Categoria: Eleana Marullo

  • Oli 287: Egitto – Democrazia e libertà nel mondo arabo

    I cambiamenti per la democrazia e la libertà ai quali stiamo assistendo in Tunisia ed Egitto e nel mondo arabo in generale sono possibili soltanto perché oggi alla presidenza negli Stati Uniti c’è Obama. I popoli arabi, infatti, hanno sempre lottato contro i regimi autoritari, sacrificandosi per la libertà; ma le rivolte sono state represse nel sangue.
    Dopo il crollo del muro di Berlino, con la fine del vecchio ordine mondiale e dello spettro della guerra “fredda”, si sperava che non ci sarebbe più stato bisogno di regimi dittatoriali al servizio delle due alleanze militari (Nato e Varsavia) che si contendevano il controllo del mondo. Il cambiamento sperato non avvenne: negli Stati Uniti prevalse, fino all’avvento di Obama, la politica di un ordine mondiale basato sull’unilateralismo e sul controllo del mondo intero da parte di una sola potenza. Questa politica aveva ancora bisogno di dittature amiche alle quali era permesso di violare gravemente i diritti umani, reprimendo nel sangue le rivolte per la libertà e la democrazia. I movimenti democratici e laici nel mondo arabo sono stati distrutti nel silenzio totale delle “destre” e delle “sinistre” negli Stati Uniti e in Europa.
    Obama, malgrado la forte opposizione interna, cerca di rispettare le linee della nuova politica annunciata nel discorso al mondo arabo ed islamico pronunciato nel 2009 proprio al Cairo. Ben Ali ha capito che era esaurito il vecchio appoggio totale della Casa bianca. I capi dell’esercito tunisino hanno realizzato che Ben Ali era ormai esautorato ed hanno rifiutato di sparare sul popolo in rivolta. Prima di Obama questo non sarebbe stato possibile: la repressione durissima e sanguinaria operata ai danni della popolazione passava sotto silenzio in occidente,tranne che per dittatori che si opponevano all’ordine mondiale americano.
    Di Saddam e delle violazioni dei diritti umani in Iraq, ad esempio, si parlò solo dopo 1990, quando il dittatore impose l’aumento del prezzo del petrolio per la ricostruzione, alla fine della guerra decennale contro l’Iran, portata avanti per conto dell’Occidente.
    Il secondo fattore che rende possibile il cambiamento nel mondo arabo è la diffusione di Internet e delle Tv satellitari (al-Jazeera) per cui è difficile tenere nascosta la repressione. La gioia per la democrazia e la libertà che stanno avanzando nel mondo arabo è mischiata al ricordo di tutte le persone che hanno lottato e sono state sconfitte anche per il silenzio dei “democratici” occidentali. E’ triste sapere che i movimenti politici di matrice religiosa e gli integralisti sono nati proprio per colmare il vuoto lasciato da queste sconfitte, con l’appoggio dell’occidente. Dopo essere stati sostenuti contro i laici arabi, sono usati ancora oggi come spauracchio per mantenere le dittature: “meglio i dittatori come Ben Ali e Mubarak che gli integralisti al potere” o “meglio i dittatori come Mubarak che una democrazia egiziana anti israeliana”.
    Certo è che le posizioni contro le dittature nelle altre parti del mondo (Ucrania, Iran), sono più nette, chiare e tempestive.
    Speriamo non si versi più sangue in Egitto.
    (Eleana Marullo)

