Categoria: Maria Di Pietro

  • OLI 369: ARGENTINA – L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona

    Foulard bianco, sguardo vispo, passo deciso, Hebe de Bonafini, Presidente delle Madres de Plaza de Mayo, arriva a Genova per incontrare la città. Due giornate di conferenze, letture, musica, rappresentazioni teatrali dedicate alle Madres.

    L’associazione è nata in Argentina durante la feroce e sanguinosa dittatura militare che tra il 1976 e il 1983, con a capo il generale Videla, ha represso, torturato ed ucciso parte della popolazione argentina, soprattutto giovani, che si opponevano alla dittatura militare: oltre 30mila desaparecidos, 1 milione di esiliati, 9mila esiliati politici, 15mila persone fucilate per strada per sostenere un progetto economico neoliberista messo in piedi dall’estrema destra argentina con l’appoggio della CIA.

    Con un foulard bianco con scritto il nome del proprio figlio scomparso, le madres sono scese in piazza per la prima volta 36 anni fa marciando in silenzio intorno al monumento di Plaza de Mayo, dove ha sede il palazzo del governo nella Casa Rosada di Buenos Aires. All’inizio i militari sparavano loro addosso, le picchiavano, le chiamavano le pazze, queste donne comuni, casalinghe che con gran coraggio hanno sfidato i carnefici della dittatura chiedendo giustizia per i loro figli. 

    “Non continuiamo a lottare solo perché vogliamo più giustizia, abbiamo un impegno con i nostri figli, vogliamo continuare a fare quello che loro facevano: lavorare e lottare per un uomo nuovo, una società più giusta, per questo abbiamo creato l’università, la rivista, il centro culturale, la libreria, la biblioteca, la radio ora stiamo facendo le case per le donne violentate;  c’è molto da fare in questo mondo” afferma con passione Hebe de Bonafini “chiedo a tutti di lavorare e di lottare per un mondo senza differenze, dove la pace non sia un reclamo ma una realtà che venga insieme alla giustizia… Per favore ascoltiamoci, ascoltiamo la nostra voce, guardiamo i nostri volti, accarezziamoci per favore, chiediamo all’altro cosa ti succede, di cosa hai bisogno e sentiamo quello che passa agli altri per sentire cosa passa dentro noi stessi. E quando vi fa così male il sangue per quello che succede all’altro e da lì che cominceremo a fare un uomo nuovo e rivoluzionario”
    Hebe oggi ha 84 anni, è una delle più giovani delle Madres, dichiara che ha voglia di continuare a lottare per questo mondo per cui tanti hanno dato la loro vita.
    “La vita è lotta. E la lotta inizia con la nascita di una persona e termina con la fine della sua vita”  mi dice, e lei la dura lotta la conosce molto bene, la sua è nata in nome di ciò che di più caro le è stato brutalmente strappato; dopo la scomparsa di 2 suoi figli e di sua nuora Hebe non si è fermata un attimo nella ricerca della verità, per ottenere giustizia e non vendetta, anche quando nel 2001 sua figlia Alejandra fu brutalmente torturata. 
    A Genova Hebe si rivolge ai giovani e li esorta: “A tutti i giovani del mondo chiediamo di fare politica, che non credano che la politica sia “mierda”, ma il modo per cambiare le cose per un mondo più giusto. Se volete un mondo migliore dovete lottare… Perché la giustizia e la pace siano un diritto e una costante…”
    (Maria Di Pietro – foto dell’autrice e da internet)
  • OLI 367 – SOCIETA’ – Voti invisibili

