Categoria: Angelo Guarnieri

  • OLI273: REGIONE – Uomini e uccelli

    L’art. 1 della legge 157 del 1992 recita: “La fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato ed è tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale”, ma la Regione Liguria, relativamente al significato del termine “indisponibile”, deve avere delle vedute piuttosto elastiche. Infatti, unica regione d’Italia, ha approvato una legge che consente ai cacciatori di sparare fino a mezz’ora dopo il tramonto, con 25 consiglieri a favore, 5 contrari e molte assenze variamente motivate.
    La legge approvata ha il singolare pregio di mettere (quasi) tutti d’accordo: infatti è stata votata da Lega Nord, Partito Democratico – guidato dal cacciatore Ferrando, UDC, “Noi con Burlando” e dalla signora Fusco dell’IDV. Contro, solo la Federazione della Sinistra e i consiglieri Scialfa, Quaini e Piredda dell’IDV. Altri consiglieri (Rossi, Siri e Pellerano) si sono allontanati dall’aula, appellandosi alla illegittimità del provvedimento.
    Questo provedimento si propone di modificare la legge regionale del 1994 che fissava al tramonto il limite agli spari, in accordo con la legge quadro nazionale 157.
    Ricordiamo che un precedente tentativo di modificare la legge regionale, portato avanti sempre dalla Regione Liguria, presidenza Biasotti, era stato respinto, perché in contrasto con essa.
    Inoltre, in questa storia, interviene anche un profilo costituzionale, cioè quello che afferma l’esigenza di uno ‘standard’ di tutela uniforme sull’intero territorio nazionale, mentre “a livello regionale eventuali deroghe agli standard minimi di tutela fissati nella legislazione statale, sono consentite soltanto per la salvaguardia degli interessi generali” (vedi sentenza 226/2003 della Corte Costituzionale, in merito ad una legge venatoria della Regione Puglia).
    Provvedimento di dubbia validità, quindi, oltre che fraudolento nel rapporto fra uomo, cacciatore con armi e uccelli, colti in un momento di debolezza, quando cercano rifugio e riposo al termine di una giornata trascorsa a procurarsi il cibo e ad arricchire i nostri cieli e il nostro mondo.
    Chi ha votato contro il provvedimento ha sostenuto che esso aumenta i pericoli anche per i cacciatori, anch’essi sottoposti alle leggi della fatica, della diminuzione della vista con il buio e dello stress da bisogno di successo (spesso frustrato). E ha ragione.
    E’ molto probabile che questo provvedimento non abbia futuro. E questo ci auguriamo mossi anche da quel sentimento di pietas per il creato la cui assenza sta inaridendo il nostro vivere. E poi se gli uccelli non votano, e questo sicuramente impoverisce la nostra democrazia, i cacciatori non son più quella grande lobby di una volta, passati come sono in Liguria dai 70mila degli anni ’80 del secolo scorso ai 20mila di oggi.
    Però guardiamo il cielo, perché anche gli uccelli si incazzano! E circola voce che potrebbero decidere di cambiare regione, se non stato, anche quelli non cacciabili, per solidarietà di specie, e perché dopo il tramonto si fidano ancora meno della capacità di discernere dei cacciatori.
    (Angelo Guarnieri)

  • OLI 265: CITTA’ – Giugno, dei mesi il più poetico

    Genova, Palazzo Ducale 13 giugno – Festival della Poesia “Il congedo cerimonioso – vita di Giorgio Caproni” foto di Ivo Ruello.

