Categoria: Cultura

  • OLI 278: CITTA’ – La rampa

    Lavori in corso alla Chiesa del Gesù, a Genova.
    Per consentire un facile accesso anche a turisti e fedeli disabili, ad maiorem Dei gloriam si sta provvedendo a eliminare la barriera architettonica costituita dagli scalini che salgono ai tre portali in facciata.
    Lodevole intenzione. Peccato che l’intervento comporti una struttura metallica applicata all’ingresso di sinistra, verso Piazza De Ferrari, per fissare la quale si sono forati gli antichi gradini di marmo e la parete in pietra del Finale, per giunta un po’ bruciacchiata dalla saldatura. Sul risultato estetico è prematuro pronunciarsi, in attesa del completamento che – si spera – non lascerà in vista il ferro così com’è ora, ma lo rifinirà in qualche modo. In ogni caso si tratta di un’operazione alquanto invasiva, che altera l’autenticità e l’equilibrio della monumentale facciata barocca prospiciente Piazza Matteotti, riprodotta tra l’altro anche da Pietro Paolo Rubens nella seconda edizione del suo Palazzi di Genova, datata 1622.


    Alcuni lettori di Oli hanno espresso il loro sconcerto in proposito, notando pure che il cartello informativo, apposto come di norma, cita progettisti e direttore dei lavori, i finanziatori, la committenza, l’impresa esecutrice e altri dati, ma tace gli estremi del nulla osta della soprintendenza, che si presume sia stato concesso, nelle forme e secondo le procedure previste dalla Intesa firmata il 26 gennaio 2005 tra il ministro per i Beni e le attività culturali ed il presidente della Conferenza episcopale italiana, relativa alla tutela dei beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni ecclesiastiche, nel quadro del Codice dei beni culturali e del paesaggio (decreto legislativo numero 42 del 22 gennaio 2004 e successive modifiche e integrazioni). Dato il contesto, sembrerebbe strano che possa essere bastata la semplice D.I.A. (Denuncia di Inizio Attività), come dichiarato.
    È opportuno che la città, coi suoi monumenti, sia per i cittadini (anche e soprattutto per quelli che hanno più difficoltà a percorrerla), piuttosto che il contrario, immobilizzata in una conservazione a oltranza dell’esistente che ne pregiudichi un’agevole fruibilità per il maggior numero di persone.
    Altrettanto importante è però che qualsiasi innovazione, specie su testimonianze di grande valore, sia attuata nel pieno rispetto dei caratteri formali, materiali e funzionali dell’oggetto, nella massima coerenza con la sua storia.
    Dovrebbero essere i competenti uffici ministeriali a fornire sufficienti garanzie in merito, con l’assicurazione – in casi particolarmente delicati come quello in questione – che non si sarebbe potuto fare altrimenti e lasciando sempre aperta la possibilità di un dibattito critico con la cittadinanza.
    La richiesta di conoscere gli estremi dell’approvazione dei lavori in corso da parte della Soprintendenza per i beni architettonici non è pertanto pretesa oziosa, ma esercizio di un basilare diritto all’informazione e quindi alla partecipazione alla gestione di un patrimonio che è di tutti.

    (Ferdinando Bonora, foto dell’autore)

  • OLI 277: POLITICA – Giovinezza, giovinezza…

    S’è già detto e scritto abbastanza sull’infelicissima idea di proporre insieme, nella prossima edizione del Festival di Sanremo, il canto partigiano Bella ciao e l’inno fascista Giovinezza, avanzata dal direttore artistico Gianmarco Mazzi insieme al conduttore Gianni Morandi per la serata dedicata al 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, suscitando perplessità a destra e soprattutto ferma indignazione a sinistra, per questo ennesimo tentativo di equiparare Fascismo e Resistenza mescolandoli in un calderone buonista in cui tutto si confonde, si banalizza e perde quel senso che è bene rimanga vivo e presente.