  • Oli 286: TUNISIA – Il popolo delle miniere e i suoi martiri

    Fotografia di Monica Profumo

    In seguito alla cacciata di Ben Alì in Tunisia, i regimi che da decenni sono insediati nel Nord Africa hanno iniziato a vacillare. Gli scossoni si sono propagati in Algeria e soprattutto in Egitto, dove Mubarak detiene il potere dal 1981, quando entrò in carica come successore di Sadat, appena assassinato.
    Come anticipato in Oli 285 (La rabbia ha radici lontane), la rivolta popolare in Tunisia è stata anticipata dai fatti accaduti nel 2008 e raccontati da Gabriele del Grande ne Il mare di mezzo al tempo dei respingimenti (Infinito, ed. 2009). Dopo i disordini scoppiati nella zona di Gafsa, ed i primi successi ottenuti dalla popolazione, il governo tunisino decise di adottare la linea dura. Anche questa volta – come nel caso attuale – l’inizio delle violenze fu segnato dalla morte di un ragazzo, tanto tragica quanto simbolica: il 6 maggio 2008 tre giovani disoccupati occuparono la stazione elettrica di Tabeddid e interruppero la corrente elettrica agli impianti di produzione dei fosfati. Avevano ricevuto la promessa di un lavoro ma, una volta presentatisi alla Compagnia dei fosfati, avevano scoperto di essere scomparsi dalle liste. Con la loro protesta chiedevano di poter lavorare e la garanzia di un contratto.
    La polizia intervenne immediatamente ed intimò ai giovani di andarsene, ma l’appoggio della popolazione era tale ed il malcontento così universalmente condiviso che uno dei tre ebbe il coraggio di resistere alla pressione: Hicham Ben Jeddou El Alaymi afferrò tra le mani le sbarre dell’alta tensione e sfidò le forze dell’ordine «Attaccate la corrente adesso». Pochi secondi dopo, il corpo del ragazzo giaceva carbonizzato ai piedi delle autorità.

    Fotografia di Monica Profumo

    Fu così che iniziò la guerriglia, con la polizia da una parte, che esercitava violenza e commetteva abusi senza controllo, mietendo vittime, e la popolazione che scendeva in piazza e reagiva a sassate.
    Il 6 giugno 2008 la polizia sparò sulla folla che manifestava, vi furono feriti e vittime. Arresti di centinaia di persone, principalmente sindacalisti e loro familiari, decapitarono la protesta. Furono tutti rapidamente processati e condannati con l’accusa di associazione a delinquere.
    Erano rimaste fuori dal carcere le donne, che presero in mano le redini della protesta e tornarono in piazza. Zakiya Dhifaoui, poetessa e corrispondente di un giornale di opposizione, raggiunse la città di Redeyef per scrivere un reportage sul ruolo delle donne nella protesta, ma, in tutta risposta, anche le referenti furono arrestate. La giornalista ebbe una condanna a quattro mesi di carcere. Fu un chiaro segnale: i giornalisti dovevano evitare la regione di Gafsa e tacere di arresti e violenze. Youtube e Dailymotion furono oscurati in Tunisia per evitare che si diffondessero i video delle violenze commesse dalle forze dell’ordine. Operatori e cameramen delle tv che appoggiavano la protesta furono arrestati o scomparvero misteriosamente. Le personalità che avevano guidato e sostenuto la protesta finirono ad ingrossare la popolazione delle carceri. Quelle stesse carceri, nei giorni scorsi, sono state assaltate e date alle fiamme per liberare i detenuti (segue).
    (Eleana Marullo)

  • OLI 285: TUNISIA – La rabbia ha radici lontane

    Foto di Monica Profumo

    La crisi tunisina non ha catalizzato l’attenzione mediatica, se non come un fatto di politica estera in un paese lontano. In realtà la Tunisia è a 20 minuti di volo dalla Sicilia ed i rapporti economici con l’Italia sono fitti. Un riepilogo dei fatti: la rivolta si è propagata attraverso i social network e con il tam tam dei cellulari, la rabbia del popolo tunisino è scoppiata dopo la morte di Mohamed Buaziz, il giovane laureato che vendeva la frutta e si è dato fuoco dopo che la polizia gli aveva sequestrato la merce e lo aveva umiliato schiaffeggiandolo. Gli scontri più sanguinosi sono scoppiati intorno alla zona di Kasserine; gli incidenti sono segnalati e localizzati direttamente dai cittadini tunisini a questo indirizzo http://tunisie.crowdmap.com/.
    Il giovane Buaziz è la prima vittima della crisi; alla fine, il bilancio ammonta a 78 morti e 94 feriti. Il presidente Ben Ali sopraffatto dagli eventi infine è fuggito in Arabia Saudita ed il governo è passato, provvisoriamente, al premier Ghannouchi.
    La situazione in Tunisia è critica ormai da qualche anno. Un quadro dei problemi che hanno attanagliato recentemente il paese viene offerto da Gabriele del Grande ne Il mare di mezzo al tempo dei respingimenti (Infinito Edizioni, 2009), che racconta la grave situazione di uno stato sottoposto all’arbitrio del regime ed agli abusi della polizia