    Dopo una campagna elettorale fondata sul marketing, che ha visto protagonisti tv e radio, questo week-end gli italiani si sono recati alle urne per votare.
    I candidati durante la loro campagna elettorale hanno offerto soluzioni “strategiche” alla crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo, peccato però che in gran parte siano gli stessi responsabili che l’hanno causata. Questa sfiducia ha portato ad un calo di affluenza alle urne da parte degli elettori.
    Il voto è importante perché è il mezzo con cui si può esprimere un giudizio, ma più importante è il voto che diamo ogni giorno con le nostre azioni e le nostre scelte quotidiane; noi, singoli cittadini, facciamo politica tutti i giorni, anche quando sosteniamo che la politica non ci interessa.
    Votiamo quando andiamo a fare la spesa, quando scegliamo di acquistare un prodotto locale o un prodotto che arriva dal Sud America; votiamo quando decidiamo di andare in auto oppure in bici; votiamo ogni volta che decidiamo di guardare un programma in tv o leggere un libro; votiamo ogni volta che entriamo in un negozio, in un supermercato; ogni volta che scegliamo un film al cinema; quando decidiamo che stile dare alla nostra vita. Di certo sono elezioni più difficili di quelle politiche, non dobbiamo mettere una croce su un simbolo né presentare un documento d’identità, ma dobbiamo metterci in gioco in prima persona. Diventiamo responsabili delle nostre scelte quotidiane e, dato che questi voti li distribuiamo comunque nostro malgrado, sarà utile farlo con la maggior consapevolezza possibile.
    Tutte le scelte personali hanno un impatto e delle conseguenze sulla collettività e sull’ambiente, anche quelle più insignificanti e più superficiali.
    Se partisse da noi stessi orientare eticamente la nostra vita affinché le nostre azioni promuovano la libertà e la dignità di tutti, riusciremmo a modificare la realtà che ci circonda senza dover delegare la responsabilità solo ed esclusivamente ai nostri politici. Le responsabilità e le piccole attenzioni civiche provenienti “dal basso” sono il primo passo verso il reale cambiamento.
    (Maria Di Pietro)
  • OLI 366: PALESTINA – Open Shuhada Street

    Dal 22 al 25 febbraio in tutto il mondo si celebrerà la quarta azione globale per la riapertura della Shuhada Street di Hebron che è stata chiusa nel 1994 dopo il massacro di 29 palestinesi, che pregavano nella moschea Ibrahim, da parte del colono israeliano Baruch Goldstein.
    Shuhada street è la via principale del centro storico di Hebron, una volta la più importante via di comunicazione commerciale e molto affollata.
    Ora è deserta.
    I 500 negozi arabi di Shuhada Street sono stati sigillati e questo ha devastato l’economia locale, i palestinesi non sono autorizzati a percorrere “la strada dell’apartheid” e sono costretti a fare lunghe deviazioni per arrivare dall’altro lato della strada, solo gli israeliani possono transitarvi. Hebron è l’unica città della Cisgiordania dove 600 coloni, protetti da 2000 militari israeliani, vivono in cinque insediamenti all’interno della città vecchia. Inoltre è l’unica città in cui i check point ed i blocchi alla circolazione sono imposti all’interno del centro cittadino. Secondo il protocollo che definisce lo statuto di Hebron, la città è divisa in due parti: H1 sotto l’autorità palestinese e H2 sotto il controllo militare israeliano.
    La via del mercato arabo, parallela a Shuhada street, è coperta da una rete metallica che protegge i palestinesi da spazzatura, sputi, olio bollente, escrementi, che i coloni israeliani ogni giorno gettano dalle loro case sui passanti.
    La violenza fisica e psicologica da parte dei coloni è una tragica realtà, le libertà personali dei palestinesi sono ridotte al minimo, i controlli sono eccessivi e a causa della “closure” molti servizi, inclusi quelli sanitari, risultano di fatto inutilizzabili.
    L’imposizione ai palestinesi della chiusura della strada, dei coprifuochi, dei posti di blocco militari, la detenzione senza motivo delle persone e la mancanza di protezione dalle continue violenze ha spinto 15000 civili palestinesi a fuggire dalle loro case, trasformando il centro storico di Hebron in una città fantasma.

    Il 25 febbraio ad Hebron ci sarà una grande manifestazione organizzata da Youth against Settlements insieme ad attivisti internazionali e pacifisti israeliani per chiedere la riapertura di Shuhada Street e la fine dell’occupazione. In varie città del mondo ci saranno iniziative di solidarietà, Anche a Genova verrà ricordata l’iniziativa Open Shuhada Street durante l’incontro con la mamma di Vittorio Arrigoni, Egidia Beretta, che sarà al teatro della Tosse domenica 24 febbraio h.18,30 con Don Andrea Gallo.

