Dunque, in Parlamento donne di diverso orientamento hanno stretto un’alleanza, contrapponendosi alle decisioni e alle omissioni dei rispettivi partiti di riferimento, rappresentandola simbolicamente con la scelta del colore bianco, usato nel recente passato nelle manifestazioni contro il femminicidio.
In questo modo hanno dimostrato che le donne sono ancora capaci di atti di ‘disubbidienza’, e che la disubbidienza è necessaria se si vuole almeno tentare di inceppare il meccanismo di una politica fondata su accordi tra uomini fermamente e trasversalmente schierati a difesa della conservazione del loro status opponendosi, come osserva Chiara Saraceno (La Repubblica 11 marzo) a quelle che dovrebbero essere definite non ‘quote rosa’, ma “norme antimonopolistiche che impediscono la formazione di un ‘cartello’ basato sul sesso”.
Le donne si sono pubblicamente esposte, e sono state sconfitte.
Non ce l’hanno fatta contro l’attacco concentrico dell’incredibile ambiguità intrinseca al Partito Democratico, della deprimente viltà di menare la botta col volto coperto dal voto segreto (proposta da Forza Italia ma certo accolta con segreta gratitudine da molti del PD), e della desolante logica dei Cinque Stelle che giocano a fare gli alieni invece di diventare attori efficaci di democrazia.
Ma è avvenuto un importante fatto politico e culturale: le donne hanno messo in scena, pubblicamente, quello che lo storico Giorgio Galli – citato su La Repubblica del 11 marzo da Filippo Ceccarelli – definisce “un conflitto che non è stato oggetto in quanto tale di attenzione da parte degli storici. Come se fosse un fenomeno sociale secondario, ed è il conflitto maschile-femminile; ed è proprio da questo perenne, sommerso e indicibile incontro-scontro che vengono a crearsi le condizioni per la vita stessa degli uomini e delle donne”.
Se a seguito di questa vicenda riescono a filtrare sui giornali pensieri e consapevolezze figli della cultura femminista, c’è, nonostante tutto, da gridare alla vittoria, e da aprirsi alla speranza che, carsicamente, un cambiamento culturale sia dopotutto possibile.
Il fatto che le parlamentari abbiano condotto questa battaglia, e siano andate incontro a questo scacco, può aiutarle nel futuro a rafforzare la propria autonomia di pensiero, a rinunciare alla gratificazione dell’approvazione maschile, a non abbandonarsi alla illusione che i conflitti siano alle spalle. E non solo in merito di leggi elettorali.
Certo, sarebbe stato bello vedere circolare questo brivido di autonomia anche tra le ministre. Speriamo che non si buttino questa giornata alle spalle, e che ripensino a quel che è avvenuto.
(Paola Pierantoni – immagine da internet)
Categoria: Legge elettorale
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“O cavallina, cavallina storna, che portavi colei che non ritorna”: si parla della logica, reduce dai banchi di Montecitorio. Alcune volte ci si chiede che fine abbia fatto, vista la sequela di norme contraddittorie e inutili e anche sbagliate che sono state prodotte nel tempo dal Parlamento. La legge elettorale, vigente da tempo immemore in Italia, non tiene conto della sequenza logica degli avvenimenti necessari alla presentazione di una lista per le elezioni. Per questo motivo deve essere riformata dalle basi.
Analizziamo la sequenza come prevista. Prima di tutto occorre avere una lista di candidati, e quella bene o male tutti i partiti e i movimenti sono riusciti a tirarla su, chi più chi meno. Poi occorre raccogliere le firme su dei moduli cartacei, con la presenza di un certificatore, sovente al freddo, per strada. I moduli devono avere il simbolo elettorale già inserito, a colori (per un costo di circa 500 euro per raccogliere 5000 firme). La raccolta delle firme è prevista da sei fino a circa un mese prima delle elezioni, data di consegna delle firme e dei relativi certificati elettorali dei firmatari.
Un giorno “che non si sa quando esattamente” ma comunque prima del giorno di consegna delle firme, dopo una coda all’aperto a Roma senza un ordine di arrivo che non sia autogestito, si deve invece consegnare il simbolo. Il simbolo elettorale, diametro esattamente 30 millimetri, tondo, quello già esposto così in evidenza nei moduli elettorali, deve essere unico e non simile ad altri. In caso di somiglianze, ha la precedenza quello che viene consegnato per primo.
La legge elettorale non prevede l’esistenza di marchi registrati attraverso gli stessi organi statali quali l’Ufficio marchi e brevetti, se non quelli già presenti in Parlamento; quindi copiare quello del Pd o del Pdl non sarebbe un’idea furba, quello del Movimento 5 Stelle, di Monti o di Ingroia invece si. Ed infatti è successo.
Insomma: occorre consegnare per primi un simbolo che la legge stessa ti obbliga a mostrare al mondo prima della consegna, ossia esiste di fatto un obbligo di esporsi al rischio della copia, senza fornire al riguardo alcuna protezione: è evidente l’assurdità della situazione. Inoltre i marchi registrati, che sono oggetto di continue contese nelle aule di tribunale quando si parla di utilizzo commerciale, non sono tali se si parla di elezioni: cosa può aver portato un legislatore a inventarsi una cosa simile?
Di più: con i tre marchi copiati, depositati prima di quelli originali solo per fare “ammuina”, si giunge all’assurdità che i detentori del marchio “vero” avranno raccolto le firme necessarie ma non potranno usarlo, mentre chi non ha alzato il sedere dalla sedia, e non presenterà firme il 21 gennaio, non potrà presentarsi alle elezioni, e quindi avere il marchio nella scheda elettorale: siamo alla follia pura, all’eutanasia elettorale.
E’ evidente che la legge elettorale va cancellata completamente e riscritta in termini moderni. Prima di tutto il sistema di rilevamento delle firme deve essere possibile anche via internet o con sistemi elettronici, con l’utilizzo di tecnologie che possano facilmente autenticare le persone. Questo, oltre ad accelerare i tempi di raccolta, consentirebbe uno sgravio notevole del lavoro degli uffici elettorali che devono controllare uno per uno i firmatari, stampare i certificati, verificare che abbiano firmato una sola volta e per un solo candidato. Prima ancora, il simbolo va depositato attraverso un registro come l’Ufficio dei marchi, e da loro recepito come unico. Solo dopo il recepimento del marchio, sarà possibile la raccolta delle firme.
(Stefano De Pietro)