    Foto di Monica Profumo

    Nel 2008 la regione di Gafsa, quasi al confine con l’Algeria, fu scossa da una violenta insurrezione, che ebbe scarsa rilevanza nella stampa internazionale. A Gafsa si trova uno dei più grandi giacimenti di fosfati al mondo, scoperto durante l’occupazione coloniale francese. L’economia della regione fu stravolta dall’apertura delle miniere: arrivò manodopera da tutto il Grande Maghreb e perfino dall’Italia. La concentrazione di lavoratori diede origine alla nascita del sindacato tunisino.
    Le miniere, nazionalizzate dopo il 1957, andavano a gonfie vele al tempo dell’insurrezione del 2008 e la Tunisia era il quinto paese produttore al mondo. Ma, racconta Del Grande, le cose non andavano altrettanto bene per i lavoratori: il giacimento era in preda ad una crisi ventennale, la modernizzazione aveva aumentato la produzione dimezzando il personale, il tasso di disoccupazione cresceva senza sosta, mentre qualunque altra riconversione dell’area era ormai impossibile: l’inquinamento aveva avvelenato le falde acquifere e reso impraticabile agricoltura ed allevamento.
    Anche la rivolta del 2008, come quella attuale, scoppiò tra i giovani del paese ed ebbe come scintilla l’accesso al lavoro: la Compagnia dei Fosfati (Cpg) indisse un concorso pubblico per l’assegnazione di 80 posti. Quando vennero resi pubblici i risultati, fu chiaro che il concorso era truccato e che erano stati selezionati soltanto parenti e raccomandati. I giovani disoccupati occuparono tutta la città di Redeyef, raccogliendo la solidarietà della popolazione. Le autorità locali diedero inizio ad un negoziato che, dopo un esordio promettente, si interruppe, mentre i disoccupati furono sgomberati. A Tunisi nacque il Comitato nazionale di solidarietà al popolo delle miniere. Il fermento e la partecipazione intorno alla rivolta allarmarono il regime e furono quindi sedati dall’intervento della polizia (7 aprile 2008). Ne seguì l’arresto di una trentina di uomini che erano coinvolti nel movimento. Agli arresti scoppiò uno sciopero generale, alla fine, grazie alla protesta popolare, i sindacalisti arrestati furono rilasciati.
    Il ricordo delle sommosse del 2008 deve aver giocato un ruolo importante nell’accelerare i tempi e amplificare la violenza della reazione di governo durante la crisi attuale. (Segue)

    (Eleana Marullo)

