Categoria: Eleana Marullo

  • OLI 376 – IMMIGRAZIONE: Le nude verità di Kyenge

    Disegno di Guido Rosato

    Kyenge, ministra dell’integrazione, ha recentemente rilasciato alcune dichiarazioni. Dopo aver sostenuto la necessità di un decreto che riconosca il diritto di cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia, ha affermato che “il reato di clandestinità andrebbe abrogato”. La reazione immediata di Schifani, capogruppo del Pdl al Senato, è stato di ricordare la composizione del governo di “larghe intese” e di ricordare che le priorità del governo, al momento, sono altre http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/05/05/immigrazione-il-neo-ministro-kienge-abrogare-reato-di-clandestinita/583941/ .
    La notizia è stata riportata sui media e sui social network, generando una mole di commenti in gran parte xenofobi e razzisti (come è possibile verificare il calce all’articolo segnalato), che incolpano Kyenge di voler favorire l’immigrazione irregolare o sottrarre lavoro e pane agli italiani.
    Nessuna testata giornalistica ha però ricordato qual è stato l’iter che ha portato alla approvazione del reato di clandestinità. Esso è stato introdotto abbastanza recentemente, dalla legge n. 94 del 15/7/2009 (il famigerato Decreto Maroni) passando dall’iter della giustizia amministrativa, che – prima dell’entrata in vigore del reato di clandestinità – prevedeva il rilascio di un provvedimento di espulsione, a quello della giustizia penale.
    Una conseguenza è stata l’introduzione dell’obbligo, da parte dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, come medici o insegnanti, di denunciare gli irregolari. Ulteriore differenza rispetto alla gestione amministrativa degli ingressi irregolari, l’istituzione di un processo per direttissima che, nel corso dell’applicazione del decreto, ha causato enormi costi alla spesa pubblica (cfr. http://www.olinews.info/2011/02/oli-290-migranti-quanto-ci-costa-il.html), ed intasato i tribunali. Al contrario dei suoi principi anticostituzionali e degli effetti collaterali, l’efficacia del decreto Maroni nel contrasto all’immigrazione irregolare non è mai stata dimostrata. Anzi, alcune parti, come l’aggravante per clandestinità, sono state già abrogate dalla Corte Costituzionale.
    Per gli addetti ai lavori, Kyenge ha ribadito concetti basilari da cui partire per costruire l’integrazione, ma per chi manovra la fabbrica del consenso le sue dichiarazioni sono facilmente strumentalizzabili; unico antidoto, un’informazione sobria e responsabile.
    (Eleana Marullo – immagine di Guido Rosato)

  • OLI 375: CITTA’ – Sabato 4 maggio aperitivo solidale con Ambulatorio Città Aperta

    L’Associazione Ambulatorio Città Aperta, è “un’associazione di medici, infermieri e volontari che vuole rendere effettivo il diritto alla salute proprio di ogni essere umano, di qualunque provenienza geografica, religione e status sociale. Offrire un’assistenza medica di base agli immigrati “irregolari” – che la legge non garantisce perché orientata a regolare solo l’emergenza – è un modo per esercitare un’azione politico-sociale”.
    Così è stato anche nel passato: l’Associazione Ambulatorio Città Aperta faceva parte del coordinamento di associazioni del Forum antirazzista e, dalle carte dell’Archivio del forum, si possono ricostruire alcune tappe importanti della sua storia.
    Nel corso del 1997 si portava avanti la discussione del disegno di legge sull’immigrazione Turco-Napolitano. Nell’incertezza legislativa sull’argomento, alcuni enti ed ospedali avevano introdotto pratiche discutibili: l’Istituto Gaslini aveva posto, tra le condizioni di ricovero, l’accettazione di stranieri extracomunitari in ospedale (eccetto le urgenze) soltanto dietro garanzia di pagamento. In quella occasione l’Associazione Ambulatorio internazionale Città Aperta si mobilitò e organizzò sull’argomento un convegno (tra i cui invitati compariva anche Tahar Ben Jelloun).
    Insieme alle altre associazioni del Forum antirazzista, si batté – sempre nel corso del 1997 – perché la legge in discussione recepisse la necessità di garantire, a livello ministeriale e regionale, il diritto alla salute di tutti i cittadini, indipendemente dal titolo di soggiorno.
    Più tardi, nel 2001, poco prima della fine del Forum Antirazzista e della emanazione della disastrosa legge Bossi-Fini, si batté insieme alle altre associazioni del forum per instaurare una collaborazione con la questura.
    Successivamente, l’Associazione Ambulatorio Città Aperta ha continuato a garantire il diritto alla salute, così come è garantito dalla Costituzione italiana (art. 32) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 35) e nonostante gli ostacoli legislativi dovuti a norme sempre più escludenti e demagogiche (oltre alla già citata Bossi-Fini, si ricordano gli obbrobri anticostituzionali sanciti dal Decreto Maroni nel 2008).
    Per continuare a sostenere il suo servizio a tutela del diritto alla salute, l’Associazione Ambulatorio Città Aperta ha bisogno di essere sostenuta: per questo ha organizzato un aperitivo di autofinanziamento e tesseramento per sabato 4 maggio 2013 alle 19.30, in Piazza Cernaia 3/6, presso Il Formicaio.
    E’ necessario sostenere il cammino di chi veglia sui diritti fondamentali, per non accorgersi, un giorno, di averli smarriti per sempre.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 374: AMBIENTE – Da Gerbonte al Monte Gottero, i boschi demaniali ai privati contro il degrado