    (Maria Di Pietro – foto da internet)

  • OLI 365: PALESTINA – Israele non applica la pena di morte

    Sono più di 3848 i palestinesi arrestati nel 2012, secondo i dati ufficiali diffusi dal Dipartimento di Statistica presso il ministero degli Affari dei detenuti di Ramallah, tra cui 881 bambini e 67 donne. La media mensile degli arresti è stata di 321 palestinesi, quella giornaliera di 11.
    Gli arresti da parte delle forze militari israeliane sono all’ordine del giorno: accademici, giornalisti, insegnanti, figure di spicco in campo politico della società palestinese, componenti dei comitati popolari vengono aggrediti ed arrestati con la scusa della “sicurezza”.
    Sono tanti i prigionieri che protestano con lo sciopero della fame, il caso più discusso in questi giorni è quello di Samer Tarek al-’Issawi di 34 anni arrestato per la seconda volta il 7 luglio 2012 con l’accusa di aver organizzato attività politiche e visitato alcune zone della Cisgiordania; il pubblico ministero israeliano ha chiesto di condannarlo a vent’anni di carcere. Samer viveva nel villaggio di al-‘Issawiya a nord est di Gerusalemme. I suoi genitori sono stati più volte arrestati; nel 1994 è morto il fratello di Samer di 16 anni ucciso da un soldato israeliano durante gli scontri che seguirono il massacro della moschea di al-Ibrahim a Hebron. Un altro fratello è detenuto in un carcere israeliano e lo hanno messo in isolamento, non può incontrare la sua famiglia. Samer, che ha già perso 47 chili, sta portando avanti una battaglia contro le condizioni di vita a cui sono costretti i detenuti palestinesi nel sistema carcerario israeliano.
    … non sapere se tuo figlio morirà, attendere con angoscia che ti dicano che non ce l’ha fatta. Non potergli stare vicino in un simile momento”, ha dichiarato la mamma, “Lo so, dobbiamo essere coraggiosi: ci hanno preso la terra, hanno ucciso nostro figlio, e ora hanno in mano Samer e Medhat“.
    I militari israeliani non perdono l’occasione per arrestare durante le manifestazioni anche attivisti internazionali che protestano insieme ai palestinesi contro l’occupazione. Sabato scorso a Canaan è stato arrestato un attivista italiano, Marco Di Rienzo, uno inglese dell’ISM (International Solidarity Movement) e 12 palestinesi di cui 4 giornalisti. Gli attivisti stavano costruendo il quinto villaggio formato da tende come segno di protesta contro gli insediamenti illegali israeliani.
    Di Renzo ha deciso di seguire lo sciopero della fame avviato tre giorni fa in solidarietà con i detenuti politici palestinesi in carcere in Israele, in particolare con Samer Issawi.
    Il ministero dell’Informazione in Cisgiordania ha paragonato il protrarsi della detenzione di al-’Issawi ad “una condanna a morte, eseguita lentamente da uno Stato che dichiara di rispettare le leggi internazionali e si vanta di non applicare la pena di morte”.
    (Maria Di Pietro )
  • OLI 363: PALESTINA – La nonviolenza non fa notizia