    Il Consiglio d’amministrazione della Rai, a fronte della polemica, ha tagliato la testa al toro stigmatizzando tale scelta e revocandola (peraltro in modo assai pilatesco, senza distinguo tra i due brani).
    Se non si avrà modo di ascoltare Giovinezza a Sanremo – e non se ne sentirà certo la mancanza – val comunque la pena di dedicare un po’ di tempo a questa composizione nata come canto goliardico nel 1909, poi fatta propria dagli Alpini e quindi dagli Arditi nella Grande Guerra, per approdare infine al Ventennio di cui divenne il tema più popolare e rappresentativo, approvato ufficialmente come “Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista”.
    Per limitarsi a quanto offre la rete, una voce di Wikipedia ne traccia la storia, seguendone le vicende e i progressivi adattamenti del testo, in cui si rispecchia l’evoluzione sociale che condusse al regime fascista.
    Spostandosi su Youtube, è inquietante scoprire quanti siano i video confezionati per supportarne diverse esecuzioni, con montaggi di immagini fisse, filmati e anche varie versioni col solo testo, per impararne le parole grondanti retorica e poterle cantare tutti insieme in un bel karaoke del littorio.
    Particolarmente agghiacciante è una sequenza di spezzoni di cinegiornali Luce in cui le esercitazioni e le parate di balilla e avanguardisti, di piccole e giovani italiane hanno Giovinezza come colonna sonora, in una ben ordinata e fiera Italia inconsapevolmente proiettata verso la catastrofe. Ancor più raccapriccianti sono qua e là i commenti di coloro che rimpiangono quell’Italia e la vorrebbero ancora.



    Se Arturo Toscanini si rifiutava di dirigerla, sostenendo che le sue orchestre non si abbassavano a suonare il vaudeville e ricevendo per questo gli schiaffi delle camicie nere (Teatro Comunale di Bologna, 14 maggio 1931), fino a dover lasciare l’Italia per l’America, un’altra gloria nazionale non si faceva invece scrupoli a cantarla: Beniamino Gigli la interpretò con enfasi, accompagnato da orchestra e coro.
    Tra gli elaborati che lo utilizzano, è sconcertante l’instant-video appena ideato il 4 novembre scorso da tale Carlo, per celebrare “uno degli inni del periodo fascista, censurato dalla Rai”. Vi si susseguono immagini d’ogni tipo, evidentemente per esemplificare e magnificare la giovinezza, la primavera di bellezza, il popolo d’eroi e la patria immortale, mescolando foto d’epoca e d’attualità, comprese procaci fanciulle semisvestite oltre i limiti della pornografia (del resto, non è forse “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay”?), in un grottesco guazzabuglio di cui si fatica a seguire il senso ma in cui è chiarissima la cultura che ne è alla base.
    Sarà anche una canzone che ha 100 anni, ma non ha certo perso la sua carica e il suo appeal in una buona fetta di italiani. Sarà opportuno che tutti gli altri continuino (o riprendano) a non abbassare la guardia.