    Dal Censimento generale dell’agricoltura 2011

    La Regione Liguria avrà pronto, entro luglio, un bando per affidare la gestione dei boschi demaniali ad aziende agricole o cooperative. La superficie regionale coperta da boschi è di circa 375mila ettari, e quasi 7mila sono demaniali: si tratta delle foreste di Testa d’Alpe, Gerbonte e Monte Ceppo nella provincia di Imperia, Barbotina, Cadibona e Deiva in provincia di Savona, Tiglieto, Lerone, La Fame, Monte Penna, Monte Zatta, Le Lame in provincia di Genova, Monte Gottero in provincia di La Spezia. Le aziende private potranno quindi entrare nella gestione di queste aree, sfruttare il bosco ed il sottobosco, facendosi carico della manutenzione delle aree lasciate al degrado.
    Le zone boschive liguri soffrono ormai i danni dell’abbandono, che ha interessato precocemente la regione, a partire da prima della seconda guerra mondiale. Gli effetti concreti sono il dissesto idrogeologico, gli incendi boschivi, lo sfaldamento del sistema dei versanti, attuato in passato attraverso i terrazzamenti e una gestione consapevole dei bacini idrografici.
    Il Wwf ha reagito dichiarando inconciliabile ed anticostituzionale l’affidamento a privati di un territorio forestale di cui è necessario garantire “biodiversità, protezione dei beni naturali, difesa del suolo, fruizione controllata da parte della collettività” (Il Secolo XIX, 2/4/2013).
    D’altra parte, l’assessore regionale all’agricoltura Barbagallo ha motivato la decisione affermando che “Il bosco il Liguria negli ultimi 100 anni è cresciuto del 60 per cento: non servono ulteriori foreste abbandonate, semmai bisogna riportare l’agricoltura nella nostra regione perché un terreno coltivato è un terreno preservato” (Il Secolo XIX, 21/3/2013).
    Che il bosco in Italia sia in continua espansione (un bosco povero e degradato, frutto dell’abbandono) è cosa risaputa (vedi anche OLI 262 ). Il censimento generale dell’agricoltura 2011, che ha preso in esame i dati del decenni 2000 – 2010, evidenzia che il settore agrosilvopastorale in Liguria non se la passa affatto bene: è evidente (vedi immagine) come il numero di aziende del settore sia fortemente diminuito – e più che in altre regioni – nell’arco di tempo in esame, così come l’indice Sat (superficie aziendale totale, che comprende campi, boschi canali ecc…), che segna una diminuzione del 39,9 per cento: la più rilevante d’Italia.
    Sono legittimi i timori del Wwf sugli abusi che potrebbero verificarsi con la gestione privata, tuttavia l’incuria e l’abbandono attuali non sono le premesse per un idilliaco ritorno alla “Natura” ma le cause del degrado ambientale e della perdita di biodiversità che affliggono la regione: la protezione dell’ambiente non può prescindere dalla conoscenza della sua storia.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 370: IMMIGRAZIONE – 27 anni a Genova in meno di 500 battute