    Un grande fermento poetico pervade Genova e la provincia in queste settimane.
    E’ in corso dal 10 giugno e terminerà il 21 il sedicesimo Festival Internazionale della poesia, con la presenza di “parole spalancate” e sottili da tutto il mondo.
    Da venerdì 11 si sono accese le “voci del Suq” all’interno del dodicesimo Festival delle culture con la loro promessa poetica che attraversa il ribollire di iniziative di teatro, danza, musica, incontri, mercato, cucina. Spanderanno la loro luce fino al 24 giugno e si spegneranno, mostrando la loro natura abbagliante ma provvisoria, perché a Genova il Suq c’è, disseminato e visibile a chi lo vuol vedere, ogni giorno, già da tempo.
    Contemporaneamente l’assessorato alla cultura della Provincia di Genova ha proposto per il mese di giugno la terza edizione a Palazzo Doria Spinola di “Musica e poesie”, che già nel titolo, Sei corde sotto le stelle, posto a guida dei quattro concerti prestigiosi e di alto livello, presenta una carica poetica veramente attraente e invitante.
    Non c’è che dire: un grande fermento, una grande animazione. Per le strade del centro nobile di Genova, per i grandi palazzi dell’anima storica e commerciale della città, per i celebrati Rolli aperti al pubblico anche di notte, per il Ducale che ogni sera intreccia le ombre dei suoi muri e dei suoi colonnati con i poeti del mondo e per il ritrovato Porto Antico, impreziosito dal genio di Renzo Piano che ogni giorno affida al mare e ai suoi venti l’incontrastabile bisogno di incontro fra i popoli.
    E la sera dell’11 giugno, notte della poesia, con il formicolare per il centro storico e nobile della città di poeti, giovani, famiglie, artisti di ogni genere è stato un bell’esempio di circolazione di cultura, di voglia di stare insieme, di buona organizzazione, di atmosfera gioiosa. Senza la buia opacità della notte metropolitana, la paura attanagliante, la sottile angoscia che l’incontro con l’altro potesse in ogni istante attentare alle tue fragilità, nascoste o manifeste.
    Potenza della poesia, della parola libera e giusta, del confronto con le emozioni più autentiche e con la visionarietà umana del passato e del presente.
    E nel frattempo ad Arenzano, in provincia, giunge al traguardo, il 19 giugno all’arrivo della notte, il premio nazionale intitolato a Lucia Morpurgo Rodocanache. Due giorni prima del solstizio d’estate, un’anticipazione della massima estensione della luce, di cui la poesia è sorella e materia.
    Un premio di poesia in cerca di lettori. Questa la formula che si è voluto dare, perché poco si legge la poesia e poco ci si nutre di essa. Il premio di Arenzano giunge a conclusione dopo un anno di lavoro creativo e gratuito.
    Dopo aver colloquiato con Giorgio Caproni che ad Arenzano ha insegnato ed Alda Merini che ad Arenzano ha soggiornato, il momento di maggior significato poetico è stato il lavoro con i ragazzi delle scuole primarie. In undici classi delle scuole elementari e in cinque delle scuole medie sono stati fatti, per alcuni mesi dell’anno, laboratori di scrittura e di avvicinamento alla poesia. Duecentosettantaquattro poesie sono state prodotte e quindici premiate con il contributo attivo dell’Unicef. Tra i premiati un vincitore ucraino e uno ecuadoriano.
    Come si vede un mese di giugno di energia creativa. Una grande semina. Servirà per creare comunità e perché la poesia sia fermento di essa, o per continuare a coltivare orticelli “conclusi” e fine a se stessi? 
    (Angelo Guarnieri)


    <– Torna al sommario

  • OLI 264: LETTERE – La banalità del normale

    Alcune domeniche fa ho assistito a un concerto di musiche ebraiche in un Santuario della Provincia di Genova. Cantavano i cori della sinagoga di una delle più grandi comunità ebraiche d’Italia e quello di una nota e gloriosa città israeliana.

    La serata era cominciata all’insegna della più consueta normalità. Gruppi di cittadini ebraici che si incontrano e si salutano; persone gentili e sorridenti venute da lontano che si fotografano, o si danno da fare per posizionare al meglio telecamere portatili e registratori; famiglie venute anche da fuori per incontrare parenti e connazionali; qualche giovanotto ben curato e robusto che può far pensare, ma solo per un attimo, a qualche forma di protezione.

    E poi il solito ristretto gruppo di abitanti della cittadina ospitante, intervenuti per sentire musica che è difficile normalmente ascoltare, per curiosità, o semplicemente per passare la serata.

    Non capita spesso che musica ebraica venga ospitata da un santuario cristiano e quindi il concerto acquistava quasi un valore particolare. Scambi di doni tra assessori e rappresentanti del coro e della città Israeliana, sorrisi, cortesia, qualche imbarazzo per l’assenza del Sindaco, ma nessuna parola politica, nessun accenno, neanche sotto traccia, al bisogno di pace e di convivenza fra due popoli in due stati, pure portata avanti da sempre dalla maggioranza di centro-sinistra che governa il Comune ospitante. Forse è giusto così, che i concerti e l’ospitalità si svolgano in un’atmosfera di sopore, di condivisa ipocrisia di superficie. Ma forse è la cosa peggiore! Infatti l’ostentazione nazionalistica ha fatto irruzione col coro della comunità ebraica italiana che portava al collo la bandiera ebraica, cemento di identità contrapposto all’altro diverso da te, e durante il canto del coro della città israeliana una voce chiara e schietta ha scandito il tragico slogan: morte ai Palestinesi! Nessuno ha protestato, nessuno ha avuto da ridire, anzi non era possibile dire niente. L’abisso affiorato dalla normalità di una serata di concerto costringeva al silenzio e, in un certo modo, rinfrancava chi da quelle parole si sentiva rappresentato. E così l’abisso si è subito richiuso. Mi ha preso un’inquietudine angosciata e me ne sono andato.