    (Ferdinando Bonora)
  • OLI 277: CULTURA – I Beni pubblici e i cittadini

    “Il crollo di Pompei è una vergogna per l’Italia”, così il Presidente della Repubblica . Un dispiacere immenso per coloro che ancora credono nel valore dell’arte, della cultura, del patrimonio del nostro Paese e che stiamo dissipando inesorabilmente.
    Quanti turisti hanno calpestato quei ciottoli, quelle stradine, immergendosi nella Storia, arrivando da ogni parte per vedere quei resti che parlano non soltanto di noi e di quello che siamo stati, ma che parlano al cuore di tutti gli uomini e del loro cammino.
    Da anni si lamenta la fragilità delle nostre vestigia. Per colmo si è in talune circostanze pensato che il territorio che aveva la fortuna di esserne il sito potesse custodirli meglio: ecco nato l’Ente dell’autonomia di Napoli e Pompei ed ecco i risultati. Ora si parla di mancanza di risorse, pure il Ministro pigola di zero fondi per la cultura, benchè si fosse provveduto ad ingaggiare addirittura un grande manager per riorganizzare i Beni culturali. E se il giovane sindaco che ribadiva tempo fa “gli Uffizi sono in primo luogo di Firenze” poteva avere le sue ragioni, visto che il ministero ne rivendicava la gestione, non si può negare una questione fondamentale: gli Uffizi, come Pompei sono un bene di tutti. Quindi tutela e controlli ad oltranza e non solo di competenza locale.
    La Commissione Rodotà provò fra il 2007 e il 2008 a mettere ordine sulla legislazione dei beni pubblici, dispersa in mille rivoli di leggi, leggine e classificazioni formalistiche. Come? Usando la Costituzione, “Poiché il regime giuridico dei beni pubblici costituisce il fondamento economico e culturale più importante per la realizzazione del disegno di società contenuto nella Costituzione stessa” (dal saggio“ Beni pubblici : dal governo democratico dell’economia alla riforma del Codice Civile”a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio, Stefano Rodotà). Vi sono perciò “beni comuni” che si sottraggono alla logica proprietaria tanto pubblica quanto privata per metterne al centro la fruizione collettiva. Beni ad appartenenza pubblica necessaria, che appartengono alla stessa essenza di uno Stato Sovrano: tutti fanno sempre parte del patrimonio per così dire “liquido” di tutti noi. Tutti i cittadini italiani sono titolari di beni pubblici, quasi un portafoglio collettivo di proprietà lo si potrebbe definire.
    In luogo di questa concezione, che rispetta Costituzione e interessi collettivi, si è intanto varato iI federalismo demaniale, cioè lo Stato cede agli Enti locali quasi ventimila unità del proprio demanio per un valore “nominale” di tre miliardi di euro: forti, caserme, isole e catene montuose come le Dolomiti, patrimonio Unesco.
    Il trasferimento comporta che una parte di questi beni diventerà immediatamente vendibile. Un’altra porzione resterà al Demanio locale, inalienabile soltanto sulla carta, ma la legge ne prevede comunque una forma strisciante di privatizzazione.
    E già ne abbiamo un classico esempio con la gestione delle spiagge.
    “Alienarli per produrre ricchezza a beneficio della collettività territoriale”, cita la legge, cioè non di tutti gli italiani, nel cui portafoglio collettivo i beni erano prima della legge Calderoli. All’interesse collettivo si è opposto un progetto, che borseggia il portafoglio della cittadinanza tutta e lo ridistribuisce ai governi locali come un salvadanaio di terracotta da fare a pezzi.
    E visto lo stato disastroso delle finanze locali ciò significherà svendere: meglio che lasciarli andare in malora si dirà. Ma se la gestione autonoma significa lo scempio della Valle dei Templi o Pompei auguriamoci che non si proponga un federalismo dei beni culturali.
    (Bianca Vergati)

  • OLI 277: COSTITUZIONE ITALIANA – La Costituzione difende la cultura

    Costituzione della Repubblica Italiana, Articolo 9:

    “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”

    5 maggio 2003. Dall’intervento del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in occasione della consegna delle medaglie d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte.

    “È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione. L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa nella cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali nel mondo. Forse l’articolo più originale della nostra Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9 che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo: ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’. La Costituzione ha espresso come principio giuridico quello che è scolpito nella coscienza di ogni italiano. La stessa connessione tra i due commi dell’articolo 9 è un tratto peculiare: sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile. Anche la tutela, dunque, deve essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile da tutti. Se ci riflettiamo più a fondo, la presenza dell’articolo 9 tra i ‘principi fondamentali’ della nostra comunità offre un’indicazione importante sulla ‘missione’ della nostra Patria, su un modo di pensare e di vivere al quale vogliamo, dobbiamo essere fedeli. La cultura e il patrimonio artistico devono essere gestiti bene perché siano effettivamente a disposizione di tutti, oggi e domani per tutte le generazioni. La doverosa economicità della gestione dei beni culturali, la sua efficienza, non sono l’obiettivo della promozione della cultura, ma un mezzo utile per la loro conservazione e diffusione. Lo ha detto chiaramente la Corte Costituzionale in una sentenza del 1986, quando ha indicato la ‘primarietà del valore estetico-culturale che non può essere subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’ e anzi indica che la stessa economia si deve ispirare alla cultura, come sigillo della sua italianità. La promozione della sua conoscenza, la tutela del patrimonio artistico non sono dunque un’attività ‘fra altre’ per la Repubblica, ma una delle sue missioni più proprie, pubblica e inalienabile per dettato costituzionale e per volontà di una identità millenaria”.

