Autore: Redazione

  • OLI 298: VITTORIO ARRIGONI – Morire senza un perché

    Il 15 aprile nella casella mail arriva un appello dall’Associazione per la pace, che invitava a firmare per la liberazione di Vittorio Arrigoni, il giovane pacifista che viveva a Gaza, rapito il giorno 14 e apparso su youtube bendato e pestato. Troppo tardi.
    Troppo tardi per firmare, troppo tardi perchè Vik era già morto, ucciso ancor prima che scadesse l’ultimatum dei suoi rapitori.
    “Restiamo umani” era il suo blog, commoventi i suoi scritti: Stay Human, a conclusione di ogni intervento su http://guerrillaradio.iobloggo.com/
    Folgorato dal barbaro embargo che Israele imponeva agli abitanti della Striscia, Vittorio viveva ormai a Gaza da tre anni, scortava nel mare i pescherecci, sfidava il blocco navale. Era palestinese persino nel passaporto concessogli da quella terra, dove la cecità dello Stato israeliano è paragonabile a quella dei Paesi fratelli di quel popolo, che a parole ma non con i fatti lo aiutano.
    Finte democrazie arabe; in realtà in quasi tutta l’Africa e dintorni, sia pure con eccezioni, il potere è oggi dei militari, ed erano fino a ieri in vigore regimi autoritari fondati sulla forza, come in Egitto con una “democrazia socialista” presidenziale, eletta a suffragio universale da decenni. (Corriere della Sera, Giovanni Sartori, 15/4)
    Non si può certo dimenticare come vivono i palestinesi nelle altre terre arabe, confinati da decenni in quartieri ghetto e campi profughi. Un popolo scomodo: non sono tanti quelli riusciti ad affrancarsi da una sorte segnata.
    L’Onu, l’ Europa, il pontefice esprimono condoglianze per la morte di Vik, che non risultano pervenute dalla Lega Araba, mentre in Egitto per Vittorio funerali di stato, dopo le tante manifestazioni di solidarietà da parte dei palestinesi per l’amico, che condivideva le loro difficoltà.
    L’ultimo scritto di Vik è del 13 aprile, per comunicare la morte di quattro palestinesi nel crollo di uno dei tunnel della sopravvivenza, che servivano a far passare viveri e ogni bene di prima necessità ai palestinesi. Nel suo racconto per PeaceReporter riassume i bombardamenti, le violenze, le uccisioni, un bollettino di guerra atroce e infinito: tanta pietà per i bimbi palestinesi, ma nessun accenno ai bambini israeliani trucidati da un palestinese in Cisgiordania il 12 marzo insieme ai loro genitori.
    Non giovano alla causa della pace le parole della madre: “Israele non l’ha voluto da vivo. Non avrà il mio Vik da morto”, ribadendo il suo desiderio di far passare dal valico di Rafah, dalla parte egiziana, la salma del figlio e non da Israele.
    Così la risposta all’appello dello scrittore israeliano Etgar Keret comparso sul Corriere della Sera il 17 aprile: “La madre ci ripensi. La nostra Terra merita speranza..Così quest’ultimo viaggio diventa simbolo dell’odio”. Purchè restiamo tutti umani.
    (Bianca Vergati)

  • OLI 298: YEMEN – Le donne di Piazza del Cambiamento.