    Serata partecipata quella di giovedi 24 gennaio che ha visto coinvolti esponenti della Lista Marco Doria del Comune di Genova e l’Assessore comunale alla legalità e diritti Elena Fiorini all’incontro con Abdallah Abu Rahma, coordinatore dei comitati di resistenza nonviolenta palestinese ed attivista per i diritti umani, e con Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento Europeo. Dopo la visione di alcuni filmati sugli ultimi eventi che stanno accadendo in Palestina si è affrontato il tema della resistenza nonviolenta. Nonviolenza intesa come lotta organizzata contro il muro e contro gli insediamenti. Palestinesi con attivisti israeliani e internazionali, attraverso i Comitati Popolari, si organizzano in modo creativo, come è successo recentemente per la costruzione di Bab Al Shams (Porta del Sole) in cui sono stati coinvolti i partiti, le autorità palestinesi e la società civile. All’indomani del voto sul riconoscimento della Palestina come membro osservatore delle Nazioni Unite, il governo israeliano ha proclamato la costruzione di un nuovo insediamento a est di Gerusalemme sui territori occupati: così i Comitati Popolari hanno pensato che dovevano impedire questa nuova colonizzazione in quell’area estremamente importante per il futuro stato palestinese; se venisse costruito l’insediamento questo taglierebbe tra nord e sud la Cisgiordania, con Gerusalemme in mezzo. L’azione è stata quella di costruire un villaggio su quell’area con cinquanta tende e con l’aiuto di mille attivisti; per un popolo costantemente vigilato quest’azione anche se svolta in segretezza non è stata facile. Con astuzia, ingegno e soprattutto coraggio, il villaggio è stato costruito anche se il giorno dopo è stato evacuato dalla polizia israeliana (vedi Oli 362).
    Nonviolenza è resistenza all’occupazione, ai soprusi, alla prevaricazione dei diritti umani” afferma Enrico Pignone, consigliere comunale e capolista della Lista Marco Doria: “il potere della nonviolenza dà ai palestinesi gli strumenti di sfidare chi li sta soggiogando”. Le azioni di nonviolenza palestinese non consistono solo nell’organizzare manifestazioni per fermare l’occupazione e rivendicare il diritto alla propria terra, all’acqua e altre risorse sottratte dal governo israeliano, ma è anche aiutare le famiglie dei prigionieri, pagare le spese legali e sostenere le persone dei villaggi sotto repressione. Abdallah afferma che la nonviolenza è la strada più efficace per combattere l’occupazione. Ma non è semplice usare questa forma di lotta quando dall’altra parte i militari continuano ad usare violenza e repressione sui palestinesi; in questi anni sono 33 i palestinesi uccisi nei villaggi in cui è stato costruito il muro e 1500 le persone arrestate.
    “Gli israeliani giocano sulla compiacenza e la complicità internazionale” dice la Morgantini “nessuno ferma il governo israeliano con la sua politica di colonizzazione”. La comunità Europea è responsabile perché permette ad Israele di essere impunita, anche noi abbiamo una grande responsabilità nel far conoscere l’esistenza di queste lotte, bisogna rompere gli stereotipi che i palestinesi sono quelli che ci fanno vedere in tv. I media dovrebbero svolgere un ruolo importante in questa fase ed invece sono silenti, come è avvenuto durante la serata alla quale non si è presentato nessun giornalista o tv locale con la scusa della campagna elettorale in atto. Forse non interessa la vita del popolo palestinese o forse non si ha ancora il coraggio di denunciare la politica di morte da parte del governo israeliano o forse la notizia non fa scalpore se si associa la parola “nonviolenza” alle azioni dei palestinesi. Tutto questo è irresponsabile da parte dei media, cominciando dal nostro corrispondente Rai del Medio Oriente Claudio Pagliara che, come dice la Morgantini, parla di Palestina seduto nel suo ufficio di Gerusalemme.
    La serata non è stata solo un’opportunità per ascoltare le testimonianze dalla Palestina ma anche uno stimolo per le istituzioni comunali a cui è stato chiesto di firmare una dichiarazione di sostegno ai comitati popolari e di riconoscimento del villaggio di Bab Al Shams come simbolo di resistenza.
    “Tutti possiamo fare qualcosa perchè la nostra lotta e i nostri diritti vengano riconosciuti” afferma Abdallah “non vogliamo più né morire noi né che muoiano israeliani; l’umanità ha bisogno anche di voi e di questa lotta comune per riuscire a far cessare l’occupazione militare”.
    (Maria Di Pietro)


