Categoria: Paola Repetto

  • OLI 403: PUBBLICITA’ – Alberi e piantine

    Un maschio adulto (presumibilmente il padre) e un maschio giovanissimo (presumibilmente il figlio) piantano un albero nel giardino di casa. Il maschio adulto libera l’alberello dal vaso e insieme al maschio giovanissimo lo pianta nel terreno.
    I due ridono e si scambiano occhiate complici mentre una femmina giovanissima (presumibilmente figlia del primo e sorella del secondo) sta a guardare, imbronciata ed esclusa, il rito primordiale che si svolge sotto i suoi occhi.

    Solo piantine per le donne?

    A questo punto una femmina adulta (presumibilmente madre dei piccoli e moglie/compagna del maschio adulto) si affaccia alla porta e fa cenno alla femmina giovanissima. Insieme, si dirigono verso un’altra zona del giardino e la madre rinvasa per la figlia una piantina che poi la figlia mette sulla finestra di casa. Madre e figlia guardano la piantina e sorridono compiaciute ai maschi che hanno completato il loro lavoro innaffiando l’alberello.
    E’ la pubblicità di uno yogurt che, ancora una volta, trasmette un messaggio pieno di contenuti discriminatori e sessisti. Infatti, mentre i maschi, in uno spazio esterno, piantano un arbusto destinato a diventare un grande albero che vivrà negli anni futuri, le donne, in uno spazio interno, travasano una piantina che concluderà la sua vita effimera su un davanzale. I maschi, quindi, fanno grandi cose destinate a durare e ad essere utili per tutti (il grande albero), mentre le femmine fanno piccole cose con un semplice valore di ornamento interno alla casa.
    Maschi e femmine occupano, quindi, spazi diversi, con una diversa gerarchia di valori: la felicità sta nel riconoscere la propria diversità/inferiorità, accettarla e non invadere lo spazio esterno che i maschi occupano con tanto successo. Questa è la lezione che la madre impartisce alla figlia: non interferire, travasa la tua piantina e renditi conto che piantare grandi alberi non è per te.
    Un messaggio pubblicitario non deve per forza mercificare il corpo della donna per essere considerato discriminatorio: anche in modo molto meno aggressivo si possono veicolare modelli e stereotipi profondamente lesivi della libertà femminile.
    (Paola Repetto – Foto Paola Pierantoni)

  • OLI 357: INFORMAZIONE – Maschilisti di “Fatto”