    Carlo Azeglio Ciampi
    (a cura di Aglaja)
  • OLI 274: CULTURA – Grazie, Tiziano

    Se n’è uscito di scena all’improvviso, Tiziano Mannoni.
    C’eravamo incontrati qualche giorno fa, alla presentazione del programma di Genova Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, nell’affollato salone del Maggior Consiglio. Seduti vicini, mi mostrava fotocopie degli antichi statuti di Pontremoli sui quali stava lavorando per una sua ennesima pubblicazione. Per guadagnar tempo, scorreva i fogli e intanto seguiva i relatori sul palco, con  l’intelligente, vivace e poliedrica curiosità di sempre. Ci conoscevamo da quasi quarant’anni, da quando, liceale non ancora diciottenne, avevo cominciato a frequentare nel 1971 gli incontri teorico-pratici di archeologia che egli, allora quarantatreenne, teneva presso la sezione genovese dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri per un gruppo di appassionati, d’intesa con la Soprintendenza (detta allora “alle Antichità”, oggi “per i Beni Archeologici”).

    Ogni venerdì sera ci si ritrovava in sede, a Palazzo Reale nel vecchio atrio dov’è ora la caffetteria del museo, a seguire le sue lezioni di tecnica di scavo e storia della ceramica. Il sabato e la domenica si saliva a scavare sulla Collina di Castello tra le macerie di San Silvestro, in una Genova ancora martoriata dalla guerra, inimmaginabile per chi vi vede adesso quella Facoltà di Architettura dove molti anni dopo lo stesso Mannoni sarebbe stato uno dei docenti più apprezzati e carismatici, a distribuire ai suoi studenti il proprio sapere con l’umiltà, la semplicità e la chiarezza che contraddistinguono chi è veramente grande. 

    San Silvestro negli anni Ottanta (foto F. Bonora)

    Le rovine del convento domenicano racchiudevano mura del precedente castello vescovile medievale, a sua volta eretto sulle vestigia dell’oppidum preromano, la cittadella fortificata ligure-etrusca da cui si sarebbe sviluppata l’intera città. Sotto la sua guida si praticavano scavi rigorosamente stratigrafici, andando a ritroso nel tempo dai giorni nostri fino al quinto/sesto secolo avanti Cristo, sviluppando le innovative metodiche d’indagine messe a punto da Nino Lamboglia, il direttore dell’Istituto di Studi Liguri tragicamente scomparso in porto nel 1977, che di tanto in tanto effettuava sopralluoghi e forniva consigli.
    Mannoni e il suo gruppo hanno condotto significative ricerche anche in numerosi altri siti, sia a Genova sia nel resto della Liguria e pure fuori regione. In particolare nella Lunigiana, da dove proveniva e dove ha disposto che tornino i suoi resti.
    La sua formazione al di fuori dei consueti binari (non aveva alle spalle studi classici, ma proveniva dall’ambito delle scienze, che da pioniere aveva cominciato ad applicare ai vari aspetti dei beni culturali) lo faceva guardare con sospetto e sufficienza da un certo mondo accademico legato a un’idea di archeologia come storia dell’arte antica e dei fatti eccezionali, che mal sopportava un nuovo approccio attento invece alla globalità dei fenomeni, in un’archeologia intesa come disciplina storica che indaga tutti gli aspetti del passato basandosi soprattutto sulle tracce materiali stratificatesi nel tempo in un dato territorio; non solo nel sottosuolo ma anche al disopra di esso, negli edifici, nelle infrastrutture e nelle forme del paesaggio tuttora in uso.
    Dal vecchio Gruppo Ricerche nacque l’Iscum, Istituto per la Storia della Cultura Materiale oggi ospitato presso il Museo di Sant’Agostino, con archivi e biblioteca specializzata.
    La chiesa gremitissima al funerale e i numerosi commenti “linkati” qui sotto dicono quanto fosse stimato non solo per i suoi meriti scientifici in Italia e all’estero, ma anche per l’umanità con cui sapeva rapportarsi agli altri.
    Siamo in tanti a dovergli tanto: grazie, Tiziano, per tutto quello che ci hai lasciato.

    http://www.viveregenova.comune.genova.it/content/addio-tiziano-mannoni-archeologo-dellarchitettura
    http://generazionediarcheologi.myblog.it/archive/2010/10/17/addio-tiziano-mannoni-l-archeologia-italiana-piange-un-pioni.html
    http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2010/10/18/AMSqeu9D-addio_delle_creuze.shtml

    (Ferdinando Bonora)