    Poi c’è stata la prima nave per Gaza con i suoi morti, la seconda che ha portato nei pressi di Gaza aiuti umani e materiali nel nome di Raquel Corrie. E poi l’O.N.U. e le sue condanne del governo di Israele e il Papa con le sue preghiere. E le inchieste che non si faranno mai.

    Ma anche il corale appoggio ai pacifisti e alle politiche di pace, le dichiarazioni di Amos Oz, che, rompendo finalmente l’omertà e l’ambiguità, reclama confini certi per il popolo Palestinese (quelli anteriori alla Guerra del 1967) il riconoscimento dello Stato di Palestina in Cisgiordania, l’apertura di trattative con Hamas per Gaza, Gerusalemme est capitale della futura nazione Palestinese unificata.

    E poi Noa, la cantante bravissima e bellissima, che vergognandosi del suo governo e chiedendone le dimissioni, ha proposto a tutto il mondo dell’arte che si faccia promotore di pace e di sostegno alla causa della convivenza di due popoli in due stati.

    Parole forti, parole dense. Vedremo quanto passerà perché vengano risucchiate dalla banalità del normale.

    (Angelo Guarnieri)


    <– TORNA AL SOMMARIO

  • OLI 263: GAZA – Questa volta ha vinto Golia?

    Questa volta ha vinto Golia. E Golia, contraddicendo il mito fondativo e il libro dei libri, ha preso le sembianze del governo e del potentissimo esercito israeliano.
    Davide erano i 700 pacifisti, partiti dalla Turchia con un naviglio di 7 navi, arrivati da 50 nazioni, portatori di storia, sentimenti e culture diverse, intenzionati decisamente e sospinti da motivazioni profonde a portare un non più differibile soccorso alle donne, agli uomini e ai bambini di Gaza, rinchiusi da mesi dalla prepotenza di Golia in un lager senza possibilità di scambi con l’esterno e ormai incapaci di reggersi in piedi. Insomma Davide era la freedom flotilla.
    Anche questa volta aveva le fionde. Le abbiamo viste tutti, ben inquadrate e diffuse al mondo dalle telecamere dell’esercito israeliano. Ma cosa potevano contro un gigante armato in ogni parte del corpo, coperto in ogni frammento di pelle, con il capo fasciato come un mostro inconoscibile, senza occhi da poter guardare e dotati di raggi accecanti che sfregiavano l’alba, rendendola ancora più tragica?
    Un gigante incattivito dalla sua stessa prepotenza, dai 1500 morti lasciati sul terreno a Gaza, dai 350 bambini recisi come fiori di campo, dai lutti e dalle sofferenze che ha continuato a generare dopo, lasciando il nemico a penare e marcire nel suo stesso dolore e nella sua stessa sete di vendetta. E si sa, il gigante lo sa, che la vittoria e il male che comporta può anche darti una certa euforia, ma alla lunga ti consuma, ti attrae nell’abisso che tu stesso hai scoperchiato.
    Il gigante ha colpito, ha sparato con precisione, come gli allenati sanno fare, ma anche con una certa incauta frenesia, come fanno gli impauriti, anche da sé stessi. Almeno nove vite umane sono rimaste sul campo, anzi sul ponte sopra il mare.
    Silenzio e censura su tutte le operazioni. Sei ore di silenzio e buco informativo; una strana umiliazione per una delle più potenti reti informative del mondo: quella dell’esercito israeliano e dei media israeliani. Non sapevano cosa dire, dovevano ricostruire, preparare verità adulterate. Oppure provavano vergogna, imbarazzo paura per le conseguenze che ci sarebbero state.
    Come i cittadini di Israele e gli Ebrei del mondo, orgogliosi in gran parte per le gesta del loro governo, ma in parte sempre più in difficoltà per le sofferenze che stanno infliggendo al popolo palestinese, al sentimento della pace e alla necessità della convivenza.
    Condanna, riprovazione, richiesta di verità da parte di tutto il mondo. Immediate mobilitazioni dei pacifisti ovunque a tutela della pace e della verità. A chiedere ancora condanna della violenza e che, nonostante tutto, due popoli e due stati possano convivere in parità di diritti e doveri, senza muri e senza ingiustizie, senza eletti e senza sottomessi.
    Poi lunghissima riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che, fra retorica e burocrazia e qualche sacrosanto furore, si è concluso con una risoluzione di condanna che reclama un’inchiesta per chiarire fatti e responsabilità.
    A tutt’ora non si è capito se l’inchiesta sarà neutrale, come ragione vorrebbe, o se sarà affidata ai generali israeliani, magari accompagnati da qualche ministro anche straniero!
    Intanto il megafono mediatico per banalizzare e sterilizzare quanto è accaduto è già in funzione.
    (Angelo Guarnieri)
  • OLI 262: CULTURA – Per Edoardo Sanguineti

    Vivendo per capire 
    Vivendo per capire perchè vivo,
    scrivo anche per capire perchè scrivo:
    e vivo per capire perchè scrivo
    e scrivo per capire perchè vivo.