    Il Fatto Quotidiano propone, tra i numerosi blog che ne fanno parte integrante, anche un gruppo di blog di donne riuniti sotto il titolo – intrigante – di “Donne di Fatto”. Le autrici sono giornaliste, scrittrici, registe, psicologhe, avvocate, attiviste politiche e sociali: insomma, donne vere, che vivono nel mondo reale e che parlano delle difficoltà che molte donne incontrano nel lavoro e nella società, della violenza e della mercificazione del corpo femminile, dell’assenza delle donne dai luoghi dove si prendono decisioni, della lontananza spesso stellare da una politica consumata da se stessa, della lista sempre più lunga di donne uccise “per amore” dai loro padri, fratelli, mariti, fidanzati.
    Articoli mai banali, che aprono una finestra di grande interesse su un universo femminile variegato e dinamico, capace di critica ma anche di proposta, mai settario, sempre disponibile all’interlocuzione e al confronto.
    Tutto bene, dunque? No, non proprio.
    Perché, quando dalle autrici si passa ai commenti, incominciano i dolori addominali acuti.
    I commentatori, in gran parte uomini, non ci fanno mancare alcuno dei peggiori stereotipi che si attribuiscono, di solito, ai maschi più reazionari e oscurantisti.
    Il peggio di sé, però, questi signori lo offrono quando si parla di femminicidio. La fantasia nel trovare giustificazioni per gli uomini che picchiano, maltrattano, violentano, uccidono le donne non ha limiti: si va dalle giustificazioni economiche (crisi, disoccupazione, Imu, protesti di cambiali) a quelle relazionali (donne fedifraghe, prepotenti, che non vogliono far loro vedere i figli, che li obbligano a convivere con la suocera, che vanno a lavorare e non fanno i lavori domestici), fino ad invocare la legittima difesa nei confronti di donne a loro volta manesche, violente e inclini al mattarello. Né mancano le invettive contro le femministe, definite di volta in volta arrabbiate, isteriche, pazze furiose, tese all’annichilimento del genere maschile senza se e senza ma.
    Il problema è generale, ed è da tempo al centro della attenzione e della analisi delle blogger femministe. La rete, avvertono, “non è neutra”. Conquistarvi il diritto di parola (con tematiche femministe) non è affatto scontato. Occorre “presidiare il web” e sapere come utilizzarlo per veicolare il proprio pensiero e contrastare il sistematico attacco di maschilisti e sessisti. “Femminismo a Sud”, che si definisce “un blog collettivo antisessista, antifascista, antirazzista, antispecista e non addomesticabile”, da tempo tratta a fondo il problema (*) che introduce dicendo: “Sin dai primi tempi in cui abbiamo iniziato a presidiare e monitorare la rete, ritenendo a ragione che non fosse uno spazio neutro, abbiamo sommato innumerevoli esempi di misoginia e sessismo, talvolta persino vera e propria istigazione alla violenza contro le donne”.
    Alla radice la pericolosa immaturità di uomini “che si rifugiano in un fragilissimo modello fatto di dogmi e di tradizioni che gli si sgretolano tutto attorno”. La contro-strategia delle blogger è stata: “Lasciavano commenti offensivi e minacciosi? Li abbiamo segati via senza lasciarci intimidire. Denunciavano censura? Rivendicavamo il diritto a veicolare contenuti utili e non insulti. Ricevevamo acide e velenose mail? Le abbiamo ignorate. Qualcun@ ci indicava al branco per istigare al linciaggio? Noi andavamo avanti e costruivamo un sapere alternativo che volevano nascosto, cancellato, defunto. Volevano impedirci di esistere? Noi abbiamo denunciato quanto avveniva e abbiamo studiato ed elaborato forme di autodifesa”.
    Tra queste il manuale: “L’Abc della femminista tecnologica”, che consigliamo non solo a tutte le blogger, ma anche al direttore e a giornalisti/e del Fatto Quotidiano.
    (*) http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2009/10/07/sessismo-misoginia-e-maschilismo-in-rete/ 
    (Paola Repetto e Paola Pierantoni – immagine tratta dal sito “Femminismo a Sud”) 

  • OLI 356: SOCIETA’ – Non ci casco!

    Paura ed insicurezza, come tutte le violenze, colpiscono in modo particolare i più deboli. Gli anziani si chiudono in casa. Pesa una sensazione di vulnerabilità, di fragilità crescente. C’é una giusta paura che piccoli atti di prepotenza possano avere conseguenze enormi. Uno scippo, uno spintone, una caduta possono essere molto pericolosi per una persona anziana. C’è smarrimento, intorno a casa si vede “gente strana”. La TV insiste sulla cronaca nera: spaccio, scippi, violenza, tutto è più complicato di una volta, si allentano i legami di vicinato, di parentela, di solidarietà. Ci si chiude in casa, ma così aumenta la solitudine e quindi l’insicurezza. In caso di bisogno ci si chiede a chi domandare aiuto e non si trova una risposta. Ci troviamo dunque di fronte ad un problema reale, che va affrontato perché l’insicurezza lede la qualità della vita delle persone anziane, che è fatta non solo di buona salute, ma anche di relazioni, di accesso alle opportunità che il territorio offre, di consapevolezza, di capacità di esercitare i propri diritti di cittadinanza.
    In questo contesto si pone la campagna “Non ci casco” promossa dallo SPI CGIL, che non è un’operazione pubblicitaria, un libretto che si mette nelle cassette come un qualsiasi depliant pubblicitario, e nemmeno è un decalogo da imparare a memoria. E’ un contributo a fare attenzione a quei trucchi, a quelle tecniche, a quelle situazioni nelle quali il truffatore può sorprenderci ed è lo sforzo di costruire in sede locale quella “rete” di competenze (lo Spi, l’Auser, la Federconsumatori, il Silp-Cgil) che può assicurare ad ogni pensionata-pensionato l’aiuto che serve.
    E’ anche un modo per prendere contatto con le persone anziane, soprattutto quelle che sono più isolate e spaventate, per farle uscire di casa e aiutarle a ricreare quella rete di relazioni sociali ed amicali che possa diventare un sostegno concreto nella gestione della propria quotidianità. Parlare delle truffe di cui spesso gli anziani sono vittime, segnalare le condizioni di degrado che rendono specifiche aree inaccessibili agli anziani, affrontare il tema della legalità e dei diritti, sdrammatizzare le possibili interazioni con soggetti vissuti come potenzialmente “pericolosi” vuol dire aiutare a ricostruire una visione più serena del mondo circostante.
    La conoscenza chiara dei fenomeni e delle risorse a disposizione sono elementi importanti di consapevolezza e di autodifesa.
    Per questo è utile una campagna che aiuti le persone ad imparare come difendersi da pericoli sempre nuovi, e che spinga le Istituzioni (e non solo le organizzazioni private) ad aiutare le vittime, soprattutto quelle più fragili, che possono ricevere un danno pesantissimo anche sotto il profilo psicologico, a recuperare contesti urbani degradati, a investire nella sicurezza nelle strade e nelle case, a rendere più facile il rapporto con i cittadini.
    (Paola Repetto – Foto Paola Pierantoni)