    immagine da internet

    Alcune notizie degli ultimi giorni invitano ad allargare l’orizzonte geografico dell’informazione: una, a scala nazionale, è la nomina di Laura Boldrini come presidente della Camera. La giornalista è stata fino al 2012 portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: sono passate di sovente, negli ultimi giorni, le immagini delle sue missioni in varie parti del mondo, tra cui ex Jugoslavia, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda.
    Durante il suo incarico, Boldrini si è occupata spesso delle migrazioni nell’ambito del mediterraneo.
    L’altra notizia, a scala regionale, è la presentazione dei dati della Consulta regionale ligure per l’integrazione, elaborati da Agenzia Liguria Lavoro: se nel territorio regionale l’immigrazione continua a crescere, anche se a ritmi molto minori rispetto al passato (+6,7 per cento rispetto al 2010), a Genova l’immigrazione cresce (+ 38.501) ma non compensa la flessione totale della popolazione (-60.479).
    Scendendo ulteriormente alla scala comunale, se si scorrono le carte dell’Archivio Forum Antirazzista si riescono a definire alcune tappe della storia dell’immigrazione a Genova negli ultimi 27 anni.
    Nel 1986 il tasso tra emigrazione ed immigrazione era negativo, cioè chi emigrava superava ancora (e di migliaia di unità) il numero di chi immigrava. La voce immigrazione nei dati statistici del comune di Genova prevedeva arrivi dalle altre regioni italiane, in primo luogo il Sud, mentre dall’estero si contavano soltanto 706 ingressi, compresi quelli dalla Repubblica di San Marino. Tra le comunità straniere residenti, al primo posto quella iraniana, per la maggior parte rifugiati politici in fuga dalla rivoluzione del 1979 e dalla guerra con l’Iraq. Si contavano poi soltanto 69 marocchini residenti.
    L’anno successivo, il 1987, segna ancora un tasso negativo e chi va via supera ancora chi entra, ma la differenza si assottiglia. La comunità marocchina residente fa un poderoso salto in avanti, decuplicando le presenze che passano da 69 a 689, forse per effetto del rincaro dei beni di prima necessità, dovuto alle concessioni di re Hassan II al Fondo Monetario internazionale nei primi anni Ottanta.
    Per passare ad un saldo positivo tra ingressi e uscite si deve aspettare il 1996, quando emigrano 960 persone e ne immigrano 2759.
    La maggiore comunità residente, in quell’anno, è sempre quella marocchina, al secondo posto si attesta l’Ecuador, che ha sorpassato il Perù e si dirige verso una crescita costante. Tra il 1996 e il 1999 il numero degli albanesi residenti quadruplica (da 113 a 494): negli stessi anni la guerra in Kosovo miete migliaia di vittime e spinge alla fuga la popolazione.
    Il sorpasso tra Ecuador e Marocco, come comunità residente, avviene nel 2000, effetto butterfly della dollarizzazione avvenuta in quell’anno nello stato latinoamericano.
    Anche secondo l’ultimo rapporto della Consulta, oggi a scala regionale la comunità ecuadoriana è la più numerosa, con più di 22mila presenze, seguita dall’Albania (21.882 persone) e dal Marocco (14.761). Il tasso ingressi/uscite è tornato negativo, nel comune di Genova, causa crisi e denatalità.
    La farfalla questa volta sbatte le ali per noi?
    (Eleana Marullo)

