Categoria: RECENSIONI

  • OLI 318: IMMIGRAZIONE – Meglio in un campo di prigionia che in un CIE?

    Può un libro che narra fatti avvenuti 60 anni fa suscitare riflessioni su fatti attuali? Può accadere, leggendo I diavoli di Zonderwater, di Carlo Annese (Sperling & Kupfer, 2010): l’autore, giornalista de La Gazzetta dello Sport, descrive il campo di Zonderwater, in Sudafrica, a 43 km da Pretoria, dove, tra il 1941 ed il 1947, vissero complessivamente 94mila prigionieri italiani. Zonderwater, un altopiano disseminato di tende che diventò, nel corso di quegli anni, una vera città, dove erano funzionanti due ospedali da 3000 posti letto gestiti da ufficiali medici italiani, 15 scuole, 22 teatri, campi da calcio, da tennis, laboratori artistici, chiese, biblioteche. Grande merito di tale trasformazione ebbe il comandante del campo, il colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo: volle che “uomini costretti all’esilio in una terra lontana lavorassero, pensassero, studiassero, giocassero, per non farsi sopraffare dalla propria condizione”. Consola leggere in queste pagine come sia stato possibile conciliare una situazione umana estrema, quale può essere la mancanza di libertà, con condizioni di vita sia materiale che spirituale, tollerabili, al punto che non mancò chi, al termine della guerra, scelse di rimanere in Sudafrica, come Gregorio Fiasconaro, cantante lirico, padre di Marcello, atleta primatista mondiale negli anni ’70.
    La dignità umana, questa la condizione che a Zonderwater fu mantenuta: venendo all’oggi, come non confrontare le condizioni offerte dall’Italia a richiedenti asilo e migranti? Come non fare un parallelo con i nostri simpatici Centri di Identificazione ed Espulsione, dove già il nome equivale ad un programma? In Italia, secondo il rapporto annuale 2011 di Amnesty International (*), “richiedenti asilo e migranti hanno continuato a essere privati dei loro diritti, in particolare per quanto riguarda l’accesso a una procedura di asilo equa e soddisfacente”, ma critiche al nostro paese sono venute anche dall’Alta Commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, dal Comitato europeo dei diritti sociali, dal Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa: proprio da quest’ultimo comitato arriva un appunto particolarmente pesante, l’assenza di una norma sulla tortura nel nostro codice penale: ciliegina (*) su una torta di cui possiamo essere grati ai nostri “padani”, da non confondere con la generalità dei civilissimi abitanti della pianura Padana.
    (Ivo Ruello)

    (*) http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=46728

  • OLI 303: RECENSIONI – The tree of life: rimpiangendo Tarkovskij

    A due terzi della proiezione una coppia si alza e comunica a bassa voce ai vicini: “Ce ne andiamo, ne abbiamo abbastanza!”. Strette di mano di solidarietà da parte degli amici che però restano fino alla fine, e così noi, soffrendo noia e irritazione. Qualche giorno dopo una scena analoga mi viene raccontata da una amica.
    Il film è The Tree of life, fischiato in sala a Cannes, ma poi vincitore della Palma d’oro.
    Critiche prevalentemente positive, a volte entusiaste: tra le tante, quella di Curzio Maltese su La Repubblica “L’opinione di chi scrive è che The tree of life sia il più straordinario dei film visti in concorso … Quando l’arte è capace di tanto bisogna smettere perfino di parlare di cinema … diventa una esperienza di vita”, e quella di Roberto Escobar su L’Espresso “… Queste cose grandi dà il cinema sinfonico di Malick, e in cambio ci chiede ascolto e abbandono”
    Come mettere insieme i fischi di Cannes, e, nel nostro piccolo, i disagi colti nella sala dell’Ariston di Vico S. Matteo, con giudizi critici che parlano di capolavoro, di primo vero film del nuovo millennio? Non lo so, però posso provare a motivare la mia soggettiva delusione.
    La parte mistica e visionaria che, come dice Escobar, intende “attraversare la nascita cosmica e terrestre della vita” occupa nel film un posto centrale: non è quindi un peccato veniale il fatto che si alimenti di immagini (galassie, vulcani, cascate, tempeste solari, microrganismi che fluttuano nell’acqua, foreste, vasti spazi deserti …) la cui grandiosità resta fredda nella sua magnificenza.
    Il telescopio Hubble ci regala visioni stupende, ma non basta proporle in sequenza con altre strepitose visioni della natura per condurre chi guarda sull’incerto terreno del nostro essere esposti alle misteriose alternanze del bene e del male in questo universo che ci precede, ci circonda, e seguirà senza di noi.

