Pavia, ore 1, 25.
Matteo è andato a prendere Guido alla scuola materna e lo ha portato a mangiarsi una cioccolata calda da Luigi, il bar in piazza dove comprava le chewing gummma quanto aveva l’età di Guido e le chewing gummma costavano 20 lire.
– Papà, perché vieni tu a prendermi e non la nonna?
– Non sei contento?
Dice Matteo asciugandogli il muso col tovagliolo.
– Cosa hai fatto oggi a scuola?
– Ho fatto il libro dei grandi, quello per andare in prima elementare: devo passare sopra le righe con pennarello.
– Bravo!
Matteo conta gli spiccioli che gli sono rimasti in tasca dopo aver pagato la cioccolata.
– Vuoi fare un gioco con papà?
La cioccolata è finita metà nella pancia di Guido e metà sulla sua giacca, Matteo la pulisce con alcuni fazzoletti che abbandona dentro la tazza vuota. Padre e figlio si siedono su degli sgabelli alti di fronte a un computer colorato.
– Come si gioca papà?
– Bene, allora noi mettiamo questo soldino qua dentro e poi schiacciamo il pulsante così.
Il computer si illumina, Guido ride, Marco trattiene il respiro, gli occhi si dilatano e il battito cardiaco aumenta.
… Oggi ha piovuto tutto il giorno, È arrivata la bolletta del gas, Cinzia è incazzata, è sempre incazzata e non si capisce perché, la mamma non può più andare a prendere il bambino scuola perché ha la sciatica, magari però succede qualcosa di buono…
Il computer lampeggia, una musichetta trilla, sullo schermo sono comparsi tre limoni, Guido batte le mani e chiede:
– Abbiamo vinto?
– Sì.
Dice Marco soddisfatto.
– Abbiamo vinto un’altra partita: schiaccia!
– Questo qui?
Chiede Guido con orgoglio indicando il pulsante rosso.
– Con forza, al mio tre: uno, due, tre! Il bambino schiaccia con un’aria seria seria: il presidente degli Stati Uniti non avrebbe avuto un’espressione diversa se avesse lanciato la bomba atomica.
A Matteo gli si ferma di nuovo respiro
… come diceva quel film di quando ero ragazzino: non può piovere per sempre…
Accenna un sorriso, gli occhi fissi sullo schermo colorato.
– Ho vinto?
Chiede Guido guardando il padre. Marco ha la gola secca: non ha vinto! Infila un’altra monetina nella fessura e schiaccia il pulsante rosso.
– Io, papà. Io devo schiacciare il pulsante.
– Aspetta.
Il bambino è aggrappato al braccio del padre. La macchina lampeggia, sembra che gli sorrida.
– E io papà?
Il giallo, il rosso, il verde gli ballano davanti invitandolo a continuare, la macchina gli sussurra ancora e la sua voce è un linguaggio morse luminoso. Il braccio del bambino è pesante. La frutta balla leggera davanti ai suoi occhi mentre schiaccia automaticamente il pulsante di puntata massima, le monetine scivolano dentro la sua fessura sempre accogliente, il bambino è caldo, appiccicoso, lo trascina verso il basso.
– Sì, aspetta. Lo vuoi un gelato?
… Dentro le vene l’adrenalina corre contro Cinzia, contro la paura. Ma di cosa ha paura? Che la mamma muoia? Che Cinzia lo lasci? Di svegliarsi un giorno ed essere solo. Deve smettere di correre (devo smettere di correre), deve respirare (devo respirare), non può piovere per sempre (non può piovere per sempre). Una voce dentro di sé gli dice di smettere! (Smettila!)
Si ferma, si guarda intorno con nonchalance, si asciuga le mani sui jeans, fa un passo in dietro tanto che il bambino si sbilancia, lui lo sostiene prontamente, gli sorride.
– Dai forza, l’ultima monetina è tua.
La monetina scompare nella fessura, Guido schiaccia il pulsante rosso guardando il padre, la macchina sembra delusa e pigramente mostra tre frutti disuguali.
– Ho vinto?
– No.
– Ma io volevo vincere!
Matteo prende in braccio Guido.