  • OLI 362: PALESTINA – This must be the place

    Così si chiama la campagna per l’abolizione della Firing zone 918 nelle colline a Sud di Hebron dove il Ministro della Difesa israeliana ha deciso di far demolire i 12 villaggi presenti e far evacuare i 1000 abitanti.
    La storia risale agli anni 70 quando Israele ha dichiarato quest’area zona militare chiusa per adibirla ad addestramenti militari.
    Demolire case e villaggi significa soprattutto demolire vite umane e per questo motivo che nonostante il freddo e il gelo, nella zona E1 ad est di Gerusalemme, oltre 250 palestinesi organizzati dai Comitati Popolari di resistenza nonviolenta palestinese insieme ad attivisti internazionali il 12 gennaio hanno fondato un nuovo villaggio formato da tende e strutture fornite dal governo palestinese e l’hanno chiamato Bab Al Shams che significa “Porta del Sole”.
    Gli attivisti hanno dichiarato: “Noi figli della Palestina, provenienti da tutte le parti della patria, dichiariamo la creazione del villaggio Porta del Sole, come scelta del popolo palestinese e senza il permesso dell’occupazione israeliana. Non abbiamo bisogno dell’autorizzazione di nessuno perché questa è la nostra terra ed è nostro diritto costruire e rimanere su di essa. Abbiamo deciso di stabilire il nostro villaggio su questa cosiddetta zona E1 in cui l’occupazione ha annunciato di voler costruire 4.000 unità abitative per gli israeliani, perché non rimarremo più in silenzio di fronte agli insediamenti e alla colonizzazione continua della nostra terra … Noi crediamo nell’azione e nella resistenza non violenta e siamo sicuri che il nostro villaggio si sostengano con forza fino a quando i legittimi proprietari faranno valere i propri diritti sulla loro terra”.

    I neo abitanti hanno invitato tutto il popolo palestinese, in tutte le sue parti sociali e politiche, ad aderire e partecipare agli eventi culturali e alle attività che si sarebbero dovute svolgere alla Porta del Sole i giorni successivi, ma purtroppo dopo due notti 600 soldati militari israeliani hanno sgomberato ed evacuato gli abitanti di Bab Al Shams anche se la Corte Suprema aveva dato indicazione di attendere almeno sei giorni prima di decidere. Sono stati arrestati 18 attivisti che hanno partecipato alla fondazione del villaggio.
    Il premier israeliano ha voluto evacuare immediatamente un villaggio occupato “illegalmente” anche se questo trattamento non viene effettuato per la continua occupazione di colonie e avamposti israeliani sul suolo palestinese anzi la maggiorparte delle volte considera legali queste occupazioni selvagge.
    Abdullah Abu Rahme, coordinatore dei comitati popolari di restistenza nonviolenta palestinese, sarà a Genova il 24 gennaio accompagnato da Luisa Morgantini (già vice presidente del parlamento europeo) per raccontare l’esperienza dei comitati e del perchè il popolo palestinese si rifiuta di morire in silenzio.
    L’incontro sarà il 24 gennaio alle h.21 presso la Cooperativa Sociale “Il Laboratorio di piazza Cernaia 3/6”.
    Per maggiori informazioni:
    Sito web: www.nofiringzone918.org / www.operazionecolomba.it/nofiringzone918
    Petizione online: http://www.change.org/en-GB/petitions/campaign-for-abolition-of-firing-zone-918-in-south-hebron-hills 
    (Maria Di Pietro)

  • OLI 361: NATALE – Betlemme, il Natale a un passo dall’inferno

    Buon Natale.
    Betlemme si sta preparando al Natale: il piazzale della Chiesa della Natività è illuminato da luci colorate, dentro la chiesa ci sono le processioni di avvento in attesa del Natale.
    Nella chiesa al piano inferiore c’è la stella dorata che indica il luogo dove più di 2000 anni fa è nato Gesù Bambino.

