Van Gogh al Ducale: uno dei business “culturali” più riusciti della stagione. Indugiavo ad andarvi, memore di passate esperienze, e anche stavolta sconforto e rabbia hanno avuto il sopravvento, come già l’anno passato per Mediterranea. Stesso curatore, stesso stile. Mai vista mostra più sconclusionata e brutta di questa, né una simile accozzaglia di argomentazioni retoriche e pretestuose per giustificarla. È chiaro che non sono in discussione le opere in sé: nella mostra del Ducale sono concentrati capolavori di bellezza e importanza unica. Peccato che non si afferri il criterio della scelta e il suo scopo, per quanto il tema del viaggio, pur nella sua genericità, vorrebbe essere il filo conduttore della loro presenza qui. Non si poteva, più onestamente, dire: “Abbiamo la fortuna di poter avere in prestito queste opere. Pensiamo di proporvele, magari con un piccolo corredo di notizie, giusto per collocarle un po’ nella storia dell’arte”? Invece, con rara supponenza, limitata fantasia e abbondanti salti mortali, si è preteso di inventare un “percorso”, entro cui costringere artisti, epoche, tematiche e stili che fra loro mai e poi mai potrebbero parlarsi e che in chi non bazzica le cose dell’arte può solo generare confusione.
Qualcuno dovrebbe spiegare cosa c’entra, per esempio, Nicolas de Staël (di cui l’unica tela presente richiederebbe uno spazio di cinque e non di due metri per essere non dico “goduta” ma guardata) con Caspar David Friedrich (di cm 30 x 25 e una stanza tutta per sé). E cosa avrebbero da dirsi Kandinsky e Hopper o Rothko e Gauguin, magari passando per Turner (4 opere in mostra). E come è possibile affermare enfaticamente, in riferimento all’unico Gauguin (peraltro preziosissimo) presente, che «senza questo quadro la mostra non si sarebbe potuta fare e che con quest’unico quadro tutta la mostra si potrebbe fare». C’è di che risentirsi, se calati nei panni degli altri artisti esposti, e c’è di che rammaricarsi di non aver fatto davvero una mostra con un unico quadro. Perché no? Si sarebbe potuto. Naturalmente con i mille collegamenti e con tutti gli apparati critici del caso, al posto di quelle sbobbe graficamente illeggibili e stomachevoli nei contenuti: torrenti di parole che non spiegano nulla ma hanno la prerogativa di creare inutili ingorghi e affollamenti nel flusso di folla plaudente.
Per non parlare delle cadute di gusto, tipo il plastico con la riproduzione delle proprietà di Monet e lui in persona sotto l’ombrellone, intento a dipingere, indovinate cosa? Le ninfee! E che dire della stanzuccia di Van Gogh in grandezza naturale come primo impatto all’ingresso? Due rimandi al mondo concreto dei pittori – il letto di Van Gogh e i laghetti di Monet – che in una mostra organizzata diversamente, ad esempio per coinvolgere bambini e magari anche qualche adulto che li accompagna, sarebbero divertenti e anche stimolanti. Qui sono solo cafoni.
Potrei continuare, ma mi limiterò a un’unica domanda, che non rivolgo al curatore, il quale fa il suo mestiere come lo sa fare e secondo coscienza (la sua), ma ai responsabili delle scelte culturali cittadine, agli “esperti”, agli amministratori, a coloro che hanno una qualche voce in capitolo: capisco il business e capisco che una mostra come questa debba “rendere”, ma dove sta scritto che non si possa fare una bella mostra e redditizia senza per questo fare un insulto alla cultura?
(Antonella Mancini)
Categoria: MOSTRE
-
OLI 340: MOSTRE – Cultura o business?
-
OLI 305: MOSTRE – Esperienza Italia: ma come è possibile?
Una si chiede: ma come è possibile?
Cioè, come è possibile che una mostra del livello e delle dimensioni di “Fare gli italiani. 150 anni di storia nazionale” (http://www.bitculturali.it/online/?p=20901 ) – allestita per le iniziative di “Esperienza Italia” alle Officine Grandi Riparazioni di Torino – salti a piè pari il modo con cui si è compiuto in Italia uno degli snodi cruciali della storia delle moderne nazioni occidentali?