  • OLI 278: STORIA – “Morte agli Italiani” ovvero massacrarsi fra disperati


    Nove operai stranieri linciati, decine e decine di feriti, durante agitazioni popolari a sfondo razziale finite in un bagno di sangue. Ad accanirsi contro i migranti, la popolazione locale, soprattutto le fasce sociali più deboli. Il torto delle vittime, accettare, per disperazione, di svolgere i lavori più umili e faticosi, accontentandosi di salari ridotti e sottoponendosi turni massacranti. Scegliere di sfinirsi a cottimo, fino allo stremo delle forze, pur di racimolare qualche spicciolo in più. Essere quindi, diventati più appetibili per l’economia locale.
    Non si tratta di cronaca recente (sembrerebbe?), ma dell’analisi storica di un massacro avvenuto a fine Ottocento nelle saline francesi di Aigues Mortes, in Camargue, ai danni degli operai italiani. Morte agli italiani (di Enzo Barnabà, Ed. Infinito, 120 pp.) racconta i fatti del 17 agosto 1893, inquadrandoli nel contesto storico ed esaminando gli errori dei partiti politici e le omissioni dei governi.
    Si delinea il prototipo dell’emigrante italiano: giovane, proveniente da vallate e paesi in cui l’unico sostentamento era l’agricoltura montana, disposto a svolgere i lavori più umili, anche a condizioni di vita e di lavoro durissime. La crisi aveva portato i lavoratori francesi a guardare con diffidenza questi “mansueti e laboriosi” italiani. All’insicurezza economica si era aggiunta la campagna battente della stampa nazionalista, che diffondeva la psicosi dell’invasione italiana, per difendersi dalla quale era necessario che i francesi salvaguardassero “i concetti di famiglia, nazione e razza”.
    L’autore esamina a fondo le colpe dei socialisti francesi. Essi, di fronte al problema reale della crisi e di una massiccia presenza di italiani nelle zone più disagiate della Francia, avevano dato soluzioni meramente ideologiche, tirando in ballo “la fratellanza fra i popoli”, senza superare il rituale dei comunicati e facendosi sedurre di quando in quando da derive xenofobe.
    Questi fattori deflagrarono ad Aigues Mortes, fino al parossismo del 17 agosto. Nove italiani, che lavorarono alle saline, furono linciati dalla folla mentre venivano scortati dalle forze dell’ordine, per essere estradati dopo i primi scontri.
    Il processo che seguì – durato quattro giorni in tutto – fu farsesco: ai governi di Italia e Francia interessava lasciarsi alle spalle la vicenda il prima possibile. Pochi i capri espiatori: un italiano, clandestino, fu condannato per aver innescato le violenze, l’agente consolare di Aigues Mortes fu deposto. Il resto degli imputati francesi ottennero l’assoluzione. I rapporti successivi tra le due nazioni andarono migliorando. “L’Italia ha dimenticato”, scrive Gian Antonio Stella nella prefazione.
    Un libro da possedere e diffondere: breve e conciso, si legge più o meno nel tempo di un quotidiano. E, forse, aiuta un po’ di più a leggere il presente.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 277: FESTIVAL DELLA SCIENZA – I piccoli futuri italiani che amano la Torre di Pisa

    Festival della Scienza. Un laboratorio prevede che i partecipanti, bambini e ragazzi delle medie, disegnino una carta geografica secondo le loro conoscenze. Gli animatori stimolano i giovani partecipanti “Che luogo conoscete, che città avete visto, che cosa immaginate?”. Animali, monumenti, bandiere, mostri, paure e la lavagna si popola.

    I bambini di una tra le prime classi si siedono rumorosi sul tappeto, e sulla carta piazzano innanzitutto i continenti. Molto piccoli, di prima elementare, hanno una geografia un po’ confusa ma colorata e piena di spunti per capire il loro mondo. “Cosa ci mettiamo sulla nostra mappa, bambini?”. Uno gnomo dalla felpa grigia si alza e dice “Mettiamo la Francia” “E dove” incalza l’animatore “In Europa”.”Altri posti?” “La Spagna!-in Europa” “La Germania – in Europa”.

    Una maestra interrompe il gioco e si rivolge ad un altro scricciolo dal nome e dall’aspetto esotico e gli propone “Mettiamo sulla carta il luogo da cui provengono i tuoi genitori, Mukesh?“ e lui risponde “Ah si, l’India” e con il pennarello disegna una bella India tra la Francia e l’Italia, nel bel mezzo d’Europa…

    Nella stessa giornata, un altro bambino patito di geografia e proveniente dal Sudamerica, sui nove anni, scalpita. “Cosa vuoi disegnare, Juan? Un monumento del tuo Paese?”. “Si, risponde il bimbo, con un sorriso “la Torre di Pisa!”.

    Qualche turno dopo un altro bambino, sempre di sei, sette anni, decide di disegnare qualcosa sul continente da cui è arrivato, l’Asia: è un posto in cui è stato da poco ed ha visto degli enormi ottovolanti: si chiama Gardaland…”.

    Caso complicato, con una ragazzina cinese un po’ più grande: qualche difficoltà di lingua, tanta timidezza, ai suoi compagni che le chiedono di disegnare il suo paese o qualcos’altro, risponde che lei non sa niente, non conosce nulla, non sa disegnare e non le piace nulla. Verso la fine del laboratorio però si alza e disegna un po’ imbarazzata la cosa che le è venuta in mente: la Torre di Pisa.

