Autore: Redazione

  • OLI 290: MIGRANTI – Quanto (ci) costa il reato di clandestinità

    Gli sbarchi di giovani in fuga dal Nord Africa in fiamme si susseguono giorno dopo giorno, sulle isole italiane che punteggiano il tratto di mare tra Maghreb e Italia.
    Una testata locale, News dall’Isola di Pantelleria, in data 15 febbraio racconta un caso tra i tanti che si verificano quotidianamente. Come noto il reato di clandestinità prevede che chi sia entrato illegalmente in Italia sia immediatamente processato presso il giudice di competenza per il territorio in cui è avvenuto lo sbarco. Il 25 gennaio su un barcone proveniente dalla Tunisia sono arrivati a Pantelleria 6 giovani, tra cui un minorenne. Quattro tra questi sono stati immediatamente trasportati al Cie (Centro di identificazione ed espulsione) Corelli di Milano. Qualche giorno dopo sono stati accompagnati da cinque agenti su un volo li che li ha ricondotti a Pantelleria, per affrontare il processo per il reato di clandestinità. Nel pomeriggio sono stati ricondotti a Milano, accompagnati dalla scorta, dopo essere stati condannati al pagamento di cinquemila euro e delle spese processuali, come previsto dal decreto Maroni. Condanna severa e pesante dal punto di vista economico ma che, probabilmente, non sarà mai pagata.
    E’ prevedibile che la trafila (trasferimento aereo verso un Cie, ritrasferimento all’isola di arrivo e ritorno al Cie – con l’accompagnamento di un numero congruo di forze dell’ordine) si debba ripetere per tutti coloro che sono arrivati in Italia nelle ultime settimane (200 a Pantelleria, 5mila a Lampedusa). Con una spesa enorme per lo Stato, in termini di denaro e di risorse umane e, soprattutto, senza alcun ritorno di utilità sociale. La legge, che fu di grande impatto demagogico al momento della sua introduzione, diede lustro al pugno di ferro del ministro dell’Interno. Ma, all’atto pratico della sua applicazione, si rivela – come previsto – costosissima, inadeguata e vagamente surreale. Come affrontare uno tsunami con un cucchiaino. D’argento.
    (Eleana Marullo)
  • Oli 290: MIGRANTI – Nato in Italia, genitori stranieri, 18 anni? Attenzione …

    Foto Paola Pierantoni

    Tutti concordano (ancora a parole) che la legge sulla cittadinanza (91/92) è da riformare. Nata in piena crisi della prima repubblica non poteva che essere la più arretrata d’Europa. La legge richiede dieci anni di residenza quando negli altri paesi europei bastano cinque anni di semplice soggiorno regolare. L’aspetto più arretrato però è che si segue il diritto di sangue: soltanto chi è figlio di italiani ha diritto alla cittadinanza per nascita.

    La cosa scioccante è che fino al 1983 si seguiva il diritto di sangue maschile, ovvero solo i figli dei maschi italiani avevano il diritto alla cittadinanza per nascita. Soltanto con la riforma del 1983, i figli delle donne italiane nati da matrimoni con cittadini stranieri hanno avuto il diritto alla cittadinanza per nascita e non dovevano più fare le code davanti alle questure per il rilascio ed il rinnovo del permesso di soggiorno. Nazionalismo, autoritarismo, razzismo e maschilismo convivono felicemente e si alimentano a vicenda. Ancora più scioccante è che fino al 1975 le donne italiane che si sposavano con cittadini stranieri perdevano la cittadinanza italiana. Ci è voluta una sentenza della Corte Costituzionale (87/75) per dichiarare illegittima la norma, risalente alla legge del 1912, che prevedeva la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna.