Il passaggio delle donne da persone senza diritti e senza personalità giuridica a cittadine e lavoratrici con pari diritti, le fasi di questo percorso attraverso le grandi vicende storiche nazionali, come il cammino delle donne sia stato condizionato ed abbia condizionato l’evoluzione culturale, sociale, economica e politica del nostro paese, mi sono parsi completamente invisibili.
Si tratta di una omissione gigante che toglie valore a una mostra per altri versi curatissima, interessante e suggestiva.
Volendo motivare quanto sopra, si può girare a piacimento il coltello nella piaga, a partire dal
Personaggi del risorgimento all’ingresso della mostra – Foto P.P. silenzio dei busti femminili delle donne del risorgimento nella sala iniziale: in un quarto d’ora di ascolto ho sentito parlare, a turno, solo le statue maschili.
Si scorrono i primi anni del novecento senza che emerga il movimento e il dibattito sul suffragio femminile nei primi anni del ‘900, e il ruolo di intellettuali come Anna Maria Mozzoni ed Anna Kuliscioff. Non vediamo riferimenti alle prime legislazioni sociali e al loro muoversi sull’ambiguo crinale tra protezione e conferma di uno stato di minorità.
Idem per le lotte di mondine, cucitrici, filatrici, magliaie, tabaccaie, braccianti che “ispireranno e porteranno avanti il movimento femminile italiano” (*)
Donne in fabbrica durante la prima guerra mondiale Una vasta sezione dedicata alla prima guerra mondiale che ignora totalmente l’ingresso di massa delle donne nella industria meccanica (duecentomila tra il 1915 e il 1918), e l’influenza che ebbe non solo sulla coscienza di sé e del proprio ruolo economico, sociale e politico, ma anche sull’ergonomia e l’organizzazione del lavoro delle fabbriche (**)
Ampio capitolo sul fascismo in cui nulla viene detto sulla legislazione, l’iconografia e la cultura che in quegli anni ridefinirono l’immagine e il ruolo sociale e familiare della donna, con conseguenze profonde sull’Italia post bellica, fino all’oggi. (***)
Nessuna traccia del D.L. 2 febbraio 1945 n. 23 che estese alle donne il diritto di voto, esercitato per la prima volta alle elezioni amministrative dell’aprile 1946.
Per il resto le telegrafiche citazioni ad aborto, divorzio, riforma del diritto di famiglia annegano in un mare di “smemoria”: invisibili la conquista della parità salariale nei primi anni ’60, l’istituzione degli asili nido quali “servizio sociale di interesse pubblico” del 1971, i consultori familiari nel 1975, la legge di parità del 1977, quella sulle pari opportunità del 1991 … (****)
Meno male: le annunciatrici televisive ci sono – Foto P.P. Ciliegina sulla torta: l’unico grande pannello dedicato ad immagini di donne riguarda (indovinate un po’?) le annunciatrici televisive.
In sintesi, manca totalmente il senso di una delle trasformazioni epocali di questi 150 anni di storia nazionale, il cui evolversi sarà determinante per decidere se avremo ancora un ruolo nelle società avanzate. A lungo andare distrazione e maschilismo portano più banalmente alla incompetenza.
Una delle stazioni di Ochestoria! – Foto Ivo Ruello Per i curatori della mostra:
Gioco consigliato “Ochestoria!” (vedi il sito: http://www.generazioni-di-donne.it/)
Letture consigliate:
(*) Breve storia del movimento femminile in Italia, Camilla Ravera – Editori Riuniti 1978
(**) 8 marzo 2005 – Donna, salute e storia, Sportello Sicurezza Cgil di Genova
http://www.olinews.it/blogger/donnasalutestoria.pdf
(***) Le donne nel regime fascista, Victoria De Grazia – Marsilio 1993
(****) Date che ci riguardano, a cura del gruppo “Generazioni di donne”
(http://www.generazioni-di-donne.it/Ochestoria/Cronologieleggieventi13marzo.pdf )
(Paola Pierantoni) -
OLI 298: MOSTRE – Mafalda al Ducale
Mafalda sono io.
