OLI 303: RECENSIONI – The tree of life: rimpiangendo Tarkovskij

A due terzi della proiezione una coppia si alza e comunica a bassa voce ai vicini: “Ce ne andiamo, ne abbiamo abbastanza!”. Strette di mano di solidarietà da parte degli amici che però restano fino alla fine, e così noi, soffrendo noia e irritazione. Qualche giorno dopo una scena analoga mi viene raccontata da una amica.
Il film è The Tree of life, fischiato in sala a Cannes, ma poi vincitore della Palma d’oro.
Critiche prevalentemente positive, a volte entusiaste: tra le tante, quella di Curzio Maltese su La Repubblica “L’opinione di chi scrive è che The tree of life sia il più straordinario dei film visti in concorso … Quando l’arte è capace di tanto bisogna smettere perfino di parlare di cinema … diventa una esperienza di vita”, e quella di Roberto Escobar su L’Espresso “… Queste cose grandi dà il cinema sinfonico di Malick, e in cambio ci chiede ascolto e abbandono”
Come mettere insieme i fischi di Cannes, e, nel nostro piccolo, i disagi colti nella sala dell’Ariston di Vico S. Matteo, con giudizi critici che parlano di capolavoro, di primo vero film del nuovo millennio? Non lo so, però posso provare a motivare la mia soggettiva delusione.
La parte mistica e visionaria che, come dice Escobar, intende “attraversare la nascita cosmica e terrestre della vita” occupa nel film un posto centrale: non è quindi un peccato veniale il fatto che si alimenti di immagini (galassie, vulcani, cascate, tempeste solari, microrganismi che fluttuano nell’acqua, foreste, vasti spazi deserti …) la cui grandiosità resta fredda nella sua magnificenza.
Il telescopio Hubble ci regala visioni stupende, ma non basta proporle in sequenza con altre strepitose visioni della natura per condurre chi guarda sull’incerto terreno del nostro essere esposti alle misteriose alternanze del bene e del male in questo universo che ci precede, ci circonda, e seguirà senza di noi.

Una immagine da Stalker di A. Tarkovskij

Tarkovskij quaranta anni fa con i suoi piccoli rivoli d’acqua, le sue sterpaglie, la spirale in perenne rotazione del suo misterioso pianeta vivente, era riuscito a portare anche il più positivista ad avvertire il disagio dell’invisibile e dell’inspiegabile, ma lui era un vero poeta, e se si è usata a ragione la parola capolavoro per i film di Tarkovskij, è improprio usarla per Malick.
Il film si solleva solo quando, nella descrizione per immagini e frammenti vocali della vita della famiglia O’Brien, fa irruzione il conflitto, e nelle scene della famiglia riunita a tavola emerge la patologia di una situazione familiare fino a quel momento apparentemente idilliaca.
Ma l’esaltazione che il regista fa della angelicata figura femminile del film, e del suo rapporto col microcosmo familiare in cui vive, lascia più che perplessi. Una “madre dolcissima”, che però colma di tenerezze i figli solo a padre assente, e non si contrappone mai direttamente alle sue quotidiane violenze psicologiche, salvo un breve moto di ribellione subito represso. Una silenziosa subordinazione alla ottusa, violenta, patetica e disperata personalità del marito, glorificata come virtù femminile che riscatta il male del mondo.
Che stanchezza.
(Paola Pierantoni)