    Il movimento per la libertà e la democrazia che sta coinvolgendo quasi tutti i paesi arabi ha già avuto grandi risultati con la caduta di Mubarak in Egitto e Ben Al in Tunisia. Nello Yemen il processo di cambiamento è in una fase avanzata.
    I giovani yemeniti stanno seguendo il modello egiziano: l’occupazione ad oltranza delle piazze principali delle città. Piazza del Cambiamento nella capitale Sana’a è occupata dal 3 febbraio scorso. Come è stato in Egitto e Tunisia (dove il processo di costruzione della democrazia sta andando sempre avanti con tutti i pericoli e le insidie che caratterizzano queste delicate fasi storiche), anche nello Yemen le donne stanno partecipando molto attivamente alle lotte. Le loro colleghe tunisine stanno ottenendo risultati importanti che, soltanto qualche mese fa, erano inimmaginabili: in base alla nuova legge elettorale non saranno ammesse liste che non abbiano almeno il 50% di candidate.
    Le donne presenti in piazza hanno avuto un ruolo fondamentale per mantenere il movimento per il cambiamento nello Yemen sulla linea della nonviolenza. I giovani continuano a non rispondere alle provocazioni e non cadono nella trappola della violenza alla quale è stato costretto il movimento in Libia.
    Consapevole della determinazione e del coraggio delle donne il contestato presidente Ali Saleh ha cercato nel suo discorso al popolo di venerdì scorso di neutralizzarle attaccandole su un punto molto delicato della tradizione yemenita: ha fatto appello alle forze dell’opposizione (che, come in Egitto, non rappresentano i giovani in piazza, ma che hanno partecipato in un secondo momento al movimento), di evitare la promiscuità tra donne e uomini nelle piazze.
    La riposta delle donne yemenite è stata forte ed immediata con cortei femminili in tutte le principali città, chiedendo di processare il presidente per calunnia al loro onore. “Ci vuole rinchiudere in casa come le galline”, “saremo noi donne a farlo cadere e a processarlo”, “noi siamo educate, oneste e coscienziose è lui che non è stato onesto nei confronti del popolo e dei suoi diritti”.
    Poche, invece, sono state le donne che hanno seguito il classico del calcio mondiale sullo schermo gigante allestito in piazza del Cambiamento a Sana’a. La partita di calcio tra Real Madrid e Barcellona, due tra le squadre più forti e spettacolari del mondo, dove giocano Messi e Ronaldo, è stata seguita dai giovani divisi nel tifo per una squadra o l’altra, ma, alla fine della partita, uniti nel chiedere la partenza del presidente Ali Saleh.
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 298: STORIA – La guerra di un soldato in Cecenia

    Arkadij Babčenko pare un foglio bianco. E’ inespressivo come una statua. I ricordi a cui accenna lo trapassano come brevi note informative che non sembrano avere a che fare con la sua vita. Laddove il termine “sua” implica relazioni affettive, emozioni, dolore e felicità. E’ stato invitato a Palazzo Ducale, il 15 aprile, nell’ambito di La Storia in Piazza per presentare il libro La guerra di un soldato in Cecenia (ed. Mondadori)

    L’incontro è stato fortemente voluto dal Comitato per la pace nel Caucaso e dall’associazione Mondo in cammino. Accanto a Babčenko, Lucio Caracciolo e la traduttrice del libro Maria Elena Murdaca.
    L’autore racconta di esser partito di leva, in Siberia, a diciassette anni. Passati sei mesi, con altri compagni, viene convocato dai superiori: “Andrete a servire al Sud. Lì fa caldo, ci sono le mele. Vi piacerà” . Che il frutteto fosse la Cecenia è stato detto loro all’ultimo momento. Era il 1996. Arkadij Babčenko spiega ai presenti l’assenza di tempo, l’impossibilità di uno spazio per farsi domande sulle ragioni della guerra. “Ci sei e devi pensare solo a sopravvivere”. E guarda il pubblico “quando una persona è stata in guerra cambia la sua psicologia, la sua coscienza rimane in guerra, torna solo il corpo. Vai in giro per questo mondo, lo guardi e non capisci niente. Ci sono due ore di volo tra Mosca e la Cecenia. A due ore di distanza da Mosca ci sono montagne di cadaveri che bruciano”.
    Ma Babčenko ci tornerà una seconda volta. Da volontario. “Siamo tornati a migliaia. Era come una droga. La guerra è come un virus. Siamo tutti portatori sani. E’ la cosa più bella che mi è capitata, ma anche la più brutta”. Racconta del nonnismo “che nella prima guerra Cecena aveva superato i limiti” e dei battaglioni penali. Della moralità e della spietatezza capaci di animare lo stesso individuo in una logica capovolta per la quale quello che da noi è inaccettabile in guerra diventa normale. Ci tornerà da corrispondente di guerra nel 2002 e nel 2003 . Babčenko parla di un conflitto che si è esteso ad altre repubbliche caucasiche e di una Cecenia dominata Kadyrov “personaggio singolare, fatto a modo suo, un tagliatore di teste, imposto dal Cremilino, uno che ha ucciso tutti i suoi oppositori”.
    Il quadro che offre dell’opinione pubblica russa è desolante: “la maggior parte è convinta che abbiano fatto bene ad ammazzare la Anna Politkovskaja” e racconta del preoccupante aumento dei movimenti neofascisti, insieme all’integralismo islamico.
    Oggi Babčenko è giornalista del Novaja Gazeta . Elenca sulle dita della mano i 6 colleghi uccisi negli ultimi 11 anni, ultima vittima una stagista del quotidiano, due anni fa.
    L’autore si occupa della rivista letteraria Isskustvo Voynj – L’Arte della Guerra, uno spazio “dei veterani e per i veterani” in cui grazie alla scrittura ci si racconta, e si prova a guarire dalla guerra.
    (Giovanna Profumo)
  • OLI 298: CULTURA – La barriera di Palazzo Ducale