O meglio, così mi sono sentita venerdì 15 aprile dopo aver fatto un salto a Palazzo Ducale.
Consapevole che la mostra Mediterraneo era prossima alla chiusura, ho deciso – per evitare le code del week end – di munirmi per tempo dei biglietti.
Al bookshop di Palazzo Ducale vengo informata che loro non gestiscono la mostra e sono indirizzata al piano superiore. Lì mi comunicano che se desidero prenotarmi per i giorni successi devo telefonare al numero 0422 429999 – disattivo sabato e domenica – o prenotare sul sito htpp://www.lineadombra.it, pagando con carta di credito.
Viene tassativamente esclusa la possibilità di prenotarsi e comprare il biglietto seduta stante.
Uscendo dalla biglietteria scorgo Luca Borzani, presidente di Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura. Lo avvicino con piglio determinato chiedendogli ragione di tale follia.
Io sono qui ed ora. Perché non posso prenotarmi e pagare adesso?
Questa è la regola. Mi risponde lui. Regola ampiamente condivisa da molte organizzazioni di mostre in Italia.
Ma i vecchi? Come fanno gli anziani?
I vecchi, mi sento rispondere, vengono alla mostra senza alcuna difficoltà.Ma anche se la regola è condivisa, non è detto che sia saggia. E mi viene in mente il lampionaio del Piccolo Principe che, in base alla consegna, spogliatosi del suo senso critico, si ritrova ad accendere e spegnere il lampione, anche se il moto del suo pianeta è follemente accelerato.
A me non va giù. E mi sento come Mafalda. Sgarrupata e inutile nel mio insistere.
Ma Luca Borzani è paziente. E mi fa notare che questa mostra non mi costa nulla come contribuente, mentre mi ostino a voltarmi verso il cartellone tariffe, dicendo che invece mi costerà 10 euro. Ma lui mi ricorda che io, come contribuente, non pagherò nulla. E chiede se sono, o non sono consapevole del fatto che se vado a vedere l’Opera – a Genova il capitolo sarebbe bene non aprirlo – pago un biglietto che copre solo in parte gli oneri accessori dell’evento. Perché il resto lo pagano i contribuenti. Mi invita, infine, a visitare la mostra durante la settimana.
Borzani ha un distacco e una flemma che solo pochi… e il tono moderato e uniforme dovrebbe indurre a pacatezza anche il profugo tunisino. Se non fosse che ciò che dice mi pare lontano anni luce da quanto vorrei fosse detto da un politico così navigato.
Provo a formulare un’ipotesi del tutto personale:
“Signora, so che questa delle prenotazioni è una sciocchezza. E farò il possibile affinché in futuro questo non accada”.
Per Habemus Papam nessuna difficoltà ad acquistare il biglietto al botteghino il sabato per la domenica successiva. Ma quello è cinema.
(Giovanna Profumo) -
OLI 297: STORIA – Per non dimenticare Sarajevo
Foto di Giorgio Bergami ©Giovedì 14 aprile si apre a Genova, nel loggiato del cortile minore di Palazzo Ducale, una mostra fotografica (rimarrà fino a domenica 17, nell’ambito di La Storia in piazza) con il reportage che Giorgio Bergami effettuò nella capitale della Bosnia-Erzegovina e dintorni nei giorni 1 e 2 Gennaio del 1993, per conto dell’Arci su invito dell’Onu.
In 51 pannelli riemergono memorie di una guerra che è bene non dimenticare.
Nel cimitero militare, una accanto all’altra sotto la neve, croci e mezzelune, tombe cristiane e tombe musulmane.
A manifestazione conclusa, l’autore donerà tutto il materiale alla Vijećnica, la Biblioteca Nazionale e Universitaria di Sarajevo, che ha perso ogni documentazione sul drammatico periodo dell’assedio.Per il programma de La Storia in piazza
http://www.palazzoducale.genova.it/pdf/2011/storia_in_piazza.pdf(Ferdinando Bonora)
-
OLI 282: SOCIETA’ – Buon Compleanno, Italia Nostra!