  • OLI 272: SOCIETA’ – L’accessibile normalità di Stoccolma

    Spesso sono destinati a coppie. Non di gemelli. Ma semplicemente di fratelli. Se ne vedono parecchi in giro, i giovani genitori ci spingono i figli: il grande nel passeggino, il neonato nella carrozzina, affiancati l’uno all’altro esattamente come in un sidecar. A loro ogni mezzo di trasporto è accessibile: l’autobus che si abbassa dolcemente sul marciapiede per far scivolare le ruote delle carrozzine all’interno, la metropolitana dotata ad ogni fermata di ascensore, i traghetti per l’arcipelago. E loro, i bambini, con passeggini di ogni forma, sono davvero tanti a Stoccolma. Tanti come disabili e anziani, alcuni che girano la città su sedie a rotelle o spingendosi appoggiati a girelli.
    Per i più malati il centro per anziani che ho visitato nel quartiere di Solna offre grandi camere singole dove portare da casa gli oggetti più cari, camere dotate di servizi per disabili e angolo cucina. E un’assistente – fotografata vicino al degente accanto alla porta della stanza – che, mi dicono, non è presenza virtuale, ma reale. Se hanno pensione viene trattenuta dallo Stato praticamente tutta, tranne una piccola percentuale.
    Anche in piena estate, colpisce di Stoccolma il silenzio in strade e parchi, ancorché affollati, come se anche il volume delle parole fosse regolato da un principio condiviso da tutti. E stupisce la presenza di giovani e famiglie straniere. 
    La moschea è nel cuore della città. Lo spazio interno corrisponde alla somma di due palestre delle nostre scuole: grandi finestre si affacciano su un lato del perimetro, archi orientaleggianti decorano il lato opposto. L’ala schermata e riservata alle donne ne sovrasta una parte. La costruzione, di una semplicità commovente, è quello che deve essere, un luogo di preghiera. Indispensabile al credente.
    A Stoccolma quello che è necessario al cittadino sembra accessibile con normalità. E’ una normalità strana per chi è italiano, difficile da comprendere perché derivante da una logica – pagamento delle tasse ed etica della politica – che in Italia non ha messo radici.
    La politica svedese infatti è controllata da anticorpi interni ad essa che la rendono immune dalla corruzione. La segretaria socialdemocratica Monia Sahlin colpevole di aver utilizzato (nel 1995) la carta di credito da parlamentare per acquistare due tobleroni, pannolini e sigarette, fu costretta a causa dello scandalo a lasciare la carica di vicepremier e ad abbandonare la politica. Ridotta al silenzio per tre anni, è stata eletta alla segreteria del suo partito nel 2007. Ancora oggi lo “scandalo del Toblerone” è uno degli argomenti principali – a distanza di quindici anni – in mano agli avversari politici per renderla “inaffidabile”.
    Forse anche questa vicenda ha a che vedere con l’accessibile normalità che si respira a Stoccolma.

    (Giovanna Profumo)

    OLI 272: SOMMARIO

     

  • OLI 271: CULTURA – Realtà e futuro davanti a sé: Vittorio Foa

    Pietro Medioli è riuscito giovedì scorso a superare i confini spazio temporali che racchiudono la figura di Vittorio Foa: ha esteso il tavolo della cucina di Formia attorno al quale amici, conoscenti e accompagnatori di amici mangiavano assieme a lui e Sesa Tatò confrontandosi sulle cose della vita. Buttato giù le pareti che circondavano quel vano, cucina, salotto, studio, cuore di una casa aperta a tutti. Per alcune ore la Casa del Cinema di Roma, in cima a via Veneto, all’inizio del parco di Villa Borghese si è trasformata in tutto questo. Seduti alla tavola, come sempre è stato in casa Foa-Tatò, indistintamente, parenti, politici, studiosi, amici, ragazzi di cui ha accompagnato l’infanzia, tanti che l’hanno conosciuto unicamente attraverso le sue parole e i suoi passaggi.
    Il documentario, promosso dalla fondazione Di Vittorio, è stato un viaggio di un’ora attraverso la sua vita tra immagini d’inizio Novecento, inquadrature della Torino d’oggi, eccezionali disegni dal carcere di Ernesto Rossi, filmati della liberazione e della Costituente, l’immancabile cucina di Formia e le montagne amate dall’infanzia della Valle d’Aosta. Tutto questo accompagnato dalle parole di Foa, punteggiate dai suoi “nevvero” e i suoi silenzi carichi di riflessione a non intimorire l’interlocutore, a ricordarci che ascoltare non è solo mezzo per imparare, ma anche per rispettare l’altro da se, vederlo come una risorsa e non un ostacolo. A fargli da contraltare le domande di Federica Montevecchi e Pietro Medioli, i discreti, ma essenziali interventi di sua moglie Sesa.
    Così davanti agli occhi dei partecipanti è corsa una vita lunga un secolo, Foa l’avrebbe compiuto il 18 settembre scorso. Una durata quasi eterna, che non è bastata ai sindacati italiani a comprendere che l’unità non è fatta di sole parole, interessi di categorie e calcoli aritmetici, ma di un impegno morale e politico per se e per gli altri al di là delle differenze, per lo sviluppo di una società comune. Un’unità che non è omologazione, ma che nasce dalla diversità. Ettore Scola intervenendo l’ha ricordato, se il pensiero rimane uguale a se stesso, allora si è persa di vista la realtà, il suo fluire. Vittorio Foa aveva realtà e futuro davanti a sé.
    Quando le luci si sono accese, lasciando gli spettatori con Vittorio davanti alle sue montagne, tutti avrebbero voluto continuare la cena con lui, sentirsi rivolgere una domanda personale ed attenta, interrogarsi sul futuro.
    Potrebbe esserci un dolce a sorpresa, perché non diffondere il documentario nelle scuole, da dove il futuro dovrebbe partire?
    (Maria Alisia Poggio)