  • OLI 316: APPUNTI DI VIAGGIO – Le biciclette di Copenhagen

    In Danimarca il mezzo di trasposto più diffuso è la bicicletta. Giovani e anziani, tutti pedalano in scioltezza, nella maggior parte dei casi con un bel caschetto anticadute in testa, ma anche senza. Si pedala su venerande e pesantissime bici d’epoca e su bici tecnologiche dall’aspetto vagamente alieno, su comode bici da passeggio e su esili bici da corsa. Ci sono persino dei risciò a pedali, con i quali i turisti pigri si possono far scarrozzare in giro per Copenhagen. Si pedala da soli o in compagnia di uno o più bambini, in passeggino annesso alla bici o su un seggiolino, se sono più grandicelli. Si pedala tirandosi dietro la spesa o a volte un cagnetto in una specie di rimorchio. Si pedala sulle piste ciclabili onnipresenti nelle città e nei paesi, sulle stradine meno frequentate come su quelle di grande traffico. Le bici si possono affittare a prezzi modici (circa 5 euro al giorno, sconti per lunghi periodi) o si possono usare quelle in comodato gratuito del comune di Copenhagen, che funzionano come i carrelli del supermercato: si sbloccano con una moneta da 20 corone ( poco meno di 3 euro) che poi si recupera quando si restituisce la bici. Sono un po’ scalcinate, è vero, ma d’altra parte non ci si deve correre il Tour de France. Su tutti i treni c’è almeno un vagone riservato ai ciclisti, con lo spazio necessario alle bici, che si possono portare gratis anche in autobus e in metropolitana. Tutte le scale dei sottopassi sono attrezzate con rampe per bici, carrozzine e passeggini, dato che in Danimarca si vedono molti più bambini che non da noi. Non c’è bisogno di dire che anche passeggini e carrozzine circolano comodamente e gratuitamente su tutti i mezzi di trasporto.
    Anche in questo caso, facilitare la vita alle persone costa poco e contribuisce forse al clima di serenità e di civile convivenza che si percepisce in Danimarca.
    (Paola Repetto –  fotografia dell’autrice)

  • OLI 314: TRASPORTI – Copenhagen, o della flessibilità

    Disegno di Guido Rosato

    Tutte le guide, cartacee e on-line, avvertono che i trasporti a Copenhagen sono cari. Non molto di più dei nostri, dopo i tagli al trasporto locale, a dire il vero. In compenso, sono molto più efficienti e razionali.
    Innanzitutto, con un solo tipo di biglietto si viaggia su ogni mezzo di trasporto dentro e fuori città, nell’ambito di un bacino ampio. Per intenderci è come se si potesse viaggiare tra Genova e La Spezia su autobus, treni, metropolitane e trasporti extraurbani con un unico biglietto, il cui costo varia in base alle distanze tra i vari luoghi. Con un biglietto da 2 zone si viaggia in città, per arrivare fino a Helsingor, all’estremo nord del bacino, ci vogliono 9 zone. Il biglietto più versatile è il cosiddetto “klippekort”, un biglietto multiplo per 10 corse. Versatilità che si applica sia al numero delle persone che a quello delle zone. Se, per esempio, acquisto un klippecort da 3 zone, ci posso fare 10 viaggi da 3 zone da sola, 5 viaggi da 3 zone in due o un viaggio da tre zone in dieci, o, al limite, un viaggio da una zona in trenta! Ma posso fare anche 5 viaggi da 6 zone da sola o 3 viaggi da 9 zone da sola, e così via, in tutte le combinazioni possibili. Posso anche prendere un pass da 24 ore per tutte le zone e girare per tutto il giorno usando tutti i mezzi di trasporto che mi pare, con un’unica timbratura iniziale.
    Esempio: dall’albergo a Copenhagen, con la corriera. Dal capolinea della corriera alla stazione ferroviaria, in metropolitana. Dalla stazione di Copenhagen a quella di Hillerod (circa tre quarti d’ora), in treno. Sosta a Hillerod. Poi da Hillerod a Gilleleje, sempre in treno. Sosta a Gilleleje e poi si riparte per Helsingor. Sosta a Helsingor. Per puro sfizio, puntata a Helsingborg, sulla sponda opposta, in Svezia. Da Helsingborg a Copenhagen, ancora in treno. Ritorno in albergo, prima metro e poi corriera, come per l’andata.
    In Italia, per fare un giro analogo, sarebbero serviti quattro tipi di biglietti diversi (autolinee extraurbane, autolinee urbane, treno regionale e treno interregionale) e 9 biglietti diversi. Scomodo, confuso, costoso. Per rendere la vita più facile ai viaggiatori, in fondo, basta davvero poco.
    http://www.visitdenmark.com/italien/it-it/menu/turist/transport/togogbusinformation/togogbusinformation.htm
    (Paola Repetto)