    Giovedì 14 aprile alle 21 nel salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale c’è stato un concerto bellissimo, parte del calendario de “la Storia in Piazza”.
    Titolo del concerto “Musica Al Hurria”, direzione musicale di Davide Ferrari che ha riunito cinque musicisti di nazionalità egiziana, marocchina, tunisina, algerina ma che vivono in Italia, per un progetto in cui l’espressione musicale diventa veicolo per un rapporto con il Nord Africa, e con la sua aspirazione alla libertà e alla democrazia.

    La sala del Maggior Consiglio era piena, il rapporto tra musicisti e pubblico molto caldo, la qualità della musica e degli artisti davvero alta, gli applausi tantissimi. La cortesia dei musicisti aveva inserito nel programma una canzone napoletana, Dicitencello vuje, cantata in arabo, ma non era solo la lingua a cambiare, anche la melodia aveva subìto una trasformazione, si colorava di scale e di ritmi che non erano nostri, ma richiamavano antiche radici comuni. Un’altra musica conteneva indiscutibili echi di flamenco, altre avevano suoni e ritmi non arabi, ma decisamente africani. La musica parlava di contatti, di legami, di spostamenti, di commerci. Di storia, appunto.
    Nel corso del concerto più volte i musicisti hanno fatto riferimento agli avvenimenti del Nord Africa, alla speranza di un cambiamento che è ancora sospeso nell’incertezza. Hanno detto che la prossima volta tra loro avrebbe dovuto esserci qualche musicista libico. Gli applausi del pubblico hanno sostenuto con calore queste frasi. Solo che in sala, salvo due o tre persone chiaramente nordafricane, c’erano solo italiani.

    C’è una barriera anche nella nostra città, e il Salone del Gran Consiglio di Palazzo Ducale, per gli immigrati, è al di là di questa barriera. Potremmo definirla, in senso lato, una barriera di classe.
    Immagino la sala se la barriera non fosse esistita, immagino le danze che sicuramente si sarebbero accese, la commozione che ci sarebbe stata, il filo invisibile che – come dice Calvino per una delle sue città – avrebbe allacciato per un attimo, in quella sala, un essere vivente ad un altro.
    Ma la barriera c’era eccome, visibilissima attraverso le assenze. Per superarla ci sarebbe voluta una precisa azione ed intenzione politica da parte di chi gestiva gli eventi, che invece è mancata.

    I nomi degli artisti: M’Barka BEN TALEB Tunisia: voce; Samir ABDELATY ELTURKY Egitto: voce – darbouka – daf – riqq – bendir; Marzuk MEJRI: Tunisia voce -darbouka – ney; Abbes BOUFRIOUA: Algeria voce – oud – chitarra; Abdenbi EL GADARI: Marocco voce – guinbri – qarraqeb – t’bel
    (Paola Pierantoni – foto Ivo Ruello)

