S’è già detto e scritto abbastanza sull’infelicissima idea di proporre insieme, nella prossima edizione del Festival di Sanremo, il canto partigiano Bella ciao e l’inno fascista Giovinezza, avanzata dal direttore artistico Gianmarco Mazzi insieme al conduttore Gianni Morandi per la serata dedicata al 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, suscitando perplessità a destra e soprattutto ferma indignazione a sinistra, per questo ennesimo tentativo di equiparare Fascismo e Resistenza mescolandoli in un calderone buonista in cui tutto si confonde, si banalizza e perde quel senso che è bene rimanga vivo e presente.
Il Consiglio d’amministrazione della Rai, a fronte della polemica, ha tagliato la testa al toro stigmatizzando tale scelta e revocandola (peraltro in modo assai pilatesco, senza distinguo tra i due brani).
Se non si avrà modo di ascoltare Giovinezza a Sanremo – e non se ne sentirà certo la mancanza – val comunque la pena di dedicare un po’ di tempo a questa composizione nata come canto goliardico nel 1909, poi fatta propria dagli Alpini e quindi dagli Arditi nella Grande Guerra, per approdare infine al Ventennio di cui divenne il tema più popolare e rappresentativo, approvato ufficialmente come “Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista”.
Per limitarsi a quanto offre la rete, una voce di Wikipedia ne traccia la storia, seguendone le vicende e i progressivi adattamenti del testo, in cui si rispecchia l’evoluzione sociale che condusse al regime fascista.
Spostandosi su Youtube, è inquietante scoprire quanti siano i video confezionati per supportarne diverse esecuzioni, con montaggi di immagini fisse, filmati e anche varie versioni col solo testo, per impararne le parole grondanti retorica e poterle cantare tutti insieme in un bel karaoke del littorio.
Particolarmente agghiacciante è una sequenza di spezzoni di cinegiornali Luce in cui le esercitazioni e le parate di balilla e avanguardisti, di piccole e giovani italiane hanno Giovinezza come colonna sonora, in una ben ordinata e fiera Italia inconsapevolmente proiettata verso la catastrofe. Ancor più raccapriccianti sono qua e là i commenti di coloro che rimpiangono quell’Italia e la vorrebbero ancora.
Se Arturo Toscanini si rifiutava di dirigerla, sostenendo che le sue orchestre non si abbassavano a suonare il vaudeville e ricevendo per questo gli schiaffi delle camicie nere (Teatro Comunale di Bologna, 14 maggio 1931), fino a dover lasciare l’Italia per l’America, un’altra gloria nazionale non si faceva invece scrupoli a cantarla: Beniamino Gigli la interpretò con enfasi, accompagnato da orchestra e coro.
Tra gli elaborati che lo utilizzano, è sconcertante l’instant-video appena ideato il 4 novembre scorso da tale Carlo, per celebrare “uno degli inni del periodo fascista, censurato dalla Rai”. Vi si susseguono immagini d’ogni tipo, evidentemente per esemplificare e magnificare la giovinezza, la primavera di bellezza, il popolo d’eroi e la patria immortale, mescolando foto d’epoca e d’attualità, comprese procaci fanciulle semisvestite oltre i limiti della pornografia (del resto, non è forse “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay”?), in un grottesco guazzabuglio di cui si fatica a seguire il senso ma in cui è chiarissima la cultura che ne è alla base.
Sarà anche una canzone che ha 100 anni, ma non ha certo perso la sua carica e il suo appeal in una buona fetta di italiani. Sarà opportuno che tutti gli altri continuino (o riprendano) a non abbassare la guardia.