    Dunque, oggi, i figli degli immigrati nati in Italia non hanno diritto alla cittadinanza per nascita come accade in tutti i paesi europei e in tutte le moderne democrazie del mondo. Soltanto al compimento della maggiore età, la legge in vigore prevede per loro un percorso facilitato per ottenere la cittadinanza a patto che presentino domanda entro un anno. Una finestra aperta per soli 12 mesi, compiuti i 19 anni senza aver fatto domanda, questo opportunità sfuma e si rientra nel calvario burocratico al quale sono costretti i richiedenti la cittadinanza, un odissea interminabile piena di ostacoli e varie stregonerie.

    Per questo l’assessore al welfare della regione Toscana, e contemporaneamente anche il sindaco di Reggio Emilia, hanno avviato una campagna informativa: i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, che abitano in Toscana e Reggio Emilia, e che stanno per compiere 18 anni, riceveranno una lettera che ricorderà loro la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana attraverso un percorso semplice e veloce. Col pensiero che va a chi arriva in Italia da bambino per cui i dodici mesi non esistono ed attendendo tempi e leggi migliori per questo nostro disgraziato/meraviglioso paese, proponiamo questa ottima iniziativa all’assessore regionale all’immigrazione Enrico Vesco ed alla nostra sindaco Marta Vincenzi.
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 290: REGIONE – Casa dolce casa

    Valletta di Rio Penego, uliveti che spariranno. Foto Stefano Stefanacci.

    Pare al via il Piano Casa finalmente, finisce un tormentone e si è trovata pace in maggioranza. O magari più semplicemente si vuole evitare di approvarlo con pericolose intese trasversali, con i voti dell’opposizione freschi e pronti. Però ci si sta lavorando. Il Giornale del 22 febbraio annuncia il “possibile accordo tra i poli”, e a Savona ha organizzato un convegno tra il chiacchierato ex sindaco di Alassio – inquisito più volte per reati amministrativi (vedi blog di Marco Preve), ora consigliere regionale Pdl – il capogruppo Pd in Regione, amministratori locali, come il senatore Pdl Franco Orsi e addetti ai lavori: tra i relatori Marylin Fusco, assessore all’urbanistica Idv.
    Tanti insoddisfatti, pigolamenti a raffica da tutte le categorie del settore e “Ira dell’assessore per i mesi di lavoro buttati al vento”, come titolava giorni fa il maggiore quotidiano cittadino.
    Commenti positivi da sinistra. Resta da capire come “una coalizione della legalità” possa permettere ampliamenti sugli abusi, per minimali che siano, tipo “modello Puglia”. E allora?
    Di sicuro il cittadino rispettoso delle regole si attrezzerà per il futuro.
    Forse i cittadini avrebbero gradito sentire dagli operatori una proposta di piccola edilizia diffusa, di interventi per ripristinare davvero un territorio disastrato: opere subito cantierabili e non soltanto box o nuove case.
    Argomento serio, che il vincolo di quota social housing non appaga. Con le grottesche storie di Affittopoli nazionali e i lasciti per i poveri, che lasciano l’amaro in bocca e repulsione per caste varie, dai vip ai politici, ai raccomandati d’ogni tipo, quando c’è gente che non mangia pur di avere un tetto.
    Forse rivoluzione sarebbe anticipare un cambio di mentalità e di metodo per dare ossigeno ad un settore in difficoltà, per sperare che la politica si occupi di lavoro, di futuro, dei luoghi che abitiamo o della casa che non c’è, specialmente per chi è solo e per giovani coppie.
    Intanto in città la Linea Verde di Urban Lab ha il singhiozzo per far spazio a nuove palazzine di cooperative “bianche e rosse” al posto di un bosco, con la scusa di una nuova e costosa strada come in via Shelley. Imperversa pure il Piano-manutenzioni e per dimostrare efficienza e amore al Progetto Genova il rimedio trovato è un valzer di assessori, pescando in rive opposte, come se proclamando autonomia, tutto il resto non contasse, con rispetto dell’esperienza del prescelto e senza il rispetto di chi ha votato una parte e non l’altra. Tanti esperti nel fare il salto della quaglia, con il rodimento comune delle elezioni amministrative che incalzano.
    E’ partita anche la crociata degli albergatori, stufi d’essere vincolati, che reclamano il diritto a trasformare gli hotel in case: ma è appena finito Sanremo, non ci si lamentava di così poche strutture ricettive per questo povero turismo bistrattato e che potrebbe dare tanto? Tranquilli, si sta studiando una legge ad hoc, come per le aree produttive, l’unico tema, che forse davvero interessava ai cittadini, gli ampliamenti industriali., che vincolati in modo serio, avrebbero costituito magari uno sviluppo importante. Cassati. Probabilmente con il Piano Casa poco pertinenti, ma Regione e Comuni non sono sempre a proclamare d’ essere all’eterna ricerca di spazi per le aziende?
    Forse il lavoro non c’è più, inutile rincorrere gli spazi.
    L’impressione purtroppo è che in Liguria bastino colf, badanti, e baristi e voi ragazze e ragazzi adeguatevi: questa pare l’idea di lavoro che passa il convento.
    (Bianca Vergati)