    (Edoardo Sanguineti)
    Non ha scelto un buon momento per morire Edoardo Sanguineti. Poteva aspettare ancora un po’. Poteva aspettarci ancora un po’. Non scaricarci addosso in modo cosi improvviso e ammutolente lo spegnimento della sua voce e della luce mobile e penetrante dei suoi occhi.
    Troppo freddo è stato questo lungo inverno. E troppo duro. Cominciavano appena a prevalere i raggi di sole e le giornate cominciavano a tingersi di colori e tepori primaverili.
    Non doveva Edoardo, che al calore umano teneva moltissimo, con la sua morte e con il suo scomparire alle nostre viste, aggiungere una ventata di gelo, al gelo già accumulato sulla nostra pelle e nelle nostre persone.
    Anche nella storia c’è freddo, come diceva Caproni – non troviamo tracce per sapere se amato o no – e nella società, per le strade della città e nella cronaca. E la parola di Sanguineti era sempre calda, fino all’incandescenza a volte. Di calore autentico, con la sua faccia ben esposta, sia che si esprimesse in poesia, sia che si manifestasse in teatro, in saggi, in conferenze, in interventi sui giornali, o in commenti musicali. Aveva la forza della poesia. E non temeva il paradosso, la rottura, le capriole linguistiche, il giuoco. Non temeva polemos che sapeva essere figlio degli dei.
    Ed era parola colta, molto colta e saggia, profondamente saggia. Capace di suscitare il pensiero sempre, sia che comunicasse ad una platea di allievi, sia che si liberasse in una piazza per invitare a non far retrocedere la linea della dignità e dell’umanità, sia che si esprimesse in una dimensione più intima dove contano la dolcezza delle relazioni umane e scorre l’acqua dell’amicizia e dell’amore.
    Ed era parola allenata al pensiero critico e alla potenza delle idee, che alla critica richiamava sempre per capire, per non fermarsi alla omologante superficie di ciò che appare, alla seduzione scriteriata, alla finzione ”buonista” e consolatoria. In questo senso era essenza della politica, dell’impegno politico, che quando necessità chiamava non si tirava indietro, ci metteva corpo e carne.
    “Politico prestato alla poesia” diceva Sanguineti di sé stesso, facendoci intendere, e questo crediamo essere il suo significato più profondo, come politica e poesia siano intrecciate inscindibilmente e come non si dia buona politica senza buona poesia.
    E “chierico rosso”, rispondendo a Montale, che trova nella materialità della condizione degli operai dell’Italsider e delle loro assemblee, le fonti della materialità poetica della sua scrittura. Parola quindi che si distende fra “l’utile e il bello per arrivare al vero”, secondo la sintesi di Goethe.
    Ma parola anche che non cela le ombre profonde dell’infelicità, del dolore vissuto e non taciuto, della fragilità che la ragione mai può neutralizzare, e che, se le condizioni lo consentono, con pudore e discrezione possono sciogliersi in lacrime, ricordando il padre o leggendo una poesia per l’amico Berio, appena deceduto.
    Ora che Sanguineti è morto siamo tutti più poveri, anche coloro che con lui non erano d’accordo; Genova è più povera, senza uno dei suoi figli più amati, l’Italia e il mondo sono più poveri, senza questo ambasciatore della cultura, senza questo “chierico” della dignità e dell’uguaglianza di tutti, senza questo difensore delle “casematte” della democrazie, secondo il suo amato Gramsci, “e che adesso, che potrei dire tutto, proprio, non essendo più vivo davvero, non ho più niente da dire, ecco” (Postkarten, 1977).
    Questo aveva scritto nel 1977 e ci aveva dato l’illusione che già morto non potesse più morire oppure, ed è la stessa cosa, potesse sempre risorgere e continuare a parlare.
    Ora ci parleranno solo i ricordi e le opere. Per sempre.
    La sua morte è stata circondata da un profondo alone di rispetto e di amore.
    Bene ha fatto il Comune di Genova a destinargli come ultima dimora il Pantheon dei suoi migliori figli, dove certamente prenderà posto “dalla parte del torto”, come direbbe il suo Brecht, accanto a quel Bisagno partigiano, che ha sacrificato la vita per la liberazione dai fascisti e dai nazisti.
    E per quella Costituzione Repubblicana che senza timore e pavidità Sanguineti ha sempre difeso.
    (Angelo Guarnieri)


    <- TORNA AL SOMMARIO