  • OLI 312: SOCIETA’ – Copenhagen, dove gli altri ti sorridono

    Rendersene conto è stato un brutto colpo: camminiamo a testa bassa. Guardiamo dove mettiamo i piedi, attenti a non inciampare nella pavimentazione dissestata o a non pestare cacche di cane e altre spiacevolezze. Camminiamo circondati dal nostro quotidiano, che conosciamo tanto bene da non doverlo più guardare. Decifriamo il mondo intorno a noi per indizi, in base ai rumori, a uno sguardo talmente laterale da diventare inesistente. A volte capita di alzare la testa e incontrare per caso lo sguardo di un altro. Quasi sempre uno sguardo vuoto, immemore, ignaro. A volte uno sguardo che intercetta il nostro con ostilità, quasi come guardarsi negli occhi esprimesse una minaccia nascosta. A volte uno sguardo che si distoglie in fretta, con imbarazzo e fastidio.
    In vacanza, invece, visitando una delle capitali europee, guardarsi intorno con curiosità è normale. Ogni angolo può svelare una nuova prospettiva e poi si fa attenzione ai nomi delle strade per orientarsi, si guardano le vetrine, ci si ferma a bere qualcosa al tavolino di un locale e si osservano i passanti, si passeggia in un parco o lungo l’acqua, si viaggia sui mezzi pubblici e si deve scendere alla fermata giusta, si fa la coda per entrare nei musei o nei castelli. E, così facendo, si incontrano altri sguardi. A Copenhagen, quando questo succede, gli occhi dell’altro si illuminano di un sorriso. Le prime volte è sconcertante, ma ci si abitua in fretta e si ricambia. Ci si sorride. Un istante, ma c’è stato un incontro, un riconoscimento. E’ come se un peso cadesse dal respiro, un secondo gratuito di felicità.

    (continua)

    (Paola Repetto)

  • OLI 302: SOCIETA’ – Vecchie, anziane e studentesse

    Il motore di ricerca di immagini di Google è uno strumento molto utile: mette a disposizione infatti una straordinaria quantità di materiale visivo – fotografie, disegni, illustrazioni, riproduzioni di opere d’arte – che può essere utilizzato per presentazioni, lezioni, documentazione di diverso genere.


    Anche uno strumento apparentemente neutro può però rivelare i pregiudizi e gli stereotipi della società che rappresenta: basta provare a ricercare immagini relative ad un medesimo soggetto, ma in due lingue diverse.