  • OLI 290: SOCIETA’ – Quando l’opposizione telefonica è azzoppata

    La Homepage del sito

    Il Governo ha appena lanciato il Registro delle opposizioni (http://www.registrodelleopposizioni.it/). Si tratta di uno strumento per evitare di farsi chiamare dalle aziende di marketing, previsto da un recente decreto, che inserisce anche l’obbligo da parte dei call center di farsi riconoscere all’atto della chiamata con il numero di telefono in chiaro. Analizziamo il suo funzionamento.
    Gli operatori che intendono avvalersi della telefonia (fissa) per fare marketing, dal 1° di febbraio 2011 devono prima far filtrare le proprie liste al Registro delle opposizioni, con cadenza quindicinale. L’operazione ha un costo, che varia da pochi euro fino a centinaia di migliaia, a seconda del numero di contatti da controllare: il listino ne prevede fino a 25 milioni, mezza Italia.
    Al registro, lato abbonato, possono iscriversi solamente gli aventi diritto, che poi sono le persone e le aziende che sono presenti in elenchi telefonici pubblici. Esclusi quindi i cellulari (sic) e chi fino ad ora ha cercato di difendersi dal martellamento mediatico richiedendo un numero riservato, che non ha diritto di registrazione: il legislatore ritiene che per questa tutela basti la legge sulla privacy, la quale in teoria dovrebbe impedire di chiamare gli utenti non in elenco. Si tratta quest’ultima di una limitazione non da poco, vista l’amara realtà della situazione reale. Inoltre il decreto non copre l’opposizione per chi avesse dato il consenso su un modulo o un contratto, con una ics apposta senza pensare. Completamente introvabile l’articolo sulle multe per chi violasse il sistema.
    Porto l’esempio di un abbonato che ha ricevuto il numero di telefono che precedentemente era assegnato ad un’azienda. Per un errore sugli elenchi, il malcapitato riceve chiamate destinate all’azienda, e a nulla serve cercare di far desistere gli operatori. Avendo richiesto un numero riservato, non può accedere al Registro, quindi di fatto l’unica soluzione resta la vecchia classica segreteria telefonica casalinga, per filtrare le chiamate.
    Non si capisce poi “che c’azzecchi” la riservatezza del numero con il disturbo marketing: infatti per potersi difendere da una parte si deve rinunciare dall’altra ad essere introvabile su un elenco, cosa sicuramente molto utile in questo mondo di matti. Poi la cadenza quindicinale permette in realtà di “fare i furbi” in mezzo ai due periodi, annullando di fatto l’effetto del decreto. Sarà che il Registro sia stato fatto per funzionare proprio così, ossia male?