    In questo periodo molti pellegrini si recano a Betlemme per il pellegrinaggio natalizio e visiteranno i luoghi circostanti come da classico programma di pellegrinaggio: Gerusalemme, Nazareth, Gerico e Betlemme.
    Chissà che momenti suggestivi per un pellegrino cristiano partecipare alla messa di Natale proprio in uno dei luoghi più importanti del Vangelo.
    Ma a Betlemme non c’è solo la chiesa della Natività che ogni anno attira pellegrini da tutto il mondo, lì vicino c’è il campo profughi di “Aida” dove abitano cinquemila persone sia musulmane che cristiane sfollate dai propri villaggi, e dove sabato sono avvenuti degli scontri tra i militari israeliani e i ragazzi profughi; c’è la colonia di Gilo costruita sulla terra espropriata illegalmente ai palestinesi, c’è il check point 300 dove la mattina alle 4 si trova una fila di palestinesi che si recano a Gerusalemme per lavoro: solo chi ha il permesso di lavoro, che viene rinnovato ogni 3 mesi, può oltrepassare il muro di divisione dopo ore di controlli.
    I palestinesi di Betlemme non possono recarsi al di là del muro senza permessi.
    Sono molti i palestinesi che non hanno mai visto Gerusalemme che dista a soli 7 km da Betlemme.
    Caro pellegrino cristiano e credente che ti stai recando a Betlemme, ricorda che se Gesù nascesse oggi in Palestina sarebbe un profugo o un perseguitato solo perché nato nei territori occupati, e quindi considerato altamente pericoloso dal governo israeliano.
    Per il messaggio di giustizia e amore che ha dato durante la sua vita sarebbe dalla parte degli oppressi.
    (Maria Di Pietro –  Foto dell’autrice)

  • OLI 360: TESTIMONIANZE – Perché vai in Palestina?

    Vittorio Arrigoni

    Perché vai in Palestina? Al corso di formazione per andare nei territori occupati mi chiedono cosa mi spinge a fare questo viaggio, cosa mi fa paura e cosa mi aspetto.
    L’ultima volta che sono stata in Palestina è stato quattro anni fa e da quel periodo sono successe molte cose in quella terra: l’occupazione militare si espande, gli arresti e incursioni sono maggiori, l’operazione piombo fuso che a Gaza mette in ginocchio una popolazione, l’assassinio di Vittorio che avevo conosciuto a Genova e che mi aveva dato il suo libro “Restiamo umani”, la collaborazione al documentario per la traduzione di “Le lacrime di Gaza” ecc.
    Ho voglia di tornare in Palestina e interagire con persone che vivono quotidianamente l’occupazione, ho voglia di entrare nelle loro storie e nel loro vissuto e mi piacerebbe tornare in Italia con delle interviste e del girato da mostrare. Se ho paura? Sì certo, sono consapevole di trovare un clima di tensione, ho paura di non saper gestire le eventuali ansie, ho paura di non sapermi muovere da sola in un paese in conflitto e ho l’ansia di subire un eventuale interrogatorio per entrare ed uscire dal paese da parte delle autorità israeliane. Cosa mi aspetto? Giornate cariche di input che mi permettono di mettermi in gioco ogni momento. Certo che le paure ci sono, ma le motivazioni per partire sono maggiori. Prenoto un biglietto aereo e dopo 15 giorni mi trovo sull’aereo per Tel Aviv: prima destinazione Ramallah nei territori occupati, poi si vedrà. Starò in Palestina circa un mese.
    Tutto quello che mi motivava e che mi angosciava prima della partenza si è avverato.
    A distanza di quattro mesi dal mio ritorno penso sia stato un viaggio forte sia emotivamente sia psicologicamente, un viaggio difficile ma intenso. Ho vissuto incontri emozionanti, ho ascoltato storie che mi sono entrate nel cuore, storie di una Palestina che subisce l’occupazione militare israeliana e che subisce violenze e assedi affinché gli interessi economici israeliani siano difesi e tutelati; ho raccolto storie di palestinesi che hanno ricordato momenti della prima o seconda intifada, ho incontrato i profughi che vivono nei campi sia in Palestina sia in Libano a Chabra e Chatila e che sono entrati per la prima volta nella loro terra. Storie di persone che fanno resistenza non violenta e soprattutto storie di palestinesi che hanno voglia di normalità.
    Cerco di documentare e di intervistare, però la maggior parte delle volte è bello stare a contatto con le persone senza una telecamera che separi l’intimità che si crea; sono tutti molto ospitali, ti invitano a casa e con la scusa di bere un tè insieme ognuno entra nella vita dell’altro. Non è sempre facile girare nei territori, i controlli da parte dei militari israeliani sono all’ordine del giorno, le lunghe attese ai check point mi innervosiscono; non riesco ad abituarmi al filo spinato disseminato ovunque, alle torrette di controllo e al muro che divide i due popoli, ai rumori assordanti di alcuni aerei militari che periodicamente sfrecciano nell’aria. Tutto questo è assurdo. Cercherò di raccontarvelo.
    (Maria Di Pietro – immagine da internet)

