OLI 340: MOSTRE – Cultura o business?

Van Gogh al Ducale: uno dei business “culturali” più riusciti della stagione. Indugiavo ad andarvi, memore di passate esperienze, e anche stavolta sconforto e rabbia hanno avuto il sopravvento, come già l’anno passato per Mediterranea. Stesso curatore, stesso stile. Mai vista mostra più sconclusionata e brutta di questa, né una simile accozzaglia di argomentazioni retoriche e pretestuose per giustificarla. È chiaro che non sono in discussione le opere in sé: nella mostra del Ducale sono concentrati capolavori di bellezza e importanza unica. Peccato che non si afferri il criterio della scelta e il suo scopo, per quanto il tema del viaggio, pur nella sua genericità, vorrebbe essere il filo conduttore della loro presenza qui. Non si poteva, più onestamente, dire: “Abbiamo la fortuna di poter avere in prestito queste opere. Pensiamo di proporvele, magari con un piccolo corredo di notizie, giusto per collocarle un po’ nella storia dell’arte”? Invece, con rara supponenza, limitata fantasia e abbondanti salti mortali, si è preteso di inventare un “percorso”, entro cui costringere artisti, epoche, tematiche e stili che fra loro mai e poi mai potrebbero parlarsi e che in chi non bazzica le cose dell’arte può solo generare confusione.
Qualcuno dovrebbe spiegare cosa c’entra, per esempio, Nicolas de Staël (di cui l’unica tela presente richiederebbe uno spazio di cinque e non di due metri per essere non dico “goduta” ma guardata) con Caspar David Friedrich (di cm 30 x 25 e una stanza tutta per sé). E cosa avrebbero da dirsi Kandinsky e Hopper o Rothko e Gauguin, magari passando per Turner (4 opere in mostra). E come è possibile affermare enfaticamente, in riferimento all’unico Gauguin (peraltro preziosissimo) presente, che «senza questo quadro la mostra non si sarebbe potuta fare e che con quest’unico quadro tutta la mostra si potrebbe fare». C’è di che risentirsi, se calati nei panni degli altri artisti esposti, e c’è di che rammaricarsi di non aver fatto davvero una mostra con un unico quadro. Perché no? Si sarebbe potuto. Naturalmente con i mille collegamenti e con tutti gli apparati critici del caso, al posto di quelle sbobbe graficamente illeggibili e stomachevoli nei contenuti: torrenti di parole che non spiegano nulla ma hanno la prerogativa di creare inutili ingorghi e affollamenti nel flusso di folla plaudente.
Per non parlare delle cadute di gusto, tipo il plastico con la riproduzione delle proprietà di Monet e lui in persona sotto l’ombrellone, intento a dipingere, indovinate cosa? Le ninfee! E che dire della stanzuccia di Van Gogh in grandezza naturale come primo impatto all’ingresso? Due rimandi al mondo concreto dei pittori – il letto di Van Gogh e i laghetti di Monet – che in una mostra organizzata diversamente, ad esempio per coinvolgere bambini e magari anche qualche adulto che li accompagna, sarebbero divertenti e anche stimolanti. Qui sono solo cafoni.
Potrei continuare, ma mi limiterò a un’unica domanda, che non rivolgo al curatore, il quale fa il suo mestiere come lo sa fare e secondo coscienza (la sua), ma ai responsabili delle scelte culturali cittadine, agli “esperti”, agli amministratori, a coloro che hanno una qualche voce in capitolo: capisco il business e capisco che una mostra come questa debba “rendere”, ma dove sta scritto che non si possa fare una bella mostra e redditizia senza per questo fare un insulto alla cultura?
(Antonella Mancini)