    Sembra proprio che queste terze generazioni, questi giovani studenti abbiano ben chiaro qual è il loro Paese e si riconoscano in esso, nella sua lingua, nei suoi luoghi e monumenti. Peccato che non si possa affermare il contrario, visto che il Paese – con le sue leggi miopi – non li riconosce come propri cittadini.

    (Eleana Marullo)

  • OLI 271: MIGRANTI – I quiz sono incomprensibili e la patente diventa un miraggio

    L’italiano è morto. La punteggiatura è ormai generata dal caso. I congiuntivi defungono, giorno dopo giorno, l’uso comune ha dimenticato, in un processo irreversibile, migliaia di vocaboli e si è ridotto alle quattro parole ripetute senza tregua dalla Tv.
    Esiste una sola isola, arcaica e tutelata per legge, dove vigono, anzi proliferano a sproposito, arcaismi, termini obsoleti e periodi lunghi con infinite subordinate: i quiz per l’esame teorico della patente B.
    Questa giungla di termini, sinonimi, veri e propri test di logica e trabocchetti linguistici è piuttosto ostica già per gli italiani; la situazione si complica se, a dover affrontare l’esame, sono degli stranieri, magari con una buona – od ottima – competenza linguistica, ma inermi di fronte alle trappole dei quiz.
    Fino al settembre 2006 era possibile per gli stranieri sostenere la prova d’esame teorico come orale, con quattro domande, che sostituivano la paginata di quiz. Successivamente una modifica del Codice della strada ha eliminato questa possibilità, introducendo l’esame informatizzato e la possibilità di impostare sette differenti lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, russo, cinese e arabo). Detta così sembrerebbe la soluzione ottimale.
    In realtà non è tutto facile come sembra. Alcune traduzioni in lingua sono meno comprensibili del pur astruso italiano ministeriale: per la lingua araba, ad esempio, la traduzione adatta per un marocchino spesso non è comprensibile per un libanese, la varietà linguistica regionale non è presa in considerazione e le traduzioni in alcuni casi non sono esatte, rendendo difficile rimanere entro il margine dei quattro errori.). L’esame diventa un ostacolo insormontabile se si conosce sommariamente l’italiano e solo qualche dialetto escluso dal ventaglio di lingue ammesse per il test. Vedi il caso degli indiani del Punjab residenti nella provincia di Piacenza, che nel 2009 hanno risolto il problema acquistando patenti contraffatte (http://www.atopiacenza.it/Allegati/Eventi/2009.08.27_PRO43_2782009-123757.pdf .
    Il Codice della strada è stato aggiornato di recente, lo scorso agosto, ma nessun intervento si è posto il problema di questa situazione, per la quale il tasso dei bocciati tra gli stranieri, all’esame di guida, è molto più alto rispetto agli italiani, e non per carenze sulla conoscenza delle norme ma per il gap linguistico.
    Se nell’esame per la patente gli stranieri devono essere equiparati agli italiani (come non avviene, purtroppo, in molti altri casi, come alcuni concorsi pubblici, il famoso “bonus bebè”, i bonus vacanze, tanto per citare qualche caso spicciolo), perché non rimodernare i quiz, sciogliendo le formule complicate, le doppie negazioni e le trappole logiche, sostituendo i termini desueti? Si otterrebbe un oggetto in grado di selezionare i futuri guidatori in base alla reale conoscenza del codice stradale, anziché su parametri linguistici. E forse ne gioverebbero anche gli italiani.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 269: CULTURA – Antifemminismo in rete

