Categoria: Arianna Musso

  • OLI 429: SCIENZA: Marc di primavera e GizMark

    OLI 429: SCIENZA: Marc di primavera e GizMark

    Il Marc di primavera di quest’anno è stato, non solo la grande fiera dell’elettronica che segna uno degli appuntamenti della nostra città, ma anche GizMark.

     Al centro della fiera vi era un luogo per coloro che si occupano di tecnologia a Genova, un luogo di divulgazione e di scambio dove si sono susseguiti molti interventi di buon livello.

    Intervento fuori programma del ricercatore-ingegnere Fabrizio Barberis, con un excursus sulla tecnologia additiva nel campo biomedico, l’evoluzione delle nuove protesi stampate in tecnologia additiva e gli ultimi esperimenti sui tessuti, sottolnieando come il tema della bioetica stia diventando sempre più impellente.

    Il ricercatore del CNR e ISMAR Marco Faimali ha parlato dei ricercatori nell’Antartide,della loro preparazione e dei rischi ai quali vanno incontro e del perché queste missioni siano così importanti:
     – Gli alieni ci sono venuti a cercare, ma non ci hanno trovato perché cercavano un pianeta chiamato Terra e invece trovavano solo un pianeta blu che si dovrebbe chiamare Mare-, ha concluso scherzando.

    Accanto al palco c’erano due stand di divulgazione tecnologica differenti. I ragazzi di OPEN LAB, (openlab.dibris.unige.it,),  libera associazione di studenti accomunati dalla passione per l’informatica e con la voglia di condividere il sapere con la comunità, presentavano il progetto LEGO Mindstorm, ovvero la programmazione e dimostrazione del funzionamento di robottini Lego con delle funzioni automatiche, che permettono di compiere alcune azioni, come lo stare in equilibrio, muoversi nello spazio e giocare a calcio! Anche più robottini inseme in veri e propri mach.Il professor Tacchella dell’università di Ingegneria informatica.è intervenuto sulle macchine a guida automatica:
    Era divertente vedere dei ragazzini e a volte dei bambini che si avvicinavano incuriositi ad ascoltare le spiegazioni sulla teoria del pendolo inverso, spesso presto distratti da qualche drone volante.

    La società di progettazione per la stampa 3D, Astrati, insieme a Technimold (rivenditore Stratasys) e Selletek (rivenditore 3D System), hanno portato una vetrina degna di molte fiere internazionali di tecnologia additiva. Avevano esposte ben 8 tecnologie differenti più un esempio di scansione per il reverse-engineering. Per i non addetti ai lavori Stratasys e 3D System sono i leader mondiali della stampa 3D. Nello stand era presente, inoltre, uno schermo sul quale si mostrava l’utilizzo del software, Fusion 360 e Inventor, di Autodesk, per la progettazione additiva. Astrati ha presentato due interventi sul palco incentrati, il primo, sul mostrare le diverse tecnologie e come queste non si soppiantino a vicenda ma invece si moltiplicano, trovando nuovi campi di applicazione; il secondo sui vantaggi di una progettazione appositamente pensata per la stampa attraverso l’ottimizzazione topologica.

    Come è stato accolta la tecnologia additiva al Marc? I più erano curiosi, interessati e strabiliati nel vedere la precisione e la varietà data dalle diverse tecnologie. Nessuno aveva mai visto i metalli. I più acculturati sulla stampa 3D erano i più meravigliati: gente che aveva una stampante consumer o in ufficio o a casa che per la prima volta capiva perché non riusciva ad ottenere quello che desiderava. Spesso solamente perché provavano ad ottenere con una FDM ciò che si può ottenere solo con una SLA o una polyjet. Un signore invece, invitato a vedere le diverse tecnologie, ha risposto: – No, io vado solo ai FAB LAB. – Come se ci fosse un conflitto tra i FAB LAB e il resto del mondo, per i non addetti i FabLab sono luoghi dove la tecnologia viene messa a disposizione in libero scambio, a Genova ve ne è uno al Buridda.
    Un ragazzino di tredici anni si è avvicinato allo schermo dove si mostravano i modelli costruiti in Fusion. – Io uso Skech up, ma non vengono bene. Questo cosa è?- Enrico di Astrati gli spiega, lui ringrazia, dopo un’oretta torna con un amico a fargli vedere.

    Il bello del Marc è che è un grande ritrovo di “smanettoni” di tutte le età e gradi, dai radioamatori agli appassionati di fotografia, giradischi o computer: riuscire a convogliare questo interesse e questa voglia di conoscenza è una grande sfida.
    Paolo Carpi di Studiofulcro vuole andare avanti ed espandere la parte dello GizMark per l’edizione di Dicembre creando una sinergia tra le università, che erano presenti e propositive, con i licei e gli istituti superiori, oltre che con le aziende e il tessuto produttivo della nostra città.

    Perché la tecnologia è una parte importante della cultura della nostra città.

    Arianna Musso

  • OLI 429: TEATROGIORNALE – Al parco giochi

    La mamma con la sua bambina esce per andare al parco giochi.