“Il crollo di Pompei è una vergogna per l’Italia”, così il Presidente della Repubblica . Un dispiacere immenso per coloro che ancora credono nel valore dell’arte, della cultura, del patrimonio del nostro Paese e che stiamo dissipando inesorabilmente. Quanti turisti hanno calpestato quei ciottoli, quelle stradine, immergendosi nella Storia, arrivando da ogni parte per vedere quei resti che parlano non soltanto di noi e di quello che siamo stati, ma che parlano al cuore di tutti gli uomini e del loro cammino. Da anni si lamenta la fragilità delle nostre vestigia. Per colmo si è in talune circostanze pensato che il territorio che aveva la fortuna di esserne il sito potesse custodirli meglio: ecco nato l’Ente dell’autonomia di Napoli e Pompei ed ecco i risultati. Ora si parla di mancanza di risorse, pure il Ministro pigola di zero fondi per la cultura, benchè si fosse provveduto ad ingaggiare addirittura un grande manager per riorganizzare i Beni culturali. E se il giovane sindaco che ribadiva tempo fa “gli Uffizi sono in primo luogo di Firenze” poteva avere le sue ragioni, visto che il ministero ne rivendicava la gestione, non si può negare una questione fondamentale: gli Uffizi, come Pompei sono un bene di tutti. Quindi tutela e controlli ad oltranza e non solo di competenza locale. La Commissione Rodotà provò fra il 2007 e il 2008 a mettere ordine sulla legislazione dei beni pubblici, dispersa in mille rivoli di leggi, leggine e classificazioni formalistiche. Come? Usando la Costituzione, “Poiché il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa” (dal saggio“ Beni pubblici : dal governo democratico dell’economia alla riforma del Codice Civile”a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio, Stefano Rodotà). Vi sono perciò “beni comuni” che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata per metterne al centro la fruizione collettiva. Beni ad appartenenza pubblica necessaria, che appartengono alla stessa essenza di uno Stato Sovrano: tutti fanno sempre parte del patrimonio per così dire “liquido” di tutti noi. Tutti i cittadini italiani sono titolari di beni pubblici, quasi un portafoglio collettivo di proprietà lo si potrebbe definire. In luogo di questa concezione, che rispetta Costituzione e interessi collettivi, si è intanto varato iI federalismo demaniale, cioè lo Stato cede agli Enti locali quasi ventimila unità del proprio demanio per un valore “nominale” di tre miliardi di euro: forti, caserme, isole e catene montuose come le Dolomiti, patrimonio Unesco. Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente vendibile. Un’altra porzione resterà al Demanio locale, inalienabile soltanto sulla carta, ma la legge ne prevede comunque una forma strisciante di privatizzazione. E già ne abbiamo un classico esempio con la gestione delle spiagge. “Alienarli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale”, cita la legge, cioè non di tutti gli italiani, nel cui portafoglio collettivo i beni erano prima della legge Calderoli. All’interesse collettivo si è opposto un progetto, che borseggia il portafoglio della cittadinanza tutta e lo ridistribuisce ai governi locali come un salvadanaio di terracotta da fare a pezzi. E visto lo stato disastroso delle finanze locali ciò significherà svendere: meglio che lasciarli andare in malora si dirà. Ma se la gestione autonoma significa lo scempio della Valle dei Templi o Pompei auguriamoci che non si proponga un federalismo dei beni culturali. (Bianca Vergati)
Nello scorso settembre sono state emesse tre sentenze di vari livelli di giudizio che hanno tutelato i cittadini immigrati dalla discriminazione di una pubblica amministrazione inefficiente e “poco amica” degli immigrati:
1) Il Consiglio di Stato, con sentenza del 29 settembre 2010, ha dato ragione ad un cittadino straniero al quale la questura di Bologna aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno solo perché il suo reddito non era sufficiente. Per il Consiglio di Stato, invece, occorre che in sede di revoca o rifiuto del permesso di soggiorno sia rispettata la Convenzione europea dei diritti del uomo (del 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848) e si tenga conto della situazione familiare dello straniero. Lo straniero in questione è “coniugato in Italia e con figli minori – uno dei quali nato in Italia – frequenta le scuole italiane”.
2) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, con sentenza del 21 settembre 2010, ha dato ragione ad una cittadina dello Sri Lanka alla quale il Comune di Milano aveva revocato il sussidio integrativo al minimo vitale in quanto non titolare del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (ex carta di soggiorno), ma in possesso del solo permesso di soggiorno con validità biennale. Il TAR della Lombardia invece ha fondato la sua decisione sulla sentenza 187/2010 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale la norma che esclude gli immigrati regolarmente soggiornanti privi del permesso CE dal diritto all’assegno di invalidità.
3) La Corte di Cassazione, con sentenza 19893 del 20 settembre 2010, ha dato ragione ad una cittadina ecuadoriana alla quale la Questura di Genova aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno in quanto nel 2006 si era separata dal cittadino genovese con il quale si era sposata nel 1999. Per la Cassazione, invece occorreva applicare il decreto legislativo n. 30 del 2007, di attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa ai diritti dei cittadini dell’Unione Europea e dei loro familiari, in base al quale la cittadina ecuadoriana ha il diritto al rinnovo del permesso di soggiorno in quanto il suo matrimonio aveva avuto una durata superiore a tre anni.