  • OLI 369: MALI – Quando l’Africa ci interessa

    figura 1 – da facebook
    figura 2 – Fondo Kati – da flickr

    Il 1° marzo è stata ufficialmente dichiarata la fine dell’emergenza Nord Africa, iniziata nel 2011 con il diffondersi delle primavere arabe e la sorte dei 13mila richiedenti asilo ancora in carico ai centri di accoglienza rimane da definire. In rete c’è già chi è in vena di bilanci e strumentalizzazioni, e sottopone alle ire collettive di Facebook un documento con l’elenco dei rifugiati a Milano secondo la provenienza (vedi figura 1), obiettando che, tra i rifugiati, non ci sono profughi libici e per questo bisogna “rimandare tutti a casa”. A guardare bene il documento, si legge che il primo paese, per provenienza, è il Mali: ma cosa succede in Mali, e cosa c’entra tutto con l’emergenza Nord Africa? Se si considera l’Africa come un continente con una storia in rapida evoluzione e il movimento delle primavere arabe come una violenta onda d’urto che ha avuto ripercussioni anche a sud del Sahara, diventa tutto più comprensibile. A parlare del Mali, durante il ciclo di conferenze Africa Oltre: conoscere l’Africa al di là degli stereotipi, ci sono Giorgio Musso, ricercatore di Storia dell’Africa, Marco Aime, docente di antropologia all’Università di Genova e Ismael Diadié Haidara, storico, responsabile del Fondo Kati library di Timbuktu (figura 2), biblioteca che conserva manoscritti andalusi di centinaia di anni, che testimoniano la penetrazione araba in Spagna. Diaidié è uno dei tanti abitanti del Mali in fuga dal Nord del paese. Il Mali è stato presente quest’ultimo anno sulla stampa, a causa del conflitto in corso, ma ancora di più per la disponibilità di petrolio e per l’intervento armato della Francia. Il relatore descrive le carestie e turbolenze sociali avvenute negli anni, lontano dai media internazionali: il Mali divenne indipendente nel 1960, grazie anche all’opera di movimenti indipendentisti, attivi a partire dal 1948. Nel 1962 vi fu la prima grande ribellione del Nord, repressa nel sangue. La seconda avvenne nel 1990 e anch’essa finì nel sangue, risolvendosi grazie alla mediazione dell’Algeria. Fecero seguito accordi tra il governo maliano e minoranza tuareg, che popolava il nord ed era stata protagonista dei movimenti indipendentisti. Nella rivolta del 1990 aveva lottato a fianco dei tuareg anche il Fronte islamico di salvezza (Fis) dell’Algeria. Dopo le elezioni algerine del 1992, le elezioni vinte dal Fis furono annullate e l’Algeria sprofondò nella guerra civile che sarebbe durata un decennio. I guerriglieri del Fis furono spinti a sud, nel Mali, dove si unirono ai movimenti indipendentisti preesistenti. Nel 2007 si formò Al Qaida per il Maghreb islamico, che si finanzia in Mali – racconta Diaidié Haidara – soprattutto attraverso i proventi del traffico della droga. I vuoti di potere creatisi in seguito alle rivolte arabe del 2011 (e qua ci si collega con gli avvenimenti recenti e con l’effetto domino causato dai mutamenti del nord Africa) aprirono nuovi spazi i gruppi islamisti. Il crollo del regime di Gheddafi causò l’afflusso di milizie di tuareg armati, prima controllati dal regime libico, nella parte settentrionale del Mali. I tuareg, coalizzati nel Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (Mnla), combatterono per l’indipendenza dal governo centrale del Mali. Ad aprile 2012 risale l’alleanza tra il Mnla e gli islamisti, con conseguenze nefaste sulla popolazione: persecuzioni, torture, taglio delle mani e dei piedi, violenza sessuale sulle donne, distruzione di mausolei e monumenti, perdurati fino all’intervento francese. Gran parte della popolazione del nord del Mali è fuggita dalle persecuzioni, tra loro anche il relatore Diadié Haidara, che ha lasciato incustoditi i 12mila manoscritti del Fondo Kati ma che, in fuga a 55 anni dall’ennesima catastrofe del suo popolo, cerca di far conoscere all’opinione pubblica internazionale quello che sta succedendo.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 368: LIGURIA – Derivati, le regole della politica e quelle dei cittadini