La sezione genovese di Italia Nostra, nata nel 1960, compie 50 anni. Auguri!
Il compleanno è stato festeggiato sabato scorso alla Biblioteca Berio, in una gremita sala dei Chierici, con la partecipazione di Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale, e dei responsabili locale e regionale, Alberto Beniscelli e Roberto Cuneo. Giovanna Rotondi Terminiello, già soprintendente per i Beni artistici e storici della Liguria nonché figlia di quel Pasquale Rotondi cui la nazione deve molto per la salvezza dei propri capolavori durante la seconda Guerra mondiale, ha espresso grande stima e affetto in una dissertazione sul tema “I Beni culturali per l’Italia”.
La benemerita associazione aveva visto la luce a Roma nel 1955, creata da uomini di lettere, artisti, storici, critici d’arte, architetti e urbanisti che si unirono a difesa del patrimonio culturale e delle bellezze naturali sempre più minacciate, con un largo seguito di iscritti via via più numerosi. All’inizio fu una specifica azione per contrastare e sventare uno dei tanti scempi urbanistici nella Capitale, da cui prese il via un’attività di attento monitoraggio, conoscenza e salvaguardia che continua tuttora sull’intero territorio italiano.La stessa Biblioteca Berio ospita nella Sala lignea, fino a sabato 18 dicembre, un’esposizione di documenti, ritagli di giornali, manifesti, fotografie, pubblicazioni e altri materiali che testimoniano il mezzo secolo di attività di Italia Nostra in Liguria, tra battaglie vinte e sconfitte, ma in ogni caso producendo aumento di consapevolezza e partecipazione tra i cittadini.
Una mostra “povera”, visitabile ogni giorno dalle 15,30 alle 18,30, messa su grazie al volontariato e con pochi mezzi, senza effetti speciali ma non per questo meno degna di essere visitata di tante altre. In una ventina di bacheche è presentata una rassegna di argomenti che non riguardano solo gli addetti ai lavori ma toccano tutta la società.
Lo stesso ex Seminario arcivescovile, che oggi ospita la Berio, sarebbe stato distrutto e sostituito da un grattacielo ben più redditizio per la Curia che aveva intrapreso l’operazione, se Cesare Fera, Bruno Gabrielli e altri di Italia Nostra non si fossero messi in gioco investendo tempo, energie e competenze. Così per molte altre vicende, come ad esempio lo smisurato Cono di Portman che sarebbe dovuto sorgere al centro del porto antico ed è fortunatamente rimasto sulla carta, o il Palazzo dei Pagliacci a Sampierdarena, testimonianza di un bel liberty di primo Novecento destinata alla demolizione e invece salvata. Oppure, una decina d’anni fa, il mantenimento a liberi usi pubblici della Loggia di Banchi, in sinergia con altre associazioni coordinate nel Forum dei cittadini e delle associazioni del Centro storico.
Più in generale, non si oppongono solo dinieghi ma soprattutto si propongono alternative concrete e ben argomentate alle attuali prassi in tema di mobilità dei cittadini e delle merci, gestione dei rifiuti, arredo urbano e via dicendo.Di fronte a tanto impegno civile, monta però una certa amarezza considerando quanto sta accadendo negli ultimi anni, con la ripresa alla grande del saccheggio del territorio e degli sfregi a quanto ereditato da chi ci ha preceduto. Come se anni di lotte non fossero serviti a nulla. Anzi, rispetto a mezzo secolo fa la situazione è ancor più grave: se un tempo poteva esserci almeno la scusa dell’ignoranza, oggi la speculazione procede arrogantemente tra mistificazioni e manipolazioni della verità, con normative compiacenti e incurante della crescita culturale e delle sensibilità sviluppatesi grazie anche a Italia Nostra e ad altre analoghe realtà. Sarà opportuno che tutta la società non stia a guardare ma riprenda la battaglia, in prima linea al fianco di Italia Nostra.