Tre sentenze che dimostrano l’arretramento e la chiusura della politica italiana nel governo dell’immigrazione, dove, per trovare basi giuridiche positive che aiutino l’integrazione degli immigrati ed il rispetto dei loro diritti, occorre ritornare alla Carta Costituzionale del 1948 o rivolgersi all’Europa, alle sue direttive e convenzioni. Le tre sentenze dimostrano inoltre che non c’è cosa più falsa di quella che propagandano partiti e giornali xenofobi a proposito di legalità ed immigrazione. La legalità ed il rispetto della legge è un interesse concreto degli immigrati i quali si rivolgono volentieri ai giudici che spesso ristabiliscono la legalità dando loro ragione. La verità è che Costituzione, Unione Europea, legalità, leggi, regole e giudici danno fastidio ai più forti, ai più ricchi ed ai razzisti. (Saleh Zaghloul)
L’interrogativo è sempre quello, è nato prima l’uovo o la gallina, aggiungiamoci la disconnessione quotidiana tra realtà e mezzi di comunicazione, tra società e politica, tra politici di diversi schieramenti e addirittura tra quelli dello stesso. Più che disorientato, un essere pensante in Italia è sconcertato. Non si tratta di un’intima scissione, di un caso di schizofrenia individuale, ma di un episodio diffuso a livello di “polis”. Basta una giornata, il 14 ottobre 2010, per comprenderlo. Due episodi diversi, ma con protagonisti che parlano la stessa lingua. Roma, Sala Stampa Estera 18.30, presentazione del libro La sfida. Oltre il PD per tornare a vincere. Anche al Nord di Sergio Chiamparino, sindaco di Torino, con la partecipazione di Walter Veltroni e l’amichevole inaspettata presenza di Marco Follini, invitato a sedersi al tavolo dei relatori, fiammeggiante di flash quanto i fuochi di San Giovanni. L’apprezzabile e curioso beau geste a seguito del forfait del curatore del libro. Chiamparino è di poche parole, semplici, parte dall’ultima sconfitta del proprio partito, quella delle regionali piemontesi, e pone l’interrogativo se il PD sia ancora in grado di comunicare con la gente, quale la sua capillarità sul territorio e nei luoghi dove dovrebbe farsi politica. Il titolo del libro, forse un auspicio, richiama la sua ultima campagna elettorale, segnata dallo slogan “Torino con la FIAT, oltre la FIAT”, ci sia augura non sulla linea delle recenti esternazioni di Marchionne a “ Che tempo che fa?”, ma fondandosi su due elementi basilari, eguaglianza ed innovazione. È il turno di Walter Veltroni, prende la parola con la forte carica umana che lo contraddistingue da sempre, e dopo gli apprezzamenti amicali, un ricordo delle primarie che si svolsero proprio il 14 ottobre 2007 come grande gesto di democrazia partecipata, evidenzia l’ostacolo che a suo avviso il PD deve saltare a piè pari per poter essere realmente credibile: abbandonare la staticità conservativa, la difesa del presente, che non ha altro effetto che tarpar le ali alle tensioni al cambiamento. Difficile da attuare con una controparte che non assomiglia ad una destra illuminata, come quelle, sebbene col pugno duro, degli anni Ottanta dalla Thatcher a Reagan, ma che piuttosto suggestiona con paure che mantengono lo status quo, favorendo un localismo esattamente opposto alle manifestazioni di autonomia locale che la società civile è in grado di esprimere, come ha provato da dieci anni a questa parte. Ma chi altro ha tentato di ridurre nei ranghi la società civile? Per riguadagnare il terreno perso bisogna rischiare, dice Veltroni, avere il coraggio di utilizzare parole reali, riconoscere nel precario la figura centrale della nostra società, riconoscere pienamente l’immigrato come cittadino. A sentire queste due affermazioni si ha come un capogiro. Da quanto tempo ormai l’immigrato dovrebbe essere considerato un cittadino? Chi ha dato il via a forme contrattuali che hanno favorito il precariato e l’esternalizzazione? Difficile che questi fenomeni si siano autogenerati o siano frutto unicamente di una destra individualista e localistica, la spalla qualcuno gliel’ha ceduta. La stessa sera ad Annozero Pier Luigi Bersani, davanti ad un palcoscenico di donne dello stabilimento OMSA, fortunatamente diverse dalle “donne che si arrendono” della canzone di un vecchio spot aziendale, rivendica il primato sulla parola crisi, che il PD non ha mai negato e ribadito da almeno due anni a questa parte. Questo basta a risolvere il problema di quelle donne e di tanti altri lavoratori? Precariato chiama crisi, crisi chiama precariato, chi è nato prima? Ha senso rivendicare il primato di una parola quando per tanti anni altre sono state taciute o addirittura allevate da leggi sostenute o non realizzate anche dalla sinistra. Riprendiamoci sì le parole, chiare e forti, ma accanto a loro diamo vita ad una progettualità diversa, fatta veramente di chi opera nella società affiancato da chi può organizzare una rinascita a partire dalla condivisione e non da chi ha le mani nel barattolo della marmellata. (Maria Alisia Poggio)