    Foto da internet

    La minaccia “derivati” ha fatto sentire i suoi effetti – dal passato – anche sul Comune di Genova. La miccia è stata accesa da Il Giornale, che ne ha ricavato un’inchiesta pubblicata a partire dall’8 febbraio con l’articolo d’esordio “Il Monte dei Paschi anche a Palazzo Tursi: 118 milioni di derivati” (8/2/2013). Lo si ricorda per i lettori inesperti di ingegneria finanziaria: il derivato è uno strumento, un contratto, un accordo il quale lega il suo valore a quello di un’attività. Nel caso dei derivati acquistati dal Comune di Genova, ci si basa sull’oscillazione dei tassi di interesse dei mutui. Ritornando al caso di Genova, Il Giornale ha sollecitato l’intervento dell’assessore al Bilancio Miceli che ha dichiarato “Si tratta di due contratti, il primo stipulato nel 2002 con Unicredit per un valore di 7.272.000 euro, il secondo stipulato con Bnl nel 2001 per 13.066.882 euro con scadenza 2020” (“Derivati, la Corte vuol fare i conti col Comune”, Il Giornale 9/2/13). Sull’onda dell’inchiesta, la Lega ha proposto un’interrogazione comunale, non ammessa per ora a discussione (Il Giornale 13/2/2013). Il modo di riportare le notizie segue l’orientamento ideologico della testata, tanto che Il Giornale in un primo momento minimizza il fatto che i derivati risalgano alla giunta Pericu, rimarcando le responsabilità a riguardo dell’attuale amministrazione, mentre in altri articoli gioca sul fatto che i derivati non siano stati annullati immediatamente dal Comune, ma – contemporaneamente – una sentenza del Tar Toscana solleva questioni che sono d’ostacolo alla possibilità per le P.A. di liberarsene (“Swap impossibili da annullare”, Il Sole 24 Ore 23/2/2013). Il Secolo XIX si occupa della questione e riporta la dichiarazione di Miceli, secondo cui “si tratta, come si è detto, di due contratti senza rischi occulti o non prevedibili, che hanno sole finalità di tutela da forti oscillazioni dei tassi, per cui si valuta che in questo momento non sia conveniente rescindere questi contratti per il pagamento delle penali” (Il Secolo XIX 1/3/2013). Rimane invece silenziosa sull’argomento la Repubblica – Lavoro. L’alone di mistero che sembra comunque continuare a circondare la faccenda (a quanto ammontano le penali che impediscono di rescindere da un contratto in cui il comune, comunque, è in perdita?) riporta alla mente vicende di simili derive e simili misteri: i derivati non sono una novità per la Liguria: nel 2011 la giunta Vincenzi aveva chiuso un contratto con BNP Paribas, che costava 24 milioni di euro soltanto di interessi e che era stato siglato poco prima del suo insediamento, ancora sotto la giunta Pericu. Nel 2007 invece era stata la Regione a finire nei pasticci: un ex impiegato della banca giapponese Nomura a Londra aveva denunciato enormi ricavi ottenuti da un prestito della Regione Liguria nel 2006, (Il Secolo XIX, 6 aprile 2007, vedi anche OLI 160). Anche in quel caso, l’accordo era circondato dal massimo segreto e riserbo: il governatore Burlando dichiarava di dover seguire le “regole”. Ma non si riferiva a quelle che tutelano il diritto dei cittadini di sapere e di pretendere trasparenza, bensì a quelle contenute nei contratti ed imposte dalle banche. Ritornando al presente, al momento il sito del comune non riporta alcuna indicazione riguardo alla stipula dei contratti derivati: la trasparenza rimane uno dei punti più dolenti delle iniziative finanziarie ad alto e medio rischio intraprese dalle pubbliche amministrazioni.
    (Eleana Marullo – foto da internet)

  • OLI 367: VITTORIO FLICK – Piangiamo un amico

    Vittorio Flick è mancato il 25 febbraio.
    Le notizie di stampa lo ricordano per la sua attività di dirigente dell’Alfa Sud, responsabile dei rapporti con il personale, e perché per questo ruolo fu vittima di un attentato da parte del gruppo “Operai Combattenti per il comunismo”. Il 26 giugno 1977 gli spararono alle gambe.
    Noi lo piangiamo perché era una persona generosa, intelligente, interessata ad ascoltare gli altri. E in continua ricerca di ragioni e soluzioni per immaginare un paese migliore.
    Incontrare Vittorio era sempre occasione per parlare di politica e di futuro con passione.
    E’ stato una voce preziosa di OLI e rileggere i suoi contributi passati recenti  permette di incontrarlo ancora.
    Al suo funerale, alla Chiesa del Carmine, si sono potuti avvertire profondamente la disponibilità e l’affetto che ha regalato nella sua esistenza.
    Con Vittorio abbiamo perso un vero amico.
    (Eleana Marullo – Paola Pierantoni  – Giovanna Profumo)