    Certo è passato molto tempo dal primo atto separatista, con il quale nel 1967 negli Stati Uniti  le studentesse presenti alla conferenza nazionale della “Associazione studentesca per la società democratica” decisero di abbandonare il congresso e di riunirsi separatamente per discutere della questione “donna”.
    Eppure il quasi mezzo secolo che ci separa da quello che può essere considerato l’inizio della storia politica del femminismo non è nulla rispetto alla distanza culturale che si è generata.
    Basta un giro sui social network per capire come il termine femminismo oggi si sia svuotato di qualsiasi componente politica ed abbia perso significato per divenire spesso una etichetta da appiccicare ad eventi di cronaca e strumentalizzarli. Al contrario, l’antifemminismo è vitale e rigoglioso; se ne possono seguire le tracce attraverso una breve ricerca su Facebook.
    Un gruppo si intitola “Il Nazi-Femminismo sia processato per crimini contro l’umanità a Norimberga!” e si presenta come voce di denuncia “in un mondo che non ha ancora dimenticato il nazifascismo è importante preservare la memoria e proteggere la società da tutte le possibili tentazioni di follia e dominio di un essere umano sull’altro” (2171 iscritti). Un altro “Il femminismo è una pratica anticostituzionale” (1156 iscritti), si appella agli articoli 3 e 29 della Costituzione italiana, che sarebbero infranti, nella tesi degli anonimi curatori, dai principi del femminismo.
    Vi sono altri gruppi, come “Bigenitorialità e autodeterminazione sono inconciliabili per il femminismo” (1427 iscritti)  o “Femminismo + separazioni = maschicidio! 2000 papà suicidi ogni anno in UE!” (2446 iscritti) che legano strettamente il femminismo al regime di affidamento dei figli in caso di separazione, ed al mancato riconoscimento del ruolo paterno nell’educazione di essi. La genitorialità sembra essere, dagli interventi leggibili nei gruppi, il territorio dove il conflitto uomo-donna è più acceso. Tanto che l’argomento permea quasi totalmente tutte le pagine antifemministe reperite nella ricerca.
    Un altro gruppo, che si chiama insospettabilmente “Donne e Femminismo” (2419 iscritti), come gli altri senza amministratori, segue la falsariga dei precedenti, proponendosi di combattere i casi di misandria, denunciando gli effetti del “diritto sessuato”, ossia di squilibri della legge a discapito degli uomini che favoriscono le donne, citando a sostegno delle proprie tesi perfino i casi di infanticidio. Altra pagina insospettabile “Pari Opportunità”, riporta i medesimi link delle pagine precedenti e lo stesso livore antifemminista.
    L’omogeneità dei contenuti farebbe pensare che tutti i gruppi menzionati facciano capo alla stessa persona o allo stesso gruppo di persone, gli iscritti sono tuttavia migliaia, uomini e donne. L’antifemminismo sul social network sembra di moda, più di quanto non lo siano, di questi tempi, i diritti delle donne.
    (Eleana Marullo)
  • Oli 268: MIGRANTI – Un appello disperato dalle carceri libiche

    29 giugno: la rivolta di un gruppo di eritrei rinchiusi nel carcere di Misratah, in Libia, viene sedata con la carica della polizia.

    Come conseguenza, duecentocinquanta persone, migranti in cerca di asilo politico, sono deportate nel carcere di Brak, nel deserto libico, attraverso gli ormai noti carri-container. I profughi eritrei sono sottoposti a trattamenti degradanti e rischiano di essere rimpatriati nel paese d’origine, dove rischiano la vita, oppure di essere dispersi nel deserto (pratica tutt’altro che inusuale per la polizia libica).

    I prigionieri sono riusciti a far conoscere la loro situazione tramite un sms, ripreso poi da L’Unità (2 luglio) “Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non vogliamo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate” .
    Alcune delle persone rinchiuse a Brak sono tra i richiedenti asilo ricacciati verso le coste libiche durante i respingimenti collettivi, approvati dal parlamento nel 2009.
    Al momento i media continuano ad ignorare la situazione, tranne alcune eccezioni (L’Unità, GR3, RaiNews24 e un trafiletto su Repubblica del 6 luglio). Ma da più parti prendono vita iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica e richiedere l’intervento del governo: la lettera agli italiani di Dagmawi Yimer (tra gli autori di “Come un uomo sulla terra”), l’appello de L’Unità, e quello degli scrittori Lucarelli e De Cataldo, che si conclude così: “Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire”.
    E’ previsto un sit-in giovedì 8 luglio alle 17, davanti a Palazzo Chigi.