    http://tv.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/per-esempio-vittorio-ricordando-foa-uno-dei-padri-della-sinistra/53236?video

  • OLI 270: EVENTI – Incontro con il Nobel Shirin Ebadi

    Giovedi 22 luglio 2010, ore 15.00, presso la Sala di rappresentanza della Regione Liguria in Piazza De Ferrari, si terrà un incontro pubblico con il premio Nobel Shirin Ebadi  dal titolo “Iran, Genova: pace e diritti globali, una sfida per il futuro”.
    L’incontro è organizzato dal Centro delle Culture di Genova e altre associazioni genovesi. Coordinatrice del dibattito, Mariam Molavi, della Comunità iraniana genovese.

    L’evento è all’interno della Settimana dei diritti a Genova (http://www.genovaurbanlab.it/spip.php?article1023).
  • OLI 269: CULTURA – Antifemminismo in rete

    Certo è passato molto tempo dal primo atto separatista, con il quale nel 1967 negli Stati Uniti  le studentesse presenti alla conferenza nazionale della “Associazione studentesca per la società democratica” decisero di abbandonare il congresso e di riunirsi separatamente per discutere della questione “donna”.
    Eppure il quasi mezzo secolo che ci separa da quello che può essere considerato l’inizio della storia politica del femminismo non è nulla rispetto alla distanza culturale che si è generata.
    Basta un giro sui social network per capire come il termine femminismo oggi si sia svuotato di qualsiasi componente politica ed abbia perso significato per divenire spesso una etichetta da appiccicare ad eventi di cronaca e strumentalizzarli. Al contrario, l’antifemminismo è vitale e rigoglioso; se ne possono seguire le tracce attraverso una breve ricerca su Facebook.
    Un gruppo si intitola “Il Nazi-Femminismo sia processato per crimini contro l’umanità a Norimberga!” e si presenta come voce di denuncia “in un mondo che non ha ancora dimenticato il nazifascismo è importante preservare la memoria e proteggere la società da tutte le possibili tentazioni di follia e dominio di un essere umano sull’altro” (2171 iscritti). Un altro “Il femminismo è una pratica anticostituzionale” (1156 iscritti), si appella agli articoli 3 e 29 della Costituzione italiana, che sarebbero infranti, nella tesi degli anonimi curatori, dai principi del femminismo.
    Vi sono altri gruppi, come “Bigenitorialità e autodeterminazione sono inconciliabili per il femminismo” (1427 iscritti)  o “Femminismo + separazioni = maschicidio! 2000 papà suicidi ogni anno in UE!” (2446 iscritti) che legano strettamente il femminismo al regime di affidamento dei figli in caso di separazione, ed al mancato riconoscimento del ruolo paterno nell’educazione di essi. La genitorialità sembra essere, dagli interventi leggibili nei gruppi, il territorio dove il conflitto uomo-donna è più acceso. Tanto che l’argomento permea quasi totalmente tutte le pagine antifemministe reperite nella ricerca.
    Un altro gruppo, che si chiama insospettabilmente “Donne e Femminismo” (2419 iscritti), come gli altri senza amministratori, segue la falsariga dei precedenti, proponendosi di combattere i casi di misandria, denunciando gli effetti del “diritto sessuato”, ossia di squilibri della legge a discapito degli uomini che favoriscono le donne, citando a sostegno delle proprie tesi perfino i casi di infanticidio. Altra pagina insospettabile “Pari Opportunità”, riporta i medesimi link delle pagine precedenti e lo stesso livore antifemminista.
    L’omogeneità dei contenuti farebbe pensare che tutti i gruppi menzionati facciano capo alla stessa persona o allo stesso gruppo di persone, gli iscritti sono tuttavia migliaia, uomini e donne. L’antifemminismo sul social network sembra di moda, più di quanto non lo siano, di questi tempi, i diritti delle donne.
    (Eleana Marullo)
  • OLI 265: CULTURA – Pahor, un paradiso di amicizia