  • OLI 298: MOSTRE – Mafalda al Ducale

    Mafalda sono io.
    O meglio, così mi sono sentita venerdì 15 aprile dopo aver fatto un salto a Palazzo Ducale.
    Consapevole che la mostra Mediterraneo era prossima alla chiusura, ho deciso – per evitare le code del week end – di munirmi per tempo dei biglietti.
    Al bookshop di Palazzo Ducale vengo informata che loro non gestiscono la mostra e sono indirizzata al piano superiore. Lì mi comunicano che se desidero prenotarmi per i giorni successi devo telefonare al numero 0422 429999 – disattivo sabato e domenica – o prenotare sul sito htpp://www.lineadombra.it, pagando con carta di credito.
    Viene tassativamente esclusa la possibilità di prenotarsi e comprare il biglietto seduta stante.
    Uscendo dalla biglietteria scorgo Luca Borzani, presidente di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura. Lo avvicino con piglio determinato chiedendogli ragione di tale follia.
    Io sono qui ed ora. Perché non posso prenotarmi e pagare adesso?
    Questa è la regola. Mi risponde lui. Regola ampiamente condivisa da molte organizzazioni di mostre in Italia.
    Ma i vecchi? Come fanno gli anziani?
    I vecchi, mi sento rispondere, vengono alla mostra senza alcuna difficoltà.

    Ma anche se la regola è condivisa, non è detto che sia saggia. E mi viene in mente il lampionaio del Piccolo Principe che, in base alla consegna, spogliatosi del suo senso critico, si ritrova ad accendere e spegnere il lampione, anche se il moto del suo pianeta è follemente accelerato.
    A me non va giù. E mi sento come Mafalda. Sgarrupata e inutile nel mio insistere.
    Ma Luca Borzani è paziente. E mi fa notare che questa mostra non mi costa nulla come contribuente, mentre mi ostino a voltarmi verso il cartellone tariffe, dicendo che invece mi costerà 10 euro. Ma lui mi ricorda che io, come contribuente, non pagherò nulla. E chiede se sono, o non sono consapevole del fatto che se vado a vedere l’Opera – a Genova il capitolo sarebbe bene non aprirlo – pago un biglietto che copre solo in parte gli oneri accessori dell’evento. Perché il resto lo pagano i contribuenti. Mi invita, infine, a visitare la mostra durante la settimana.
    Borzani ha un distacco e una flemma che solo pochi… e il tono moderato e uniforme dovrebbe indurre a pacatezza anche il profugo tunisino. Se non fosse che ciò che dice mi pare lontano anni luce da quanto vorrei fosse detto da un politico così navigato.
    Provo a formulare un’ipotesi del tutto personale:
    “Signora, so che questa delle prenotazioni è una sciocchezza. E farò il possibile affinché in futuro questo non accada”.
    Per Habemus Papam nessuna difficoltà ad acquistare il biglietto al botteghino il sabato per la domenica successiva. Ma quello è cinema.
    (Giovanna Profumo)

  • OLI 298 – NUCLEARE: I sessanta chilometri di Milashima


    Nel numero 295 di Oli un lettore ha inviato una lettera alla quale rispondo con piacere, trattandosi di argomenti abitualmente portati a difesa del nucleare.
    1 – Se in Italia ci fosse un sisma come quello di Fukushima, l’Italia sarebbe distrutta “da Napoli ad Ancona” (Rai 1).
    La prospettiva di un terremoto “da Napoli ad Ancona” esclude regioni certamente altrettanto attive, come la Sicilia, la Calabria, le Puglie: forse chi fa questa affermazione in Rai ha ancora in mente la vecchia classificazione tellurica, quella che ha permesso a scuole e palazzi di cadere (ma a norma di legge, s’intende) durante gli ultimi terremoti. Comunque, a parte questo, un terremoto delle dimensioni di quello giapponese aggiungerebbe solo macerie ai problemi delle centrali nucleari. Come dire: già che crolla tutto, facciamoci anche gasare …
    In Italia non è comunque necessario attendere un terremoto di magnitudo 9 Richter, basta vedere cosa riusciamo a fare con le poche barre di combustibile nucleare stipate qua e là ad inquinare di stronzio 90 le falde acquifere. Lui, lo stronzio, non è cattivo, è che lo hanno chiamato così … (http://freeforumzone.leonardo.it/lofi/Il-Piemonte-e-la-piscina-radioattiva/D5875056.html)