  • OLI 367: ELEZIONI – Io voto solo con la mia penna

    Immagine da internet

    Sono venuti fuori dal nulla, spuntati alla chetichella dopo decenni di oblio, con la tessera elettorale intonsa, o, spesso, addirittura senza la tessera. L’esercito degli astensionisti ha deciso in parte di scendere nella pubblica piazza ed esprimere il proprio voto. Chi lavora nei seggi da molti anni non fatica a riconoscerli, anzi, neanche si deve sforzare. Lo dichiarano. Hanno dai 30 ai 45 anni, entrano affermando di non aver mai votato nella propria vita, o di non farlo da decenni. Alcuni neanche sapevano servisse la tessera e, avvertiti, se ne vanno via protestando contro la Loro burocrazia. “Loro” sono i nemici, quelli che sicuramente si frapporranno tra i neovotanti e la libera espressione del voto. Arrivati davanti alla presidente di seggio, vengono muniti di schede e matita copiativa, ma loro no, non ci stanno. Quella, d’altronde, è una matita. E non vogliono votare con la matita: il loro unico, prezioso voto, invecchiato per 10, 20 anni senza venire mai espresso, deve stillare sulla scheda indelebilmente. Uno dice “E se voto con la mia penna?” “le annullo il voto”, risponde sorridendo la presidente, pensando ad una burla, uno scherzo faceto per sdrammatizzare l’apparato ufficiale delle elezioni. “Allora chiamo i carabinieri, lo metta a verbale che me lo cancella! I miei me lo hanno detto che li cancellate, mi hanno detto di portarmi la penna e votare con quella!”. Ricondotto alla ragione, va in cabina ed esprime il suo voto ma va via bofonchiando: “me lo cancellano, me lo cancellano, Loro.” Un altro, giovanottone over 30 fresco di lampada al battesimo del voto, entra e, alla consegna della matita copiativa, richiede una penna. Alla spiegazione che la matita copiativa è indelebile, va a votare dicendo, anche lui “Lo so che poi Voi li cancellate, avevano ragione, Voi ci fate votare a matita e poi li cancellate tutti!”. Forse in molti non sanno che in un seggio è molto difficile imbrogliare: ci sono presidente, segretario e scrutatori, ci sono i rappresentanti di lista a garantire che lo scrutinio si svolga correttamente e senza brogli. Se qualcosa dovesse andare storto, il/la presidente di seggio ne risponde penalmente. La matita copiativa è lo strumento, indelebile, che si usa da sempre per votare e lascia un segno impossibile da cancellare senza rovinare la scheda. Non è tanto l’ignoranza civica abissale che pervade il popolo di ex non votanti, a preoccupare, né il legittimo dubbio che, se gli astenuti non si fossero astenuti dalle scelte politiche per tanti anni forse l’Italia avrebbe seguito un destino diverso. A preoccupare è il livore cieco che spinge a colpevolizzare, ed il pensiero paranoico che tutti siano acquattati nell’ombra ad tramare contro di loro, i giusti: ha un ché di paradossale, ha un sapore di tifoseria da stadio.
    (Eleana Marullo – foto da internet)

  • OLI 353: DONNE – Cambiare le parole per cambiare il mondo

    Nella sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale, il 22 ottobre scorso, è stato presentato il libro di Giulietta Ruggeri Cambiare le parole per cambiare il mondo. A introdurre l’argomento al pubblico – per massima parte femminile – che gremiva la sala, oltre all’autrice c’erano Emanuela Abbatecola, sociologa dell’università di Genova e l’ex ministra Livia Turco.
    La considerazione che permea la ricerca è che le parole abbiano un forte potere, poiché agiscono sul piano simbolico, modificando il significante. Quindi, gli interventi delle relatrici si sono focalizzati intorno alcune parole prese in esame dal testo: sorellanza, per iniziare. Il termine, che aveva una sua funzione nel neofemminismo degli anni 70 per contrapporre un modello differente allo stereotipo consolidato della rivalità tra donne, è superato, nella proposta dell’autrice, dal riconoscimento del valore dell’altra e dell’altro nella sua differenza. Altra espressione fortemente criticata è “pari opportunità”. Cosa la rende non accettabile? Innanzitutto, la sensazione che la parità sia un valore determinato da altri (ci si potrebbe infatti interrogare rispetto a cosa si stabilisca la parità) e, in seconda battuta, il percorso storico compiuto dall’espressione. Se infatti, all’esordio  le politiche delle pari opportunità si occupavano strettamente delle differenze di genere, successivamente il campo di intervento si è allargato fino a comprendere tutti i soggetti deboli e bisognosi. La proposta dell’autrice è di sostituire il termine “pari opportunità”, ormai inadeguato, con “politiche di genere”, che dovrebbero attraversare i generi ed essere utili sia alle donne che agli uomini, nell’ottica di una liberazione di entrambi i sessi da gabbie sociali e culturali. Altra considerazione linguistica è quella relativa all’uso delle parole che indicano professioni: se per i ruoli subalterni non si è fatta fatica a declinare al femminile (operaie, contadine…) ancora oggi si fa fatica a dire “sindaca” o “ministra”, poiché si è abituati all’esistenza di un “neutro”, applicabile indifferentemente ad entrambi i sessi. Ma questo falso neutro, in realtà, è maschile e se non si declinano le parole al femminile i significanti, ossia ciò che le parole indicano, finiscono per non esistere.
    Altro tema trattato più volte dalle relatrici è la questione del lavoro delle donne. Livia Turco ha raccontato l’iter legislativo della proposta di legge sulla questione dei tempi di vita delle donne: iniziato alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, grazie ad una iniziativa popolare che aveva messo d’accordo le donne lavoratrici di qualsiasi estrazione sociale, fu accantonata per poi venire riproposta ed approvata soltanto nel 2000. L’autrice ha poi sottolineato il paradosso per cui ogni persona viene al mondo, ma la maternità sul lavoro è ancora vista e vissuta come un imprevisto o incidente di percorso.
    Gli argomenti del libro sono numerosi ed alcuni, come il femminicidio, la disoccupazione femminile, il caso specifico di Genova, la criminalità ecc…sono stati solo accennati, Per chi vuole approfondire: Cambiare le parole per cambiare il mondo. Pari opportunità punto a capo, uno studio del caso Genova, Giulietta Ruggeri 2012, Liberodiscrivere ed..