  • OLI 359: ESTERI – Benvenuta Palestina

    Con 138 voti a favore, 9 contro e 41 astenuti, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato, il 29 novembre, una risoluzione che promuove la Palestina a Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite.

    “65 anni fa, in questo giorno, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione 181, che divideva la terra della Palestina storica in due stati, e ciò divenne il certificato di nascita di Israele”, ha affermato Abbas di fronte all’assemblea delle 193 nazioni, ricevendo applausi entusiasmanti.
    Il 29 novembre del 1947 l’Onu approvò il piano di spartizione della Palestina, con uno Stato di Israele e uno Stato palestinese che invece non è mai nato.
    Le pressioni e ricatti al presidente Mahmoud Abbas non sono mancati e fino all’ultimo si è temuto che l’Olp si tirasse indietro.
    I voti contrari sono stati quelli di Stati Uniti, Canada, Israele e pochi altri.
    I diplomatici israeliani hanno accusato l’Olp di seguire la strada della guerra e non della pace e hanno minacciato di non trasferire i proventi delle tasse all’Anp e di imporre nuove restrizioni sui movimenti. Si tratta di circa 92 milioni di euro che, anziché essere trasferire all’Anp, per conto di cui sono stati raccolti, rischiano di essere trasferiti da Israele alla società elettrica israeliana.

    Gli Usa hanno minacciato il ritiro totale degli aiuti economici, come già fatto in occasione del voto di ammissione della Palestina presso l’Unesco.
    Il governo italiano, dopo le dichiarazioni del ministro Terzi, durante l’operazione a Gaza “Pillar of Clouds”, di proporre che il voto non avesse luogo, ha cambiato idea forse spinto dal pronunciamento del si di altri paesi europei.
    L’aver ottenuto il nuovo status è un passo fondamentale nella lotta per la giustizia. Questo permetterà alla Palestina e ai suoi cittadini, ancora sotto shock per lo sterminio avvenuto a Gaza i giorni scorsi, di accedere alla Corte penale e alle altre sedi giuridiche internazionali dove potrebbe presentare un’istanza contro il governo israeliano.
    La reazione di Netanyahu è stata di superbia, ha annunciato la costruzione di 1600 unità abitative in aggiunta alle 3000 previste nel corridoio tra Tel Aviv e Gerusalemme: se ciò si verificasse, spezzerebbe in due parti la cisgiordania e renderebbe impossibile la creazione di uno Stato palestinese.
    Intanto ieri l’assemblea generale delle nazioni unite ha approvato una risoluzione con la quale chiede ad Israele l’ingresso di ispettori nei siti nucleari. Un’altra sorpresa negativa per Netanyahu che continua ad ignorare le richieste di alcuni paesi dell’Ue (Francia, Danimarca, Spagna e Svezia) che hanno convocato gli ambasciatori israeliani per comunicare la loro preoccupazione.
    Chissà se il portare “democrazia” nei territori occupati attraverso incursioni militari e con l’uso di armi non convenzionali porterà Israele ed essere sempre più isolato dal resto del mondo soprattutto ora che ha gli occhi puntati addosso.
    Di certo i palestinesi si sveglieranno anche oggi con i soldati israeliani sul loro territorio, i coloni aggrediranno i contadini e i pescatori, spianeranno terra e sradicheranno alberi, ma una scintilla è stata accesa.
    (Maria Di Pietro – Foto da internet)