    Il call center del Registro, interpellato col form del sito, risponde la prima volta con una email istituzionale (con gli articoli di legge e la descrizione di una situazione bucolica dove non esistono gli errori e i furbi), e una seconda per telefono, dove una gentilissima operatrice mi suggerisce di “scrivere” alle aziende, di “pregare” il call center di cancellarmi, di “sperare” e, insomma, alla fine, si arrende e mi spiega che la normativa è spuntata, che il Registro non è stato fatto come era logico fosse, ma ha seguito logiche legate alle necessità degli operatori telefonici. “E i riservati? Perché escluderli?”, affermo, “Guardi, hanno fatto tutto nei palazzi della politica e ci siamo ritrovati un decreto che serve a poco”. La soluzione tecnologica, ultimo modello, come detto, è una segreteria telefonica, con il messaggio di farsi riconoscere per gli amici e un invito a cancellare il numero negli altri casi.
    Una soluzione razionale sarebbe quella di usare la stessa tecnica delle chiamate internazionali con il numero verde. Si chiama un numero senza addebito, aggiungendo in coda il numero di telefono del paese straniero, in questo modo si usa la rete fissa per fare chiamate internazionali a basso costo e con compagnie telefoniche diverse da quelle che gestiscono la tesserina prepagata. Un sistema simile avrebbe funzionato molto bene anche per le Opposizioni. Il Registro, diventato una centrale telefonica di smistamento, avrebbe verificato dal numero di telefono la possibilità della chiamata, respingendola se necessario. Gli operatori avrebbero pagato “per chiamata”, senza bisogno di anticipare somme per far depurare le loro liste, e soprattutto con effetto immediato per l’abbonato che si registra. Sogno un software che consenta all’abbonato di filtrare diversamente a seconda della merceologia, perché adesso, ovviamente, il sistema è on/off (o chiama chiunque o non chiama nessuno).
    “Ma noi, qui in Italia, facciamo cosà”, direbbe un moderno Pericle romano. 

    Per concludere in bellezza, l’email fornita da Telecom sul sito del Registro per comunicare con loro al riguardo è riservata ai loro clienti registrati: dare per avere
    (Stefano De Pietro)

  • OLI 290: PAROLE DEGLI OCCHI – Non toccate il cantiere di Riva

    Lotta e solidarietà per il futuro dei Cantieri di Riva Trigoso.
    Foto Giorgio Bergami.

  • OLI 289: VERSANTE LIGURE – SE NON ORA, QUANDO?

    Vieppiù si vilipende
    con virulenza rara
    la dignità sua offende
    nell’autoflop fa gara:
    da sé chi lo difende?
    Noi, in piazza, per Ferrara!

    Versi di ENZO COSTA
    Vignetta di AGLAJA
  • OLI 289: DAL MONDO – I flussi migratori ai tempi della caduta dei tiranni