    (Eleana Marullo)
  • OLI 349: PORTO ANTICO – Chi si occupa della marea nera?

    E’ evidente, e come tutte le cose eclatanti, è sfuggito a più di uno sguardo. Sarà sfuggito a molti dei 65mila che hanno visitato il Suq, appena concluso, rispecchiandosi durante queste luminose serate estive in un mare nero come la pece, in cui i cefali – tipici di solito come i piccioni veneziani a piazza San Marco – sono scomparsi. Non se ne saranno accorti neppure coloro che percorrono quotidianamente la sopraelevata, che da qualche tempo vedono le banchine srotolarsi sopra un mare cupo color terriccio. E magari non tutti quelli che stanno leggendo se ne sono resi conto ancora, ma il mare all’Expò è diventato nero, proprio nero, e da qualche tempo. Qualche notizia fresca si trova, da qualche ora, soltanto su la Repubblica e relativo blog: http://genova.repubblica.it/cronaca/2012/06/26/news/fiorisce_l_alga_oscura_mare_nero_al_porto_antico-37978141/: la macchia nera si estende nel bacino del Porto Antico di Genova, tra i Magazzini del Cotone ed il Museo del Mare. Da quanto riportato si legge che la Capitaneria di Porto, l’Arpal e l’Università sono intervenute solo sabato scorso (il 23 giugno), a fronte di un fenomeno che è iniziato da almeno una decina di giorni. Le cause della chiazza nera sono ancora in corso di accertamento: tra le più probabili, la fioritura di un’alga che produce polline nero, tingendo il mare. All’acqua nera, in questi ultimi due giorni si è aggiunta la spazzatura che galleggia in superficie: depositata durante l’anno dal Rio Carbonara, che sfocia presso Ponte Morosini, sale a galla dal fondale in circostanze particolari. Ma chi deve occuparsene, a questo punto? Per legge (Legge 84/94 e D.M. 14.11.1994, poi precisati dalla Circolare prot. N. 5201164 datata 13 marzo 1996 del Ministero dei Trasporti e della Navigazione), la competenze sulla salute dell’acqua portuale sono ripartite tra attività anti-inquinamento, riservata all’Autorità Marittima, ed attività di disinquinamento delle acque, che spetta invece all’Autorità Portuale. L’autorità portuale dovrebbe poi dare il servizio in appalto; in particolare, a Genova, se ne occupa la Sepg, Servizi Ecologici del Porto di Genova, società partecipata dell’Autorità Portuale. Altro ente preposto a vigilare sulla qualità delle acque costiere è la Regione, che tramite l’Arpal ha il compito di monitorare l’ecosistema costiero. I custodi delle acque portuali sono numerosi e ben definiti dalla normativa, ma è certo che qualcuno non ha vigilato abbastanza, o non si è mosso con zelo sufficiente: la marea nera con tanto di spazzatura galleggiante è ancora un mistero senza spiegazione e dipinge un’immagine decadente, che stride con la definizione di Liguria come “regina delle bandiere blu”.
    (Eleana Marullo – foto dell’autrice)