    http://www.terrelibere.org/terrediconfine/4025-la-sala-di-tortura-di-brak-l-altro-volto-degli-accordi-italia-libia

    http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=19803


    (Eleana Marullo)

  • OLI 262: AMBIENTE – I boschi avanzano ma il ministro non lo sa

    Stefania Prestigiacomo, ministro per l’Ambiente, ha chiuso, con il suo intervento, la conferenza nazionale per la biodiversità, che si è tenuta a Roma il 22 Maggio scorso, nell’ambito delle iniziative previste per il 2010, l’anno internazionale per la biodiversità. Il ministro ha insistito sulla necessità di un rinnovamento delle normativa sulle aree protette e sull’importanza della biodiversità, affermando “Se scompare una specie animale o vegetale in Italia, se una zona umida viene compromessa, se un fiume viene distrutto dall’inquinamento, significa che si perde un pezzo di quel puzzle al centro del quale ci siamo noi. E gli esempi, purtroppo tragici sono sotto gli occhi di tutti”. E’ poi intervenuta anche sul legame che intercorre tra mancata tutela dell’ambiente e dissesti idrogeologici “Le frane causate dall’uomo, laddove ha modificato indiscriminatamente l’equilibrio del territorio ci hanno fatto pagare un tributo pesante di vite umane e ci dicono che stravolgere gli assetti naturali può essere micidiale anche per l’uomo”.
    Le affermazioni del ministro sarebbero condivisibili ed inconfutabili, se non cozzassero palesemente con le sue dichiarazioni in merito ad alcuni fatti recenti, che ne dimostrano la scarsa competenza.
    La rivista forestale “Sherwood” segnala (http://www.rivistasherwood.it/blog/479-tapiro-verde-a-striscia-la-notizia.html) un servizio andato in onda su Striscia la notizia il 14 maggio, in cui il taglio regolare di un bosco ceduo di castagno, nell’ambito di un regime a rotazione e nel pieno rispetto della normativa vigente, veniva definito dall’inviato “uno scempio”; il bosco che, secondo le parole del giornalista, “non c’è più”, rettifica Sherwood, è destinato a ricrescere dalle ceppaie che sono rimaste, insieme ad un numero di alberi determinato per legge in base alla necessità di garantire luce sufficiente da permettere la crescita dei nuovi castagni (esiste anche un gruppo su Facebook che denuncia l’accaduto http://www.facebook.com/?ref=home#!/group.php?gid=118236094883274&v=wall&ref=mf).
    L’informazione distorta che filtra dal servizio è che un regolare taglio di bosco possa causare pericoli e dissesti idrogeologici, mentre l’esperienza forestale e le ricerche ambientali sul campo dimostrano come invece la mancata gestione dei boschi e dei versanti, conseguente all’abbandono delle aree rurali, sia la prima causa di frane e smottamenti.
    Queste nozioni elementari, che dovrebbero essere l’ABC di chi si occupa dell’ambiente, sfuggono evidentemente al ministro Prestigiacomo, che ha ringraziato Striscia la Notizia per “l’ennesimo scoop in campo ambientale”, associando il taglio degli alberi a possibili disastri ambientali ed ha affermato “sembra assurdo ma non esiste uno strumento per capire quanti alberi ci sono nel nostro Paese”.
    Lo strumento, invece, esiste e si chiama Inventario Nazionale delle Foreste e dei Serbatoi di Carbonio, ed è stato completato nel 2005. Grazie ad esso e, a studi di settore che ormai da decenni si occupano dell’argomento, sappiamo che il bosco avanza inesorabilmente nelle zone rurali prive di gestione, chiudendo le zone aperte in cui un tempo crescevano, per esempio, fiori che la legge tutela (orchidee, narcisi ecc..) e che sono destinati a scomparire, impoverendo la biodiversità nazionale, se abbandonati ad una tutela passiva.
    L’inventario informa, soprattutto,del fatto che “che i boschi, in Italia, sono raddoppiati rispetto agli anni ’50, triplicati rispetto al primo dopoguerra”.
    Peccato che il ministro per l’ambiente non lo sappia.
    (Eleana Marullo)