    Una immagine da Stalker di A. Tarkovskij

    Tarkovskij quaranta anni fa con i suoi piccoli rivoli d’acqua, le sue sterpaglie, la spirale in perenne rotazione del suo misterioso pianeta vivente, era riuscito a portare anche il più positivista ad avvertire il disagio dell’invisibile e dell’inspiegabile, ma lui era un vero poeta, e se si è usata a ragione la parola capolavoro per i film di Tarkovskij, è improprio usarla per Malick.
    Il film si solleva solo quando, nella descrizione per immagini e frammenti vocali della vita della famiglia O’Brien, fa irruzione il conflitto, e nelle scene della famiglia riunita a tavola emerge la patologia di una situazione familiare fino a quel momento apparentemente idilliaca.
    Ma l’esaltazione che il regista fa della angelicata figura femminile del film, e del suo rapporto col microcosmo familiare in cui vive, lascia più che perplessi. Una “madre dolcissima”, che però colma di tenerezze i figli solo a padre assente, e non si contrappone mai direttamente alle sue quotidiane violenze psicologiche, salvo un breve moto di ribellione subito represso. Una silenziosa subordinazione alla ottusa, violenta, patetica e disperata personalità del marito, glorificata come virtù femminile che riscatta il male del mondo.
    Che stanchezza.
    (Paola Pierantoni)

  • OLI 292: RECENSIONI – Distanza di fuga

    Il caso vuole che a pochi giorni dalla querelle sulla presenza di Fenzi in facoltà, a Genova venga presentato, venerdì 11 Marzo, da Feltrinelli il nuovo romanzo di Silvia Bonucci “Distanza di fuga” ed. Sironi.
    E’ un libro coraggioso dove il passato del terrorismo, ostinatamente rimosso dalla protagonista, emerge con urgenza nel quotidiano chiedendo spazio.
    Ambientato a Genova, nella trama a noi nota dei vicoli, del Righi e Sampierdarena, il libro, pagina dopo pagina offre al lettore lo scorrere delle giornate di Zoe, fisioterapista, e delle sue relazioni con i pazienti, la sorella, la madre, il nonno, gli amici e il compagno. A sgranarsi lentamente sono gli istanti frammentati di una donna resa inerme da un trauma che è incapace di affrontare. Silvia Bonucci intreccia passato e presente, mescolando le pagine scolastiche di una bambina con i fotogrammi di un’intervista ad un ex brigatista ai quali si aggiungono citazioni del comportamento animale tratte da Konrad Lorenz. Zoe appartiene alla parte migliore di quel mondo, sia in attacco che in difesa. Così a tratti, commuove, irrita, e rimane isolata. In “Distanza di fuga” c’è spazio per riflettere su maternità, amicizia, relazioni in un universo dove il dolore è afono, ma potente.
    Questo è il terzo romanzo di Silvia Bonucci.
    I precedenti “Voci di un tempo” ed. E/O e “Gli ultimi figli” ed. Avagliano sono ugualmente intensi.

    (Giovanna Profumo)

  • OLI 278: STORIA – “Morte agli Italiani” ovvero massacrarsi fra disperati


    Nove operai stranieri linciati, decine e decine di feriti, durante agitazioni popolari a sfondo razziale finite in un bagno di sangue. Ad accanirsi contro i migranti, la popolazione locale, soprattutto le fasce sociali più deboli. Il torto delle vittime, accettare, per disperazione, di svolgere i lavori più umili e faticosi, accontentandosi di salari ridotti e sottoponendosi turni massacranti. Scegliere di sfinirsi a cottimo, fino allo stremo delle forze, pur di racimolare qualche spicciolo in più. Essere quindi, diventati più appetibili per l’economia locale.
    Non si tratta di cronaca recente (sembrerebbe?), ma dell’analisi storica di un massacro avvenuto a fine Ottocento nelle saline francesi di Aigues Mortes, in Camargue, ai danni degli operai italiani. Morte agli italiani (di Enzo Barnabà, Ed. Infinito, 120 pp.) racconta i fatti del 17 agosto 1893, inquadrandoli nel contesto storico ed esaminando gli errori dei partiti politici e le omissioni dei governi.
    Si delinea il prototipo dell’emigrante italiano: giovane, proveniente da vallate e paesi in cui l’unico sostentamento era l’agricoltura montana, disposto a svolgere i lavori più umili, anche a condizioni di vita e di lavoro durissime. La crisi aveva portato i lavoratori francesi a guardare con diffidenza questi “mansueti e laboriosi” italiani. All’insicurezza economica si era aggiunta la campagna battente della stampa nazionalista, che diffondeva la psicosi dell’invasione italiana, per difendersi dalla quale era necessario che i francesi salvaguardassero “i concetti di famiglia, nazione e razza”.
    L’autore esamina a fondo le colpe dei socialisti francesi. Essi, di fronte al problema reale della crisi e di una massiccia presenza di italiani nelle zone più disagiate della Francia, avevano dato soluzioni meramente ideologiche, tirando in ballo “la fratellanza fra i popoli”, senza superare il rituale dei comunicati e facendosi sedurre di quando in quando da derive xenofobe.
    Questi fattori deflagrarono ad Aigues Mortes, fino al parossismo del 17 agosto. Nove italiani, che lavorarono alle saline, furono linciati dalla folla mentre venivano scortati dalle forze dell’ordine, per essere estradati dopo i primi scontri.
    Il processo che seguì – durato quattro giorni in tutto – fu farsesco: ai governi di Italia e Francia interessava lasciarsi alle spalle la vicenda il prima possibile. Pochi i capri espiatori: un italiano, clandestino, fu condannato per aver innescato le violenze, l’agente consolare di Aigues Mortes fu deposto. Il resto degli imputati francesi ottennero l’assoluzione. I rapporti successivi tra le due nazioni andarono migliorando. “L’Italia ha dimenticato”, scrive Gian Antonio Stella nella prefazione.
    Un libro da possedere e diffondere: breve e conciso, si legge più o meno nel tempo di un quotidiano. E, forse, aiuta un po’ di più a leggere il presente.
    (Eleana Marullo)