    2 – I reattori BWR sono obsoleti (http://it.wikipedia.org/wiki/Reattore_nucleare_a_fissione#Reattori_BWR)
    Se sono “obsoleti” perché sono ancora in funzione? Beh, perché nessuno si prende la briga di demolirli, è antieconomico come dimostrano le continue proroghe, e non si sa bene ancora come farlo. Quando si comincerà a chiuderli, avremo anche i primi casi di incidenti legati alla dismissione. Comunque, dopo 50 anni di nucleare a fissione, ancora non esistono certezze per lo stoccaggio delle scorie. In Germania le miniere di sale hanno ceduto e i detriti nucleari rischiano di contaminare le falde. Mi piacerebbe mandare gli stessi dirigenti e ingegneri che avevano firmato i vari documenti autorizzativi a levare i fusti, adesso. I filo-nuclearisti dovrebbero avere l’iniziativa di andare a spalare l’acqua di Fukushima, per aiutare i pochi volontari che restano a lavorare là, come fecero i liquidatori di Chernobyl che con il loro lavoro suicida hanno letteralmente salvato il mondo da una catastrofe ancora peggiore, e ai quali non mi risulta che il popolo italiano abbia ancora dedicato una giornata di lutto nazionale. Chi farebbe un fuoco così grosso da non avere abbastanza acqua per spengerlo? Il top event non ha soluzione, per cui lo si rende incredibile con artifici numerici, quando già per la terza volta siamo saliti a livelli di incidente superiore a 6. Il prof. Rubbia stesso ha avuto da dire sulla metodologia dell’analisi di rischio probabilistica per impianti così critici.
    3. Fukushima è stata costruita male.
    Repetita iuvant: anche qui la risposta si morde la coda con la domanda. Costruita male a norma di legge. Attendiamo il prossimo incidente e la prossima considerazione tecnica “a posteriori”, sperando che resti sempre qualcuno vivo per accertarla. Ci sono molte centrali “obsolete” e “costruite male” pronte a regalarci emozioni, circa 500 in tutto il mondo, la maggior parte delle quali molto vecchie, non pensate né per durare in eterno, né tantomeno per essere demolite in sicurezza. Non siamo poi molto lontano dagli “ingegneri Neanderthal”. Si usa dire che la nostra civiltà non lascerà molte informazioni perché ormai sono tutte virtualizzate: in realtà resteranno le scorie, a testimonianza dell’elevato grado di tecnologia raggiunto dalla scimmia sapiens.
    4. Si deve pensare a “nucleare anche”.
    Al di là delle considerazioni sul risparmio energetico fatto eliminando gli sprechi e sui diversi modi di fare elettricità con altri sistemi che non la fissione, per chi proprio volesse continuare sull’attuale tendenza che “consumo è bello” resta la speranza della fusione a freddo. Rapporto 41: l’Enea era arrivata ad un risultato sperimentale verificato ma il gruppo di lavoro è stato ignorato ed anzi, sostituito quando il Ministero delle attività produttive si era interessato al loro risultato (conosciuto per caso, s’intende). In attesa di verifica, esiste anche l’avventura di Rossi e Focardi, vedremo come va a finire. In questo caso c’è un’evidenza di laboratorio nelle loro conferenze di gennaio e di aprile 2011. Alcuni scienziati si lamentano che non è stato seguito il metodo scientifico classico; però, se fossi il fortunato scopritore di un processo di tal fatta, che interesse avrei a dover rivelare i miei segreti industriali per far contente le riviste scientifiche? In fondo, il mondo della scienza non ha dato un dollaro per questa ricerca, quale correttezza di ritorno si aspetta di ricevere adesso? (Rapporto 41: http://www.youtube.com/watch?v=XMW6rAU2X1Q) (intervista a Focardi http://www.territorioscuola.com/interazioni_2/2011/04/10/0046-100411-sergio-focardi-parla-il-padre-della-fusione-fredda-ni-h/)
    5. I francesi si comprano l’Italia.
    Sono contento per i Francesi, che si stanno adesso accorgendo cosa succederà da loro con le scorie e con le malattie professionali di chi lavora in quegli stabilimenti, costruiti con le risorse anche militari. Preferirei sentirle commentare come mai in Italia le lampadine a Led ad alta luminescenza non siano commercializzate in modo diffuso: si trovano nei negozi dei cinesi a 6 euro e cinquanta, ma non dai grossisti di materiale elettrico; siamo invece pieni di porcheria a fluorescenza. Con il costo del solo progetto di una singola centrale si potrebbe investire sull’illuminazione pubblica e privata, riducendo i consumi del valore dell’energia prodotta dalle ipotetiche centrali nucleari. Solo a Genova il semplice cambio dei semafori consentirà il risparmio di 400.000 euro di bolletta (oltre a inquinare meno). Invece si continua a spacciare per ecologiche le lampade a fluorescenza, alle quali adesso sono state aggiunte palate di elettronica usa e getta nel codolo, oltre alla sostanza molto inquinante del bulbo, al vetro, al peso dei materiali, del trasporto, della lentezza nel raggiungere la luminosità massima, motivo per il quale spesso sono lasciate perennemente accese: bel risparmio, non ho parole. Questa è l’industria, che pilota i mass media per i propri scopi commerciali.
    Riguardo a Parmalat comprata dai francesi, non credo che sia un problema energetico: semmai politico e organizzativo. I minori costi si vadano a cercare nel numero di ore richiesto ad un’azienda italiana per compensare l’inefficienza dello stato, la corruzione dilagante, il comportamento da gangsters delle banche, la truffa degli interessi anatocistici semestrali, i vari trust che impediscono il mercato libero, tra i quali proprio quello di Enel, “l’energia che ti ascolta”. Castorama costa più caro di qualsiasi ferramenta di medie dimensioni, solo che da loro trovi tutto, subito. E’ un problema di dimensioni e di risultati, non solo di concorrenza economica. Io non ci compro volentieri, preferisco scornarmi a sostenere la microimpresa, ma non tutti la pensano come me e li capisco.
    Se poi l’energia viene usata per una globalizzazione infantile delle merci, per cui si assiste a follie di uso di plastica usa e getta che ha raggiunto vertici da belinismo collettivo, questo non importa a nessuno? Proprio a cominciare dalla grande distribuzione che manda la carne già tritata in vaschette di plastica da un chilo in atmosfera modificata per cinquemila chilometri a spasso con i tir, sotto l’occhio indifferente di UE e governi locali. Dobbiamo solo continuare a ragionare ognuno per il suo tassello, chi per il kWh, chi per l’etichetta, chi per il sacchetto, dimenticando la globalità del problema energetico/ambientale? Io non ci sto. Molti non ci stanno più. La soluzione inizia dalla decrescita o crescita consapevole, la chiami come preferisce, non solo dal ridurre i costi economici, e basta.