    “Lampedusa al collasso”, “Sbarchi, scontro Ue-Italia. Maroni: arriveranno in 80 mila” sono i titoli di prima pagina de La Stampa e Repubblica di oggi. Gli sbarchi di oggi sono chiaramente legati alla caduta del regime di Ben Ali ed alla nuova situazione in Tunisia. Ma provando a ragionare con uno sguardo al domani posso dire con certezza che la caduta dei regimi dittatoriali in Tunisia ed in Egitto porterà presto a diminuire i flussi migratori verso l’Italia e l’Europa dei cittadini di questi due paesi.
    I giovani che si sono ribellati e hanno fatto cadere Mubarak e Ben Ali parlano di una situazione di brutale repressione, annullamento della libertà e forte umiliazione della dignità delle persone. Parlano di un sistema economico dove è dilagante la corruzione e dove le risorse del paese sono rubate dalle famiglie dei dittatori e dagli esponenti dei due regimi. Un sistema che rendeva sempre più povera la grande maggioranza dei cittadini. Due fattori che spingevano fortemente i giovani tunisini ed egiziani ad emigrare e fuggire dalla repressione e dalla povertà. D’altra parte, dopo la caduta di Mubarak, ho seguito su Al Jazeera i festeggiamenti che le comunità egiziane immigrate hanno svolto in tutto il mondo ed ho sentito molte persone piene di speranza che pensano ed invitano al ritorno nel loro paese d’origine ora che c’è la libertà e la necessità di ricostruire il paese.
    Per una politica seria dei flussi migratori è meglio, per l’Italia e l’Europa, appoggiare i processi di cambiamento in questi paesi aiutando l’instaurazione della democrazia e la diffusione delle libertà, condizioni necessarie per lo sviluppo economico. Appoggiare le dittature, oltre ad essere eticamente inaccettabile per chi si proclama paese democratico e civile, porta ad aumentare i flussi migratori verso l’Europa.
    I democratici negli Stati Uniti ed il loro presidente Obama hanno cambiato radicalmente la politica del loro paese: contro la guerra (di Bush in Iraq), un nuovo atteggiamento rispettoso dell’Islam e dei musulmani e la fine dell’appoggio ai dittatori. Questa nuova politica è stata fortemente confermata dalle posizioni dell’amministrazione Usa durante le crisi tunisina ed egiziana e dal grande discorso di Obama, dopo la caduta di Mubarak, nel quale ha elogiato la grande rivoluzione non violenta degli egiziani da lui indicata come esempio per i popoli che lottano per la libertà e la democrazia. L’Europa, da sempre molto sensibile a quanto proviene dagli Stati Uniti, purtroppo questa volta sembra recepire molto lentamente le novità democratiche e pacifiche di Obama. L’Italia, costretta ad occuparsi sempre più delle cose che riguardano una sola persona, fatica a capire quanto succede a Lampedusa e litiga con il nuovo governo tunisino e persino con l’Unione Europea, figuriamoci che fatica a capire quanto sta accadendo nel mondo.
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 289: DAL MONDO – Le ragioni della rabbia di Manama

    Foto di Eleana Marullo

    Manama, la capitale del piccolo regno del Bahrain, il giorno prima della rabbia è tranquilla e luminosa, il clima è mite e solo il vento, come è naturale per un’isola, interrompe l’uniformità del paesaggio animando le palme, lungo i viali, e le eliche del grande grattacielo Moda Mall.
    Le strade a decine di corsie si snodano, con il loro carico di suv mastodontici in coda; non un pedone né un attraversamento in vista – ad andare a piedi, soltanto i turisti europei e le manovalanze straniere. D’altronde, lo spazio piano rende facile la circolazione, il prezzo della benzina è irrisorio e camminare a piedi nei mesi caldi è una tortura insopportabile.

    Foto di Eleana Marullo

    In mezzo ai cantieri stradali, a metà delle enormi carreggiate, operai lavorano sotto il sole (che a febbraio è mite ma da maggio in poi arroventa l’aria e l’asfalto); a proteggerli dal calore e dal vento, solo il ghutra – copricapo tradizionale dei paesi del Golfo – avvolto intorno al collo e alla bocca, anche per proteggersi da polvere e sabbia. La maggior parte di loro proviene dal subcontinente indiano: nessun locale svolge lavori di fatica. Le condizioni di sicurezza non esistono: le auto sfrecciano vicinissime, accanto ad esigui paletti, e le cronache dei giornali riportano quotidianamente notizie di investimenti.
    In un altro mondo, che non si intreccia per nulla con l’universo invisibile e sfruttato della manovalanza straniera, vive la popolazione bahreinita, quella che ha dato vita alle proteste contro la monarchia che il 14 febbraio hanno infiammato la capitale ed i villaggi, causando due vittime. Se la condizione economica dei locali non è drammatica come nel Maghreb, i motivi dello scontento sono altri: la famiglia reale, sunnita, governa un paese a maggioranza sciita che lamenta, da lungo tempo, di essere vittima di discriminazioni. Inoltre, se il parlamento è eletto, l’esecutivo del governo è nominato dalla famiglia reale: il primo ministro è in carica da una trentina d’anni ed è il bersaglio privilegiato del malcontento popolare.
    Il governo pochi giorni prima dell’annunciata manifestazione aveva promesso un’elargizione di mille BD (circa duemila euro) per ogni famiglia bahrainita, cercando di conquistare consenso e di porre un argine alle proteste. Evidentemente la mossa non è stata sufficiente e gli scontri che – al momento in cui si scrive – sono ancora in atto, stanno innervosendo la vicina Arabia Saudita, principale esportatore di petrolio nel mondo. Il paese è unito al Bahrain da un ponte di una ventina di chilometri, il King Fahd Causeway, tanto che parecchi lavoratori (tra cui una cospicua comunità di italiani) fanno i pendolari attraversando il confine. Per questa vicinanza l’Arabia Saudita teme ed ha deciso l’invio di truppe militari nel paese vicino. La calma apparente dei floridi paesi del Golfo Persico è forse più fragile di quanto previsto.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 289 – STEFANO CUCCHI – Se la destinazione fosse stata Bollate