“Le borse di studio solo ai piemontesi, e per chi arriva da fuori paghino le regioni di appartenenza”, annuncia in un video postato su yotube il governatore del Piemonte Cota. “Si deve sostenere i propri giovani”. Aggiunge il presidente leghista. Così il Piemonte, che con la Liguria e altre nove regioni garantiva al 100 % borse di studio agli studenti meritevoli, ribalta vent’anni di legislazione del diritto allo studio. La percentuale degli studenti fuori sede, ovvero italiani o stranieri, è del 35% per il Politecnico e più o meno la stessa quella dell’Università, un record che ha permesso di piazzarsi fra i primi atenei per capacità attrattiva: una fucina di talenti che non sembra importare al governatore (tanto presenzialista Tv, che già qualcuno comincia a chiedersi quando lavori per la sua regione). All’Edisu, l’ente per il diritto allo studio, i 7 milioni per il 2011 a fronte dei precedenti 25, poi ridotti a 17 del 2010, non copriranno probabilmente né borse di studio, né residenze per il futuro. (La Stampa del 24/10/2010) “Anche se per quest’anno niente allarmismi, la musica dovrà cambiare “. E’ sempre Cota che parla. I tagli del governo sono rasoiate su tutta l’Istruzione. Su La Repubblicadel 2/11/2010 si evidenzia il caso con “Addio alle borse di studio, tagliato il 90% dei soldi”, ma il criterio piemontese che si vuole adottare, pare contrario alle linee delle migliori Università nel mondo e le notizie sugli exploitdi geniali talenti evidenziano molto spesso studi in un Paese non d’origine. Aiutare i ragazzi è una cosa seria, che siano i “propri” o no. Molti in Italia vi s’impegnano, volontari o per lavoro e con modesti salari, dagli insegnanti agli operatori sociali, dai centri culturali, a quelli sportivi di periferia, ai gruppi scout, alle comunità. Si aiutano giovani italiani e stranieri a misurarsi con le difficoltà, ad andare avanti nella vita, a sostenere chi vorrebbe farcela a scuola. Laici o credenti, lavorano in tutt’Italia da nord a sud per chi è del Sud o del Nord dello stivale, lanciando oltre lo sguardo, pensando all’arricchimento, alle messi che possono scaturire da giovani germogli, anche diversi tra loro: grazie alla contaminazione l’umanità si è evoluta. Poi spetterebbe alle Istituzioni supportare tutto ciò, destinando risorse a queste attività. Finanziando tra l’altro anche le borse di studio. Strane concezioni girano nel Governo, dal presidente del Consiglio che aiuta ragazze che hanno bisogno (senza distinzioni di provenienza), a chi vuole giustamente sostenere i propri giovani nello studio e nel lavoro, racchiudendoli però in un nazionalregionalismo posticcio di tutela, quasi un Dop. Impera dunque una cultura di preselezione, che dipende da strambi fattori. Un gioco dell’oca quasi crudele e iniquo: un passo avanti chi ha gambe belle e fianchi morbidi, un passo avanti se si è nati là piuttosto che qua. E’ vero lo spazio s’è ristretto ma un posticino piccolo magari c’è per tutti, così aveva imparato e sapeva pure la razza padana, quando dal Nor-Est si andava all’estero per poter mangiare. Dove oggi, secondo il rapporto Caritas sui migranti, calano maggiormente gli occupati stranieri, magari gli iscritti all’Inail, mentre si registra un nero per un’evasione nel Triveneto, che arriva a 7,5 milioni (Sole 24 ore Nord est del 27/ 10/2010). Nel Nord-Ovest un lieve aumento dei lavoratori immigrati, impiegati in mansioni non qualificate, anche se pure a Genova si è dato il via ai rimpatri assistiti: biglietto pagato e 400 euro per gli stranieri che se ne vanno come indennità di prima sistemazione e ulteriore supporto finanziario fino a tremila euro da erogare in patria. La crisi colpisce sempre di più, restano i capofamiglia, uomini o donne che siano e capita che bambini e ragazzi debbano tornare nel proprio paese d ‘origine, dopo anni di vita e di scuola in Italia. A Torino e provincia è diminuito il numero di stranieri iscritti a scuola, sarà contento il Governatore, risparmierà sulle borse di studio. Eppure “il sole delle Alpi” non riscalda tutta la razza padana, non tutti sono il nord che si fa trasformare in Padania. (Bianca Vergati)
Giovedì 4 novembre, alle 17, sotto il monumento a Garibaldi in Piazza De Ferrari è previstaa Genova una manifestazione promossa dal Circolo di Studi sul Lavoro Sociale “Oltre il Giardino” e chiama operatori sociali, volontari, cittadini, amministratori locali, sindacati a mobilitarsi contro la politica di un governo il cui scopo è “abolire i servizi pubblici cambiando di fatto la Costituzione” e che “con la scusa della crisi economica vuole colpire a morte lo stato sociale” Il titolo del volantino riassume amaramente l’attuale situazione nel nostro paese: “Mercato, profitto e beneficienza al posto della democrazia e dei diritti”. Le primissime adesioni: Associazione Balgasar – Associazione San Marcellino – Associazione il Ce.Sto – Csoa Pinelli – Laboratorio Buridda – Csoa Zapata – Cooperativa La Comunità – Cooperativa Il laboratorio – Cooperativa il Biscione – Lega Coop – Don Andrea Gallo , Comunità S.Benedetto – Pietro Marcello, Regista. A seguire, il testo del volantino.