    Carissimo lettore, la invito con la sua stessa cortesia a provare lei a pensare diverso. L’attendiamo a braccia aperte in un mondo che, almeno, ci prova a levare i monopoli per far sviluppare il vero mercato dell’energia libera, dove ognuno se la fabbrica come crede, inquinando il meno possibile e senza spendere un bel niente in più del necessario. Soprattutto senza il trust di Enel, davvero una porcata colossale ai danni dei cittadini italiani. Vedrà, senza questo trust e con un’informazione non filtrata dai gruppi di potere, che rivoluzione nelle scelte degli italiani. In Germania ci stanno davvero pensando.

    Alla fine di tutto, includo un’immaginaria piantina di un immaginario incidente di un’immaginaria centrale nucleare sita nel centro di un’ipotetica città chiamata Milashima, in emergenza a livello 7 come Fukushima: le auguro di non abitare a Nord di Alessandria. Così, giusto per capire cosa significa creare “desplazados” in un’area di 11 mila chilometri quadrati, alla faccia dei numerini tranquillizzanti degli ingegneri nucleari. Lo dico già da ora: se dovesse succedere io, a Genova, i lumbard non ce li voglio! 🙂
    Vogliamo chiacchierare anche di rifiuti e di telecomunicazioni ?
    (Stefano De Pietro)

  • OLI 298: PAROLE DEGLI OCCHI – La Storia in Piazza, per Vik

    Foto di Giorgio Bergami ©

     Genova, venerdì 15 aprile 2011: nel pomeriggio ci si ritrova in Piazza De Ferrari, sgomenti per l’uccisione di Vittorio Arrigoni.
  • OLI 298: LETTERE – A proposito di nucleare

    Leggendo su Oli “Nucleare-no e basta”, vengono in mente alcune considerazioni di tipo generale.