(Ferdinando Bonora) -
OLI 280: CULTURA – Mercanti nel Tempio
Gran bella mostra, quella inaugurata venerdì scorso a Genova nell’Appartamento del Doge.
Mediterraneo. Da Courbet a Monet a Matisse allinea circa ottanta opere provenienti da una quarantina di musei e collezioni private, con capolavori di Courbet, Cézanne, Monet, Renoir, Van Gogh, Munch, Braque, Matisse e molti altri, in un viaggio appassionante attraverso i diversi modi di sentire e rappresentare la Francia mediterranea, dalla metà del Settecento fino ai primi decenni del Novecento, con un solo sconfinamento in Liguria nella Bordighera di Claude Monet.
Che non vi sia nulla di genovese poco importa. Anzi: si è finalmente superata quella trita concezione che per anni ha preteso eventi incentrati solo su realtà locali, come se Genova, prima ancora di essere dov’è e com’è, non appartenesse al mondo intero e come tale non potesse essere in grado di ospitare ciò che in varie parti del globo è stato prodotto nei secoli.
Per informazioni e approfondimenti si vedano le pagine dedicate all’evento (e alla splendida mostra collaterale di Piero Guccione: una vera scoperta) sull’elegante sito di Palazzo Ducale:Il tutto è stato curato da Marco Goldin, direttore di Linea d’ombra, la società da lui fondata nel 1996, con sede a Treviso. Una ben organizzata – e ben promossa – azienda che produce da anni mostre di successo – da Treviso a Brescia, da Torino a Rimini, da Passariano a San Marino e ora anche a Genova – con un abile marketing che attira folle di visitatori e rende i beni culturali risorsa innanzitutto economica.Goldin, ottimo affabulatore, ha illustrato nell’affollato salone del Maggior Consiglio cosa aspettava di lì a poco il pubblico, insistendo in particolare sull’ultima stanza che offre tre meraviglie di Monet, Van Gogh e Cézanne a colpire e emozionare.
Ma la visita in realtà non finisce lì: al termine del percorso espositivo si arriva come di consueto al breve angusto passaggio che immette nella cappella dogale, che si percorre sempre con la curiosità di scoprire come i responsabili dell’allestimento hanno trattato tale spazio straordinario: se lasciato sgombro a farsi ammirare nella sua sontuosità carica d’arte e di storia, o arricchito invece da altre opere che dialogano con esso in accordo o per contrasto.
Niente di tutto ciò! Per la prima volta (e si spera sia l’ultima) la cappella è diventata la bottega della mostra. Tutta ingombra di vetrine, scaffali e banconi dove si espongono e vendono libri, tazze, borse e altri gadget di Linea d’ombra, con gli affreschi di Giambattista Carlone e Giulio Benso seminascosti e la Madonna Regina, di Francesco Schiaffino, che fa capolino soffocata sullo sfondo. Nella parete d’ingresso, la scena con Cristoforo Colombo che cristianizza l’America è scomparsa, occultata dalla struttura cui è appeso il campionario delle riproduzioni in vendita. Al centro del vano troneggia un espositore, quasi un moderno badalone sul quale, invece di antifonari per il canto dei religiosi, son poggiate copie del catalogo da sfogliare per invogliarne l’acquisto.Un pugno nello stomaco. Un vero peccato che una positiva esperienza di visita debba concludersi per molti (anche se non per tutti: le sensibilità individuali variano da persona a persona) nello sconcerto e nell’irritazione.
Nulla da eccepire sulle attività commerciali a integrazione e contorno di eventi culturali, ma fa specie che chi fa professione di cultura – e chi dovrebbe presiedere e chi dovrebbe sovrintendere – non colga la barbarie di un liberismo sempre più spinto che consente di far tutto dappertutto nella massima naturalezza, quando vi sono invece posti che per i loro caratteri non lo consentono. La cappella del Ducale è uno di questi ed è davvero indecente organizzarvi un mercato che si potrebbe tenere altrove (nel senso etimologico del termine: in decens, non decente, che offende il decoro del luogo).