Mercato, profitto e beneficenza al posto della democrazia e dei diritti Con la scusa della crisi economica il governo vuole colpire a morte lo stato sociale. L’eliminazione del Fondo Sociale e del Fondo per i non autosufficienti costringe Regioni, Comuni e ASL a ridurre ancora di più gli aiuti alle famiglie per l’assistenza agli anziani, ai disabili, ai bambini e agli adolescenti, a chi è emarginato o povero. A causa dei tagli alla spesa pubblica le persone e le famiglie in difficoltà già colpite dalla crisi dovranno cavarsela da sole, chi può pagando i servizi, chi non può ricorrendo alla beneficenza, come già avviene da alcuni anni. Bisognerà ricorrere ancora di più alle cure domestiche, soprattutto a carico delle donne, della famiglia o al lavoro, spesso nero e mal pagato, di badanti e babysitter. Molti lavoratori dei servizi sociali, sopratutto privati ma anche pubblici, saranno costretti alla disoccupazione o al lavoro senza risorse, precario e dequalificato. I volontari dovranno affrontare il compito impossibile e improprio di sostituire i servizi pubblici. Di questo famiglie, operatori e amministratori locali si stanno accorgendo anche se c’è ancora troppa rassegnazione e troppo senso di impotenza. Ma il vero scopo del governo non è quello di ridurre la spesa per i servizi alle persone. Lo scopo principale è invece quello di abolire i servizi pubblici, cambiando nei fatti la nostra Costituzione: il sistema dei servizi pubblici, con l’aiuto della cooperazione e del volontariato, non serve soltanto a offrire prestazioni ma sopratutto a rendere concreti quei valori di libertà, uguaglianza e fraternità che giustificano e fondano la società italiana nata dalla Resistenza e dalla Guerra mondiale. I servizi pubblici vanno difesi non tanto perché aiutano chi è in difficoltà a rientrare nella società o a combattere il bisogno, l’invalidità, la povertà ma proprio perché hanno il mandato specifico di aiutare la comunità a conoscere e sviluppare il dovere di solidarietà. Servono a costruire giorno per giorno una società che tuteli e garantisca l’uguaglianza delle opportunità per tutti. Il governo vuole eliminare questi presidi costituzionali, per lasciar mano libera a chi vuole vendere le prestazioni sociali oppure offrirle non per diritto ma per carità o beneficenza. Non per caso i tagli riguardano tutti i presidi costituzionali pubblici, come la scuola la sanità la cultura. In ciascuno di questi settori , contribuiscono nei rispettivi ambiti a realizzare il compito della Repubblica (art.3 Costituzione) “… rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” Ognuno di noi deve reagire con forza essendo consapevole del nostro vero interesse e del vero scopo del governo. Bisogna agire insieme, insieme con le amministrazioni locali, i sindacati, le cooperative, le organizzazioni del volontariato, gli operatori, le famiglie e le loro associazioni, insieme con il mondo della scuola, della sanità, della ricerca, della cultura, del lavoro. Non solo per difendere i servizi, le famiglie, i lavoratori. Non solo per combattere l’egoismo, la furbizia, la disonestà. Agire insieme per far emergere una società migliore, più fedele alla Costituzione, più democratica, libera, uguale, fraterna. A tutti coloro che condividono questa preoccupazione, ma anche la voglia di ricostruire un discorso di senso sull’insieme dei servizi, diamo appuntamento Giovedì 4 NOVEMBRE ore 17 in piazza De Ferrari (sotto il monumento di Garibaldi ! ) Per aderire mandare una mail a oltreilgiardino.ge@yahoo.it – Per vedere via via chi ha aderito guardare gli eventi nell’account di facebook “oltre il giardino”
Il Presidente del Consiglio aveva chiesto l’intervento della Corte Costituzionale sollevando la questione di legittimità di alcune disposizioni della Legge Regionale Puglia sull’Immigrazione (L. 22/2010). La sentenza della Corte Costituzionale n.299 del 22 ottobre 2010 ha dato ragione all’operato della Regione governata da Vendola su almeno tre questioni importanti:
1) Il Testo Unico sull’immigrazione garantisce l’assistenza sanitaria gratuita agli immigrati irregolarmente soggiornanti per le cure urgenti o essenziali, anche a carattere continuativo, e prevede inoltre che a loro sia rilasciato un tesserino con il codice STP (Straniero Temporaneamente Presente). La legge pugliese prevede che gli assistiti con il codice STP abbiano diritto alla scelta del medico di base. Il governo ha protestato contro questa misura non prevista dalle disposizioni nazionali ma la Corte Costituzionale ha dichiarato legittima questa disposizione.
2) Il governo, modificando il Testo Unico sull’immigrazione, con la legge 132/2008, ha escluso i cittadini dell’Unione Europea (ad esempio i romeni) non iscritti all’anagrafe dall’assistenza sanitaria gratuita di cui fruiscono i cittadini non europei irregolarmente soggiornanti. La legge pugliese invece prevede per i cittadini appartenenti all’Unione Europea privi dei requisiti per l’iscrizione al sistema sanitario l’assistenza gratuita con il codice ENI (Europeo Non in Regola) con le stesse modalità per l’attribuzione e l’accesso alle prestazioni previsti per i cittadini irregolari non appartenenti all’Unione Europea assistiti con il codice STP. Berlusconi ha protestato ma la Corte Costituzionale ha dichiarato legittima anche questa disposizione.
3) La Legge Regione Puglia n. 22/2010, infine, usa la vecchia formulazione del Testo Unico, cancellata dalla modifica governativa, per stabilire che “le disposizioni della legge regionale si applicano qualora più favorevoli anche ai cittadini appartenenti all’Unione Europea”. Una norma di buon senso che non è piaciuta al governo Berlusconi, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale; e la Corte, anche in questo caso, ha dichiarato la legittimità della norma.
Tre provvedimenti di diritto, di buon senso, di civiltà e di provata costituzionalità che insieme all’iscrizione a tempo indeterminato al Sistema Sanitario Regionale degli immigrati regolari (vigente sempre in Puglia) attendono di essere adottati dalla Regione Liguria e dalle altre Regioni di centro sinistra.
L’estate delle donne romane è stata lunga e particolarmente afosa. Sembra non dar tregua neanche ai segnali del primo freddo. Come al solito tutto è iniziato sommessamente, il 26 maggio 2010, con la proposta di Legge regionale del Lazio n. 21 del consigliere Olimpia Tarzia. Tra i suoi titoli rammentiamo: Docente di Bioetica, Vice Presidente nazionale della Confederazione Italiana Consultori Familiari di Ispirazione Cristiana, tra i fondatori del Movimento per la Vita, Presidente del Comitato Nazionale per la Famiglia, Presidente del Comitato “Donne e Vita” etc etc. La proposta riconosce la famiglia come centro per la promozione della vita e delle relazioni etico-educative, nucleo fondante di nuove realtà consultoriali parallele a quelle territoriali pubbliche-locali e no profit, con le quali la famiglia deve interagire nello spirito della contaminazione della società civile. Anzi, la famiglia è la società civile! Scorrendo gli articoli s’intuisce che con famiglia s’intende la coppia canonicamente consacrata dal rito nuziale, non si sa se religioso o meno. Un vago riferimento all’oratorio (art.8) come luogo di aggregazione con il quale il nuovo consultorio familiare dialoga per la maturazione psico affettiva e sessuale dei membri della famiglia, lascia ad intendere qualcosa. La mission della famiglia evangelizzante è la promozione della vita, (art. 13) deve accompagnare e anticipare la possibilità di avvalersi della legge 194/78, tentando di preservare la maternità, facendo ragionare la donna sulle motivazioni della sua scelta personale di abortire, proponendo sostegni economici in una strenua difesa del concepimento. Si citano appositi fondi da dispensare a madri che rientrino in determinate categorie di reddito, prospettando sovvenzioni sino al quinto anno di età del bambino. Consultori familiari e madri dovrebbero essere sostenuti dalla Regione Lazio, quando questa soffre di un buco enorme di bilancio nella sanità e non riesce nemmeno a coprire le necessità del territorio regionale con il numero esiguo di consultori pubblici. Alla sottrazione di fondi pubblici per un’iniziativa privata è proposta l’ormai usuale alternativa (art.17-18): la possibilità di aggregarsi in consorzi (ben vengano se non forzati), cercare sponsor