere la lingua, che fatica a decifrare e di cui può essere vittima.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 387: CITTA’ – Ripensare via Cornigliano, tra boulevard e fruttivendoli

    Il 18 febbraio al Centro civico di Cornigliano cittadinanza e istituzioni si sono riunite in assemblea pubblica, per  l’incontro “Cornigliano cambia faccia”, sul concorso di idee per il rinnovamento di via Cornigliano. Al tavolo il Comune, il Municipio, Società per Cornigliano, in platea un pubblico vociante e numeroso.
    Il direttore di Società per Cornigliano Da Molo ha illustrato il concorso dal punto di vista dell’ente finanziatore. Compresa nell’ambito degli interventi previsti dall’Accordo di Programma, la riqualificazione passerebbe attraverso la trasformazione della via da arteria di attraversamento della città (il 96 percento del traffico attuale è di transito), a strada cittadina, in cui la gente ami fermarsi, passeggiare e fare acquisti. I criteri adottati dalla commissione per la scelta del progetto vincente saranno esplicitati nel Documento preliminare alla progettazione, che dovrebbe guidare il lavoro dei candidati.
    Il progetto dovrebbe – idealmente – perseguire la creazione di un’identità per la via. D’altra parte, le istanze raccolte dal municipio e recepite nel definire i criteri di valutazione sono molto pratiche: riduzione a due corsie nel tratto centrale della via (da via D’Acri a via Dufour), ampliamento dei marciapiedi per rendere più agevole il transito pedonale, eliminazione totale dei sottopassaggi, un numero limitato di parcheggi lungo la via per incentivare le attività commerciali, e la creazione di una pista ciclabile. Le opzioni possibili  per l’allargamento dei marciapiedi, saranno – continua ad illustrare Da Molo – una soluzione “a boulevard”, come Parigi, con corsie a centro strada e marciapiedi larghi ai lati, oppure una soluzione a “rambla” come Barcellona, con corsie laterali ed isola pedonale al centro. Il dato sulla consistenza finanziaria del progetto viene scomposto in una sorta di espressione matematica: 800 metri, di lunghezza del tratto di strada interessato per 20 di larghezza, per una superficie di 16mila metri quadrati; ogni metro quadrato ha un costo parametrico di 280 euro.
    Facendo due calcoli, si arriva quasi a cinque milioni di euro.
    Chiuso l’intervento del direttore di Società per Cornigliano, si alzano dal pubblico le prime voci. Prima qualche perplessità sull’avanzamento dei progetti in corso “Ma la strada di scorrimento a mare è ferma? Abbiamo sentito che ha avuto qualche problema a raccordarsi col ponte…”, poi in molti si soffermano sul tessuto commerciale di Cornigliano, impoverito e decaduto: soltanto negozi di frutta e verdura. “Ma avete contato quanti sono, dall’inizio alla fine della strada? Più di quindici, senza contare le traverse…”, con le cassette che, centimetro a centimetro, invadono il marciapiede, si allargano dalla superficie concessa e contendono lo spazio risicato ai pedoni, mentre i vigili fanno quotidianamente il giro e verificano di quanto zucchine e peperoni abbiano sforato dallo spazio concesso. Voci di disparità geografiche che diventano disparità sociali “Nella parte bassa l’Amiu non passa abbastanza. Noi che viviamo nella Cornigliano bassa vogliamo vivere dignitosamente come gli altri”. C’è il consigliere municipale che fa presente alle autorità che non serve una strada in mezzo al deserto, se a Cornigliano ci sono ancora i fangodotti ed il depuratore continua ad appestare l’aria. E quando Bernini afferma che la procedura di spostamento del depuratore è in atto, si leva un coro unanime “Sono dieci anni che lo dicono!”.
    Qualcuno chiede i tempi: si parla del 2015, sia per i tempi necessari al concorso, sia perché prima deve essere conclusa tutta la viabilità a mare, per poter lavorare senza soffocare il traffico della città. C’è chi conclude “Ci hanno sempre tolto…abbiamo avuto un passato, abbiamo un presente…”, il futuro rimane ancora difficile da immaginare.
    (Eleana Marullo – foto dell’autrice)

  • OLI 378: PAROLE DEGLI OCCHI – Don Andrea Gallo (1928 – 2013)

    (Don Andrea Gallo – Foto di Giovanna Profumo)
    Genova, 22 Maggio 2013 
    E’ mancato oggi Don Andrea Gallo. 
    Genova e l’Italia perdono un testimone di fede e di laicità. 
    Un uomo che dava voce ai deboli, a chi era ai margini e a chi voleva cambiare in meglio il paese. 
    Resistenza e partecipazione sono tra le molte cose che Andrea lascia a chi lo ha amato.
    Ci mancherà.
  • OLI 378: COMUNE – Prove (mal organizzate) di partecipazione al Puc