    Mercoledì 9 giugno, Palazzo Ducale, sala del Minor Consiglio, Boris Pahor è acquattato muto tra i due presentatori. A lungo annuisce senza intervenire. C’è una pazienza atavica nel suo ascoltare ed anche lui sembra sapere, insieme ai lettori in sala, che questo è il dazio che paga ad esser presentato. Dazio di gratitudine, perché contestualizzazione storica, sintesi della vita dell’autore, desiderio di tenere insieme bilinguismo, persecuzione della minoranza slovena e guerra richiedono passione, tempo e ascolto.

    Quando prende la parola si scopre che Boris Pahor, prima che scrittore, è sloveno. Un bambino sloveno nella Trieste del 1920. La sua minoranza è costretta al silenzio. Non può parlare nella propria lingua. Cancellata l’identità, italianizzati i nomi, costretti i ragazzi in classi esclusivamente italiane. Il razzismo fascista, dice l’autore, si esprime per bocca del fratello di Mussolini: “non c’hanno né lingua, né nazionalità sono come le cimici”. Seicentomila persone, incluisi sloveni e croati dell’Istria devono sparire. Non come gli ebrei, spiega Pahor, ma diventando italiani.
    “Nelle nuove classi ti ridono e ti deridono”. E’ la storia di una schiavitù linguistica e intellettuale. “Non ero solo Boris Pahor, ma la mia generazione. Come farò a diventare italiano per forza? Mi chiedevo. Vengo mandato in seminario. Non sapevo cosa fare di me stesso.”
    In seminario Pahor scopre la volontà di essere fedele alla propria lingua, rimanendo “italiano nella parte esterna”. Poi la guerra. Il diploma classico preso da soldato a Bengasi. Il ritorno in patria e l’8 settembre, il rifiuto di presentarsi e la denuncia. Poi il campo di concentramento Natzweiler-Struthof tra i monti Vosgi, di cui scrive in Necropoli.
    “Sono tornato al campo per il bisogno di poter condividere quello che noi si sperava. Che il mondo, dopo, sarebbe stato un paradiso di amicizia. Ma poi abbiamo avuto le bombe atomiche, il Vitenam, Pol Pot, Sarajevo. Questo campo per me era una cosa terribile. Ero lì per la libertà e la democrazia”.
    A sentirlo parlare si tocca con mano la determinazione a testimoniare e un’energia, a volte ironica, insieme allo stupore che le cose nel mondo non siano andate esattamente come loro speravano. Storia passata ed eventi recenti si intrecciano. A Pahor non scappa nulla. Foibe, comunismo, Tito, Israele, sono osservati da una distanza, novantasette anni, che permette uno sguardo lungo. Anche spietato.
    Per i tedeschi, spiega Pahor, quello che hanno fatto è entrato nella loro coscienza nazionale. In Italia no. Per questo in Germania Necropoli è stato premiato, “lo è stato perché non ha maledetto i tedeschi, ma ha condannato quella parte disgraziata che è stata con Hitler”. Anche la scuola ha le sue colpe: “E’ sempre l’istruzione primaria quella che crea l’uomo, o lo distrugge. O lo crea per il bene. O lo crea per il male”.
    “Presto o tardi” scrive in Necropoli, “lo dovremo trovare un nuovo Collodi che racconti ai bambini la storia del nostro passato. Ma chi sarà in grado di avvicinarsi al cuore infantile senza ferirlo con lo spettacolo del male, e mettendolo al tempo stesso al riparo dai pericoli e dalle tentazioni del futuro?”