etc. Non una novità per una convergenza storico nazionale in cui i servizi sociali e culturali sono messi a dura prova, se non completamente in dubbio. Il provvedimento di legge prevede anche l’istituzione di un comitato bioetico, composto da alcune figure professionali come l’esperto in bioetica, il giurista, il farmacologo etc. Dunque nuovi ruoli professionali, quali le qualifiche per identificarli? Il Comitato bioetico presiede le attività dei consultori pubblici e verifica che i loro servizi siano conformi alle norme bioetiche. La minaccia ai consultori pubblici, alla legge 194, alla legge 15/76 in vigore, è stata recepita da diverse realtà, dai sindacati agli stessi consultori, dai comitati femminili a singole adesioni di professioniste, che si riuniscono ormai da luglio alla Casa Internazionale delle Donne. Tutte insieme hanno dato luogo ad iniziative simboliche, continuano a raccogliere firme, hanno incontrato il 4 ottobre scorso Emma Bonino ed altri esponenti di partiti politici che hanno dato sostegno al no nei confronti della proposta di legge. Il capitolo non è ancora chiuso, anzi, collocato in uno scenario nazionale in cui le pressioni verso le autonomie regionali, combinate con le forti restrizioni dei loro budget sanitari, può dar vita alle più varie declinazioni. Una legge regionale che scavalca una nazionale, approvata con un referendum popolare, dovrebbe mettere in allerta chiunque. Ancora una volta le donne sono chiamate a difendere diritti ritenuti acquisiti, non solo per interesse diretto, ma per una condivisione reale e nel tentativo di radicare quelli che dovrebbero esser diritti naturali.
La violenza “di genere” colpisce ogni anno migliaia di donne e figli minori, avvelenando in profondità il tessuto sociale del nostro Paese. Nel 2005, su impulso della Provincia di Genova, è nata la Rete provinciale antiviolenza, che connetteva competenze, servizi e volontà politica di chi, da fronti diversi, lavorava su questo tema. Negli anni la Rete è cresciuta, e ad oggi ne fanno parte 24 associazioni, 24 Comuni, 6 Pronto Soccorso, due ASL con una buona collaborazione con le Forze dell’Ordine. La L.R. 12/2007 “Interventi di prevenzione della violenza di genere e misure a sostegno delle donne e dei minori vittime di violenza”, nata su proposta della Rete, prevede, tra l’altro, il finanziamento per la costituzione di almeno un Centro antiviolenza in ogni Provincia, il sostegno a progetti individualizzati per le donne, case rifugio e alloggiative, campagne di sensibilizzazione. Il Centro Antiviolenza di via Mascherona a Genova è stato inaugurato ufficialmente il 25 novembre del 2008 da Provincia, Comune e Regione assieme alle associazioni della Rete. Oggi, a due anni dalla sua apertura, sono stati registrati 416 contatti, e 243 donne hanno iniziato il percorso di fuoriuscita dalla violenza, con la presenza di oltre 100 minori vittime di violenza assistita o subita. Nel 2010 le prese in carico sono aumentate del 30 % rispetto al 2009, e i contatti sono aumentati del 40 %. Analogo riscontro hanno i Centri d’ascolto nati nel frattempo in cinque Comuni del territorio provinciale, e possiamo prevedere che la crescita continuerà anche nei prossimi anni. Importanti collaborazioni sono state stabilite con ASL 3, Direzione consultoriale, Dipartimento di Salute mentale, Servizio di reperibilità dei servizi sociali, Rete madre-bambino e con le case rifugio e accoglienza del Comune di Genova. Ma ora ciò che abbiamo costruito in questi anni rischia di essere messo in discussione. Le politiche economiche, la riforma federalista e i tagli diretti o indiretti previsti dal governo Fini – Bossi – Berlusconi sullo stato sociale ricadranno su Regioni, Enti Locali e quindi sulla popolazione, e la società arretrerà dai diritti conquistati faticosamente nel secolo scorso a favore di un aumento esponenziale delle disparità sociali, della perdita progressiva di diritti, dell’impoverimento progressivo delle fasce più deboli e della classe media. Si passerà dai diritti alla carità, cancellando anni di lotte e conquiste sociali. Nel 2011 anche i finanziamenti per il Centro antiviolenza, e per i Centri d’ascolto e i servizi ad essi