    Puntata bis sulla partecipazione, oggi quella dei cittadini alla stesura del Puc, il Piano urbanistico comunale, ossia quel documento che delinea come sarà Genova nei prossimi dieci anni. Con uno scarto da cannoniere della nazionale e inventiva inattesa dopo le linee della giunta Vincenzi che fece disegnare il Puc in una barca dimenticata in darsena (il famoso Urban Lab), il vicesindaco Bernini decide che è necessario un “percorso partecipato” prima di riprendere in mano il Puc in consiglio comunale, prima ancora di rendere note le risposte degli uffici alle oltre ottocento segnalazioni inviate da associazioni, cittadini e servizi stessi del comune.
    La cosa viene organizzata con i municipi, e si svolge durante riunioni aperte nei nove municipi, a cominciare da quello di Voltri. I tempi sono però strettissimi, e dalla partecipazione molto sentita ma poco numerosa della riunione nel Medio Levante in via Mascherpa alla Foce, si capisce che la comunicazione è, come al solito quando si parla di comune, davvero poco efficace. In via Mascherpa la cosa viene fatta notare, due consiglieri si ribellano spiegando che sono stati apposti i cartelli di avviso in tutte le bacheche pubbiche del municipio. Niente mail, niente Facebook, nessun mezzo post ottocentesco nonostante il presidente ammetta di essere un informatico, e che intende migliorare questo lato della comunicazione. Però “dopo”, aggiungo io, dopo il Puc. Per fortuna che i gruppi consiliari si sono mossi con i propri elettori, che hanno divulgato loro, certo non con quella capillarità che una campagna pubblicitaria, ad esempio in televisione e sui media cittadini avrebbe consentito di sviluppare. Sarà l’esperienza, sarà l’abitudine, anche la sala scelta non poteva contenere più di 50/60 persone, e tutti erano seduti.
    A margine del metodo, il contenuto: l’amministrazione vuole conoscere cosa ne pensa la cittadinanza del Puc. Alla Foce viene travolta da infiniti problemi di manutenzione, dall’argomento nuovo stadio, qualcuno lamenta che tra il momento della notizia della riunione e la data stabilita siano passati pochissimi giorni (circa una settimana, per Voltri è andata peggio, due giorni). Comunque, una riunione sul Puc, senza avere ancora a disposizione le osservazioni e le controdeduzioni degli uffici, con pochi giorni di preavviso, in un clima da “tanto alla fine fate comunque quello che volete” che la dice lunga su come sia il clima là fuori degli uffici patinati, ma ormai non troppo, di Tursi e del “matitone”.
    Non è nemmeno più un problema di contenuti, è diventato il metodo usato che lascia fuori i cittadini, che consente alla giunta di avere scritta la parola “partecipazione” sui giornali ma, nella realtà dei fatti, nulla più che una operazione di facciata anche mal organizzata.
    (Stefano De Pietro)
  • OLI 377: COMUNE – Una smart city poco partecipata

    Una ricerca di Ambrosetti del 2012 sul livello di conoscenza dei progetti smart city in Italia riporta un dato sconfortante: il 78% degli intervistati risponde di non sapere di cosa si tratti. Questo nonostante che siano già da tempo partiti molti progetti, Genova se ne è aggiudicati tre, un vanto per le amministrazioni, una pioggia di soldi europei pronti a calare su alcune aziende genovesi. Ma come funziona oggi un progetto smart? Mentre la definizione del concetto di “città intelligente” proposto dall’unione europea e dall’Anci stessa parla di utilità per la cittadinanza, scelta attraverso un percorso partecipato dove i cittadini stessi possano indicare le proprie idee, il risultato che la politica cittadina ha disegnato è quello di una struttura tecno-oligarchica, dove le aziende propongono progetti ad una associazione della quale fanno parte insieme al comune e il processo decisionale si svolge all’insaputa dei diretti interessati, i cattadini, che si vedranno quindi volare sopra la testa le risorse economiche destinate ad alimentare un mercato dello smart ben distante da loro.
    La cosa drammatica è che la presunta correttezza di questa impostazione viene ribadita dalla giunta attuale, che disporrà al massimo un aumento, o meglio l’inizio, di una fase di informazione ai cittadini che nulla ha a che fare con la partecipazione. Questa confusione di significati è già stata dimostrata in altri campi dell’amministrazione comunale, ad esempio nella progettazione urbanistica: gli abitanti sono ascoltati dall’amministrazione che poi alla fine fa comunque ciò che vuole.
    Ritornando a smart, non a caso su una mozione in Consiglio comunale che riguarda una richiesta di modifica dello statuto dell’Associazione Genova smart city non viene a rispondere il Sindaco – che si era riservato la delega dell’argomento – ma il suo assessore allo sviluppo economico: non stiamo parlando di qualcuno che usa i soldi per realizzare una progettazione partecipata, in definitiva stiamo parlando solo di soldi da dare alle imprese. Quindi lo schema organizzativo genovese resterà lo stesso della giunta Vincenzi, con un po’ di lavoro di maquillage sul sito e qualche riunione in più in commissione comunale, in quanto, come ribadisce la giunta nella risposta alla richiesta di inserire la cittadinanza nello statuto dell’associazione smart city genovese, l’interlocutore della giunta non sono i cittadini ma il consiglio comunale che li rappresenta. Altro che smart! Altro che open source, altro che partecipazione attiva. La partecipazione si risolve, ancora una volta, in una delega al buio che i cittadini hanno pochi secondi per approvare all’interno della cabina elettorale, che avrà un valore quinquennale prima di sentirne di nuovo parlare, nella prossima campagna elettorale, come promessa mai mantenuta di cambiamento di impostazione sociale.
    (Stefano De Pietro – immagine da internet)