    La ricerca di immagini basata sul sostantivo italiano “studentesse” fornisce, accanto a una minoranza di ragazze con zainetti o intente nella lettura, un allegro e prevalente campionario di fanciulline più o meno scosciate che ammiccano maliziose o che ostentano biancheria sexy. La medesima ricerca, basata però sull’inglese ”student girl” ci presenta solo due immagini “piccanti” su 4 pagine disponibili alla prima schermata.
    Altre sorprese vengono da ricerche su diverse età della vita: in italiano le ricerche “donna vecchia” e “donna anziana” producono un orrido campionario di befane, carampane e vecchie streghe, buone tutt’al più come testimonial per pannoloni e dentiere.
    In inglese, invece, la passerella dei mostri è limitata a”old woman” (donna vecchia) mentre “elderly woman” (donna anziana) ci rimanda a arzille vecchiette con nuvole di capelli bianchi o a anziane signore energiche e ben tenute, come tante ne esistono anche alle nostre latitudini.
    Per trovare immagini comparabili in italiano bisogna cercare “donna anziana bella”, e allora le streghe spariscono e si intravede un barlume di normalità.
    Insomma, in Italia la donna giovane è sempre un oggetto sessuale e la donna vecchia sempre un relitto, mentre all’estero prevale un atteggiamento più equilibrato, anche se la vecchiaia in quanto tale proietta comunque immagini di bruttezza e disagio.
    Ancora una volta, il nostro paese umilia le donne e non ne riconosce il valore, a parte, naturalmente, quello dell’avvenenza fisica. Triste, ma vero.
    (Paola Repetto)
  • OLI 272: SOCIETA’ – L’estate nera delle donne italiane

    Luglio caldissimo, agosto piovoso, mare opaco di alghe e petrolio, risse politiche, circo equestre a Roma con carabinieri e cavalli berberi e, spesso in prima pagina sui quotidiani a corto di notizie, uno stillicidio quotidiano di violenze contro le donne.
    Donne massacrate dai loro ex mariti e fidanzati che “non si rassegnano” a essere lasciati; donne massacrate da ex fidanzati di altre, che sfogano la propria rabbia sulla prima che incontrano; donne massacrate da medici incompetenti, che trasformano in tragedia un evento naturale come il parto; donne massacrate dalla paura e dall’ignoranza, mentre abortiscono clandestinamente nel bagno di casa; donne usate da una pubblicità violenta e volgare, che ne offende la dignità umana; donne in parata davanti al dittatorello di turno, assoldate in massa a pochi euro al giorno. Un lungo elenco di offese, di mercimonio, di violenza a volte più sottile, più spesso omicida, troppo lungo, articolato, specifico per poterlo ritenere casuale.
    Alla base la convinzione che le donne siano per loro natura “inferiori”, un “ambiguo malanno”, come già le etichettava l’antichità classica, convinzione radicata nel nostro paese anche grazie alla storica misoginia cattolica, convinzione che fino a pochi anni fa nessuno osava esprimere, ma che la recente svolta popolar-pecoreccia del pensiero politico ha sdoganato, un po’ come è accaduto per il razzismo, per l’omofobia e per la certezza che tutto sia lecito, basta solo non farsi beccare con le mani nel sacco, o, se beccati, produrre immediatamente una legge ad personam per farla franca.
    Un’estate nera per le donne italiane: e non aiuta che molti quotidiani continuino a definire questi assassinii come “delitti passionali” o “tragedie dell’amore”. Qui l’amore e la passione non c’entrano niente: c’entra invece l’idea che il corpo delle donne appartenga agli uomini, ai medici, ai padri, ai mariti, ai potenti e che il proprio spazio di potere si definisca in base alla forza e all’estensione di questa appropriazione indebita.
    C’entra l’idea che il lavoro delle donne sia solo “aggiuntivo” rispetto alla definizione del reddito familiare; c’entra l’idea che lo spazio pubblico non esista e che i diritti collettivi siano inutili; c’entra l’idea che formazione e competenza valgano di meno di un bel “lato B”; c’entra un’idea feudale del potere, in cui la vicinanza al corpo del capo definisce l’accesso al potere stesso.
    Parlare di donne, oggi, vuol dire parlare di questo: della natura e delle forme del potere e delle parole nuove che dobbiamo imparare a pronunciare per disvelarne la natura regressiva e pericolosa.
    Abbiamo bisogno di vederli in fila, questi donnicidi, di leggerli nella loro enormità, nel loro orrore per sottrarli all’effimera indignazione di chi ne legge distrattamente su un quotidiano, per ricondurli al loro significato di segnale inquietanti di questo nostro tempo.
    Perché è ipocrita manifestare per una donna condannata a morte in un paese lontano, se non c’è, insieme, la consapevolezza della violenza che tuttora è presente nella nostra cultura e nella nostra società.

    http://www.ilcorpodelledonne.net/?page_id=89
    http://comunicazionedigenere.wordpress.com/2010/09/24/sulla-pubblicita-sessista/
    http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/08/08/violenza-sulle-donne-in-aumento-simonelli-e-doveroso-parlarne/48752/
    http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20070221_00/
    http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/09/06/news/lerner_murgia-6791000/

    (Paola Repetto)

    OLI 272: SOMMARIO