collegati, rischiano di essere messi seriamente in discussione: un pericoloso arretramento in un paese in cui ogni giorno la violenza contro le donne e i loro figli continua a rimanere sostanzialmente fuori dall’agenda politica. Ma non intendiamo rassegnarci, a maggior ragione dopo i risultati fin qui ottenuti, a veder messa in discussione l’esistenza del Centro e del lavoro di rete, e a ridurre nuovamente a silenzio le donne picchiate, vessate, umiliate tra le pareti di casa dal proprio partner. Non intendiamo rassegnarci ad un Governo che massacra lo stato sociale e approfitta della crisi per cancellare diritti. Denunciamo i tagli e l’inesistenza di finanziamenti da parte del Governo, ma chiediamo anche a Regione ed Enti Locali uno sforzo concreto affinchè confermino l’impegno contro la violenza di genere di cui si sono fatti carico in questi anni. Facciamo appello alla società civile affinchè ci sostenga in questa lotta di democrazia e civiltà, anche costruendo assieme iniziative di raccolta fondi affinché le donne maltrattate non restino sole. (Marina Dondero – Vice Presidente – Assessora a Costa ed Entroterra e Pari Opportunità della Provincia di Genova)
E’ iniziata una stagione di caccia alla ricerca di chi si presume percepisca indebitamente 267,00 Euro mensili per una inabilità fisica o psichica non vera. I controlli si sono moltiplicati. Si augurano tutti un buon bottino tale da poter andare ad alimentare le magre casse dello stato. L’esiguità della somma erogata non fa scandalo e non è di interesse collettivo. Ma per chi conosce direttamente le storie di povertà e malattia risulta evidente la profonda ingiustizia. I veri poveri non sanno cosa vuol dire arrivare a fine mese senza soldi. Per loro il primo giorno è già l’ultimo. La legge finanziaria approvata dal governo e in vigore dal 1 Gennaio 2011 non ha modificato i miseri introiti dovuti per le pensioni minime, ha invece stabilito parametri severi per poter usufruire della pensione di anzianità lavorativa. Una moltitudine di lavoratori si è visto allontanare nel tempo il tanto ambito desiderio di riposo e ciò ha generato sconforto. Mi è venuto incontro uno scritto sindacale che riportava la sintesi di un intervento fatto in parlamento il 21 settembre 2010 da un deputato dell’opposizione. Questi chiedeva l’approvazione di un ordine del giorno in cui veniva chiesta l’abolizione del vitalizio spettante ai parlamentari dopo cinque anni di legislatura. Stupisce l’accordo con cui la maggioranza dei deputati ha rifiutato la proposta presentata. Riporto i risultati della votazione e alcuni stralci dell’intervento: Presenti 525 Votanti 520 Astenuti 5 Maggioranza 261 Hanno votato sì 22 Hanno votato no 498 “Penso che nessun cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa accettare l’idea che gli si chieda, per poter percepire un vitalizio o una pensione, di versare contributi per quarant’anni, quando qui dentro sono sufficienti cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il parlamentare per un giorno – ce ne sono tre – e percepiscono più di 3.000 euro al mese di vitalizio. Non si potrà mai accettare che ci siano altre persone rimaste qui per sessantotto giorni, dimessisi per incompatibilità, che percepiscono un assegno vitalizio di più di 3.000 euro al mese. C’è la vedova di un parlamentare che non ha mai messo piede materialmente in Parlamento, eppure percepisce un assegno di reversibilità. Credo che questo sia un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta… è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi, sia per i deputati in carica che per quelli cessati, chiedendo invece di versare i contributi… Proprio la Corte Costituzionale, con la sentenza richiamata dai colleghi questori, ha permesso invece di dire che non si tratta di una pensione, che non esistono dunque diritti acquisiti e che, con una semplice delibera dell’Ufficio di Presidenza, si potrebbe procedere nel senso da noi prospettato, che consentirebbe di fare risparmiare al bilancio… milioni di euro l’anno.” Che fare ? Qualcuno in passato si era già posto questa domanda ma a quanto pare il tempo della storia non è riuscito a dare ancora una risposta. (Maria Paola Veardo)