E sarà anche il caso, più in generale, di avviare una riflessione pubblica sull’ineluttabilità o meno degli attuali modi di fruizione di Palazzo Ducale a fini espositivi: in particolare, sul tamponamento “provvisorio” del loggiato che da ormai troppi anni ne preclude la godibilità e sulle invadenti pannellature che nascondono le ricche pareti dell’appartamento dogale, mortificandone la dignità.
Per ora rassegniamoci (e indigniamoci): fino a maggio, per contemplare la cappella non ci resta che la realtà virtuale…Illustrazioni tratte dal sito http://www.palazzoducale.genova.it
-
OLI 258: MOSTRE – Ragazze di fabbrica: considerazioni a margine
I dati a consuntivo parlano di un successo ottenuto a basso costo per le casse pubbliche: 3350 visitatori in 30 giorni di apertura, più di mille commenti lasciati sul libro della mostra, punte di presenze dalle 150 alle 200 persone nei giorni in cui sono stati organizzati eventi particolari. Il tutto per 20.000 €, spettacoli, animazioni, visite guidate e video inclusi.10.000 euro li ha messi la Fondazione Ducale per allestimento, vigilanza e promozione. Gli altri – utilizzati per la stampa del catalogo – vengono da Comune, Provincia, Regione, Coopsette e Cgil.Si è trattato, in effetti, di una conquista. La proposta di portare al Ducale la prima e la seconda parte della mostra Ragazze di Fabbrica, già allestite a Ponente rispettivamente nel 2005 e nel 2008, era stata avanzata l’anno scorso, e si è fatta strada attraverso ipotesi iniziali assai più minimaliste, come quella di una breve e parziale esposizione nel cortile del palazzo.La pazienza di attendere, e l’arte di stare nei confini di stanziamenti ridottissimi, ha creato una possibilità di incontro tra il progetto delle donne e le disponibilità / possibilità della Fondazione, e alla fine il percorso attraverso 150 anni di storia del lavoro delle donne del ponente industriale genovese è riuscito a trovare uno spazio espositivo adeguato.L’arte è consistita in una grandissima mole di lavoro da parte delle addette alle biblioteche, nella attività totalmente gratuita del gruppo “Generazioni di donne” (www.generazioni-di-donne.it) che ha realizzato la sezione “15 donne” della mostra e molti degli eventi che si sono svolti al Ducale, e nei contributi che sono arrivati sotto forma di attività (Centro Ligure di Storia Sociale), o di sostegno economico per la realizzazione degli eventi teatrali (lo SPI Cgil e sessanta singole persone che hanno contribuito ad una colletta).Quindi, più di tremila visitatori. Donne soprattutto, ma con una presenza maschile tutt’altro che trascurabile, che hanno avuto con la mostra un rapporto prevalentemente individuale: le uniche visite guidate sono state quelle delle scuole, perfino una materna, ma nessuna fabbrica o categoria sindacale.Visitatrici e visitatori con chi parleranno ora di quello che hanno visto o pensato? Il sindacato potrebbe essere un tramite di rapporto, e in effetti nell’ultimo giorno della mostra la CGIL ha organizzato un convegno di grande interesse, “Che genere di innovazione?”, con interventi di donne attive nei campi della ricerca e della produzione. Novanta le presenze: uomini, donne, esponenti di segreteria e di apparato sindacale.Ma dopo il breve intervallo dedicato allo spuntino, nel momento della reciprocità, quando c’era ascoltare le donne che avevano organizzato parte della mostra e degli eventi, le presenze sono evaporate. Nove di numero le/i superstiti.Tra di loro Susanna Camusso, oggi segretaria nazionale della Cgil che con alcune delle donne “della mostra” aveva condiviso l’esperienza dei Coordinamenti donne FLM degli anni ’70, e il segretario generale della CGIL Liguria che si è lasciato coinvolgere e commuovere. Presenze “importanti”, ma la barriera che divide il sindacato genovese da quello che si muove al di fuori dei suoi apparati e dei suoi schemi resta alta.(p.p.)