    La prima considerazione riguarda l’atteggiamento dell’Autore, che oggi in Italia purtroppo sembra comune indipendentemente dai contenuti del pensiero.
    Si ostenta una categorica certezza. Le affermazioni categoriche non caratterizzano i dibattiti per serenità e gli interlocutori per indipendenza di giudizio, ma piuttosto sono tipiche di una partecipazione emotiva simile a quella di una tifoseria calcistica; non favoriscono il confronto fra le opinioni e quindi non consentono di arrivare ad una decisione largamente condivisa; cosa tanto più necessaria quanto le conseguenze (positive o negative) di una decisione sbagliata sono rilevanti per molte future generazioni.
    Quindi l’emotività va lasciata fuori, come pure il vituperato paternalismo.

    La seconda considerazione riguarda il merito.
    E’ necessario stabilire in quale scenario globale si inserisce una proposta; cioè, semplificando, quale futuro ( di breve medio e lungo termine) vogliono i popoli, e in particolare il nostro, e quindi spiegare quali opzioni sono realmente, o solo probabilmente, disponibili.
    Cioè nello specifico e in sintesi:
    se è vero che tutti i popoli industrializzati non vogliono un regresso a condizioni di vita a minore intensità energetica (tutti vogliono lo sviluppo, cioè produrre di più, consumare di più, diventare molto più virtuosi nella spesa pubblica e quindi ridurre gli indebitamenti nazionali);
    se è vero che i combustibili fossili generano insuperabili problemi per “effetto serra” e per instabilità politica (quanti morti hanno causato e possono causare le guerre per il controllo delle fonti?) che sono destinati ad aggravarsi man mano che altri 5 miliardi di esseri umani pretenderanno di consumare come gli europei e man mano che si l’elettrico sostituirà il termico fossile nei trasporti e nella produzione di calore;

    Se è vero che le tecnologie rinnovabili non possono allo stato della relativa tecnologia oggi prevedibile nei prossimi 10 anni garantire la disponibilità necessaria per il ns benessere ;
    quale soluzione ci propone il ns autore?
    Possiamo accettare un regresso civile, sociale ed economico causato da una limitata disponibilità di energia nel ns paese?
    Esperti ambientalisti considerano il nucleare un passaggio obbligato nei prox 10 anni per mantenere gli standard attuali in attesa di una tecnologia dolce o rinnovabile. Si veda ad esempio Nature n 471, published on line 23 March 2011 by Charles Ferguson dal titolo “Do not phase out nuclear power — yet”; sottotitolo “Fission power must remain a crucial part of the energy mix until renewable energy technologies can be scaled up”.

    La terza considerazione riguarda il metodo
    Si considera il nucleare e la radioattività come una tecnologia cattiva, quantomeno trascurando il contributo alla diagnostica e alla terapia
    Le tecnologie di per sé , non sono né buone né cattive; possono essere invece utili (buoni) o dannosi (cattivi) gli usi che se ne fanno. Ma credo non ci sia tecnologia, anche la peggiore poi abbandonata, che non abbia avuto un riflesso generalmente positivo sul percorso umano; ovvero lo sviluppo di quella tecnologia ci ha stimolato e quindi in ultima analisi ci ha permesso di impadronirci di tecniche, di padroneggiare nuovi processi di fabbricazione, nuovi materiali, nuovi modelli produttivi e di organizzazione e di controllo e quindi ci ha preparato alla tecnologia successiva.
    Il nucleare è una tecnologia che può e deve essere gestita da una “società” evoluta soprattutto in termini di organizzazione e di controllo democratico dei processi produttivi e per questo può rappresentare una occasione per pretendere che la ns società cresca, così che impari a dar migliori garanzie verso il crollare delle scuole o delle case per i ns terremoti, verso le esondazioni di fiumi o invasi idroelettrici o verso lo smottamento delle colline sotto le annuali precipitazioni, etc.

    La quarta considerazione riguarda i costi.
    E’ vero che fukushima avrà un costo esorbitante: ma il documento del governo francese, di cui un estratto è qui allegato, dovrebbe almeno essere analizzato, criticato e poi, semmai, rifiutato.
    Rimane la “decrescita felice” cui giustamente noi occcidentali dovremmo aspirare. Resta un interrogativo: quanti di noi siamo disponibli ad essa , ma soprattutto quanti Paesi in via di sviluppo sarebbero concordi ad accettare tale filosofia?


    (Maurizio Montecucco)

  • OLI 298: AVVISO

    A rileggerci il 3 Maggio!