– Domani.
– Ma io volevo vincere oggi.
Matteo apre il portafoglio: c’erano 30 euro.
– Bisognerà passare da un bancomat. Andiamo dai, se no la mamma si preoccupa.
Fuori piove, Guido saluta la slot-machine con la mano:
– Ciao, ciao.
Matteo gli tira su il cappuccio, la macchina sorride, tre ciliegie scendono come palpebre luminose.
(Arianna Musso)
Categoria: ilfattoquotidiano.it
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OLI 401: TEATROGIORNALE – Il gioco
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OLI 383: TEATROGIORNALE – L’ultima predica
[Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali]– Io sono figlio di Chlomo e questo è il mio tempio, io sono figlio del re Salomone e invoco il ritorno a quell’era di giustizia e saggezza.
L’uomo alto e moro è davanti al muro, parla con voce profonda, fa ampi gesti con le mani, è vestito con una lunga tunica bianca e un kippà. I numerosi avventori che affollano il muro gli passano attorno come formiche, sono tutti occupati a fare qualcosa: foto, infilare foglietti nel muro, togliere foglietti, pregare, baciare il muro, leggere, sussurrare tra le pietre, appoggiarci la testa, accarezzare il muro.
– Io sono figlio di Avraham che su queste pietre legò la sua primogenitura per compiacerti. Io sono il figlio di Abramo e ti prego di salvare tutti i miei figli così come salvasti Isacco.
Un gruppo di turisti americani, in pantaloncini chiari e cappellini su corpi sfondati da bevande ipercaloriche, si allontana.
– Io sono il figlio di Yaacov che un giorno fece un sogno: una scala da terra si protendeva fino al cielo, angeli vi salivano e vi scendevano. Dio parlò e disse a Giacobbe che lì era la terra dove sarebbero prosperatI i figli benedetti e amati dall’Unico.
L’uomo moro in kippà corre e disegna coi suoi passi un quadrato, per farlo deve spintonare una scolaresca di dodici o tredicenni che si lamenta, il professore di appoggio va a chiamare una guardia. L’uomo si sdraia a terra.
– E aspetto l’arrivo di Mashiach, il messia!
Un uomo con il cappello nero e la barba si avvicina all’uomo moro in kippà e cerca di farlo alzare ma l’uomo è rigido e fermo, le mani lungo il corpo, i palmi rivolti a terra, gli occhi sbarrati. Una donna, che parla ebraico con un pesante accento tedesco, chiede: – Ma è matto?
– O vede dove noi non possiamo arrivare.
L’uomo moro in kippà salta in piedi con un balzo.
– Tito cercò di distruggerlo e non lo fece per intero, lasciò questo muro perché qui noi potessimo tornare, fino all’ultimo dei tuoi figli Israel.
Il professore d’appoggio della scolaresca indica l’uomo moro col kippà a un giovane soldato.
– Tutti cercano di espropriare la tua patria Israel.
L’uomo in kippà si mette una mano dentro la tunica per trar fuori il tefillin Shel Rosh per la preghiera.
– Perfino il cavallo alato al-Buraq è stato legato sulle tue pietre per permettere a chi urla ‘Allahu Akbar’ di chiedere un posto vicino ai tuoi figli.
L’uomo moro con il kippà urla con le braccia aperte e in mano la scatoletta di pelle scura contenente brani della Torah.
Le parole rimbalzano sul muro, il soldato prende la mira e spara al petto dell’uomo con la kippà.
– Perché hai sparato? chiede l’uomo con il cappello nero e la barba – Era un ebreo come noi, stava per mettersi il tefillin.
Il giovane soldato si guarda attorno spaventato – Ho avuto paura – sussurra. – Mi hanno detto che si comportava in modo strano, stava prendendo qualcosa dalla tasca… ho avuto paura.
– Queste parole […] le legherai come segno sulla tua mano, e siano sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. -Così dicendo l’uomo col kippà bacia la scatoletta che contiene brani della Torah e muore.
Tutt’intorno si è fatto silenzio, molti guardano con gratitudine quel giovane soldato dal volto pallido e sudato che li ha salvati.
(Arianna Musso)