    Foto di Alisia Poggio

    Se nel 2009 Stefano Cucchi fosse stato arrestato a Milano e la sua destinazione fosse stata Bollate, chissà, magari le porte del carcere non si sarebbero mai aperte per lui. Oppure, anche se per errore ciò fosse avvenuto, un pigiama pulito l’avrebbe subito raggiunto a placare l’apprensione della famiglia, rassicurata che fosse vivo e protetto dalle istituzioni da una possibile ricaduta nella tossicodipendenza e a ribadirgli che non era solo. Dopo poco sarebbe uscito nuovamente alla luce del sole, non l’avrebbe vista flebilmente filtrare da un lenzuolo, come i bambini quando si nascondono sotto coperta trattenendo il respiro, e affievolirsi pian piano sotto il peso del suo corpo martoriato.
    Non sussistevano motivazioni per trattenerlo a Regina Coeli, non era senza fissa dimora, peraltro debole motivazione, la sua casa era stata perquisita poco prima dell’arresto, i genitori e la sorella erano comunque altri punti di riferimento disponibili, ma non interpellati. Non era albanese, come era stato registrato all’arresto. E anche se lo fosse stato? Altra debole motivazione. Anche se in carcere ormai si è ospitati perché senza casa, immigrati senza documenti, tossicodipendenti e così via, con scarsità di rappresentanti legali.
    Invece venerdì 4 febbraio 2011 a Genova, abbiamo assistito ad ad un’altra storia, ciò che avvenne, dalle parole della sorella Ilaria Cucchi, testimone infinita, quanto il dolore che prova nel non aver compreso i richiami d’aiuto del fratello, nel sentire, non veritiero, di averlo abbandonato al suo destino.

    Foto di Alisia Poggio

    In realtà la scelta di celare ciò che stava accadendo dietro una tenda di omertà era stata presa da altri, gratuitamente. Le orecchie tappate alla voce sempre più debole per rispondere ad un interrogatorio, lo sguardo voltato perché nulla stava accadendo, se non una scarica di violenza ingiustificata, l’assistenza medica negata perché non ce n’era motivo essendo lievi le lesioni per cui Stefano Cucchi giunse all’Ospedale Pertini, la testimonianza tardiva di un volontario, involontariamente sbalordito testimone che non riesce a comunicare l’accaduto prontamente. Tutto questo perché non basta a fermare Ilaria, che chiede qualcosa di più profondo del “che giustizia sia fatta”, ma il riconoscimento della verità, il recupero di una dignità sottratta, perché lei e la sua famiglia credono ancora nelle possibilità delle istituzioni di rappresentare e difendere. Prova ne sono i mille foglietti colorati con i quali Sandra Bettio, della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia, ha costellato la sua copia del libro di Ilaria dove veniva ribadita la fiducia nelle istituzioni. La famiglia Cucchi, come Heidi Giuliani, lì presente in sala, come la madre di Federico Aldovrandi vogliono essere attivi nella possibilità di avere istituzioni diverse che tutelino i cittadini e togliere il velo dagli occhi di chi ancora crede che la giustizia faccia il suo corso. Sarebbe meglio dire decorso, pensando ai quotidiani suicidi nelle carceri italiane, ormai un contatore senza nomi.

    (Maria Alisia Poggio)