     – Stai vicina alla mamma, tesoro, dai sempre la mano, che in strada ci sono le macchine che sono grandi e possono fati tanta, tanta bua.-  La bambina è vestita di rosa con una grande “Anna” disegnata sulla maglietta, sorride e tiene stretta la sua manina in quella della mamma.
     – Quando arriviamo al parco non devi mai perdere di vista la mamma.
     – Ci sarà Camilla?
     – Penso di sì tesoro, ho sentito la sua mamma oggi a pranzo, dopo l’asilo venivano anche loro al parco.
     – E Consuelo?
     – Chi è Consuelo, cara?
     – Una mia compagna di asilo.
     – Non lo so, ma se la vedi fammi conoscere la sua mamma.
     – Io non la conosco la sua mamma, viene sempre con il papà.
     – Anche il papà va bene, anche se non credo che verranno al parco, tesoro.

     Arrivano ai giochi, Camilla è già lì che la aspetta e le va incontro con due mini pony pieni di mollettine glitterate.
     – Hai sentito di ieri? Chiede la mamma di Camilla alla mamma di “Tesoro”, è una ragazza sui trentacinque anni, capelli corti e i-phone.
     – Mi è arrivato un what’s up e non ci volevo credere.
     – Credici, la mamma di Carlotta è una mia cara amica, non è una che si inventa certe cose.
     – Ma è vero che è rumena?
     – No, italiana. Sembra rumena perché è bionda ma no, è italiana, non ha un accento straniero. – Magari è nata in Italia.
     – La mamma di Carlotta mi ha detto che si chiama Elisabetta, lo ha chiesto e poi ha un ciondolo con scritto Elisabetta.
     – Incredibile, peccato che non l’abbia fotografata.
     – Chi?
     – Questa ragazzina che voleva rubare Carlotta!
     – Tredici anni e rubare i bambini…Pensa che stava giocando con Carlotta, la teneva per mano e poi, pian pianino si stava allontanando. La mamma di Carlotta gli ha urlato : “Che fai?”
     – Meno male che è una mamma attenta, se no, chissà dove finiva… – Te lo dico io dove finiva… Comunque questa gli ha risposto: “è con me!”
     – Cosa? è con me? Ma che sfrontata… è con me?
     – Allora la mamma di Carlotta gli si è avventata contro
     – Come minimo
     – Poi Carlotta ha cercato di scappare
     – E quella?
     – Non la lasciava andare. Ed è scappata.
     – Chi?
     – La rapitrice.
     – E Carlotta?
     – Per fortuna è riuscita a divincolarsi.
     – E allora come ha fatto a sapere che si chiama Elisabetta?
     – L’ha rincontrata nel parco.
     – Cercava di rubare altre bambine, come minimo.
     – E allora la mamma di Carlotta, anche se a quel punto mi sono unita anche io ed eravamo in otto e l’abbiamo accerchiata così che non potesse più scappare…
     – Brave!
     – Le ha chiesto: “Come ti chiami? Sei qui da sola o hai dei complici?”
     – E quella?
     – E quella ha detto che era al parco per giocare e il padre la aspettava fuori, allora ci siamo tutte girate verso l’uscita e quella è scappata di nuovo. Sono furbe.
     – E siete andate fuori?
     – Sì, certo era pieno di macchine che aspettavano, dentro ogni macchina un uomo solo. Il motore acceso, pronti a fuggire.
     – Meno male, meno male che la mamma di Carlotta è attenta.

     La mamma di Camilla apre la bocca, gli occhi le si riempiono di terrore e urla. Urla più forte che i suoi polmoni da ex fumatrice di Marlboro prima della gravidanza le possano permettere.
    La mamma di “Tesoro” si gira e lo vede: Un uomo di una quarantina d’anni è chino sulle loro bambine e le sta accarezzando sulla testa.
    L’urlo congela la scena per qualche istante prima che l’uomo alzi gli occhi e veda le due donne che gli piombano addosso. Istintivamente abbraccia le bambine per proteggerle da quelle che sembrano due folli in preda a una crisi, aggravando così la sua situazione. Una terza donna che è seduta lì vicino, che anche lei ha ricevuto un post di Facebook il giorno prima, in cui si spiegava la terribile emergenza rapimenti dei bambini nei parchi, si avventa sull’uomo con una borsa piena di succhi biologici e merendine al farro, sbattendogliela ripetutamente sul viso. Contemporaneamente la mamma di “Tesoro” fotografa il rapitore con il suo Nokia e condivide l’immagine su Facebook e Twitter digitandoci sotto: “Chi conosce quest’uomo? Ha cercato di rapire mia figlia”.
    Nel giro di sedici ore l’uomo fotografato perderà il posto di lavoro, ora però è caduto bocconi a terra e sei mamme, altre tre sono soccorse nel frattempo, hanno iniziato a tirargli calci e pugni per non farlo rialzare e tutte chiamano contemporaneamente la polizia.
     Nessuna sente le bambine piangere, sopratutto Consuelo che sussurra:
     – Papà.

    Dal secolo XIX: “Voleva rapire due bambine al parco: giallo su what’up”

      Arianna Musso

  • OLI 424: TEATRO – Iqbal, la libertà in scena

    Due oggetti deposti sul pavimento.
    I passi di chi porta un tappeto che viene srotolato davanti a noi.
    Passi veloci, capriole: i ragazzi si presentano nome e anni: undici, sedici, tredici anni.
    Giocano al gioco del prigioniero, una parola risuona a più voci: “Libero”.

    Questo l’inizio dello spettacolo “Parlaci di Iqbal” (Palazzo della Nuova Borsa in scena ancora ore venerdì 17 e sabato 18 aprile, ore 20.30 – ingresso libero, spettacolo proposto all’interno della manifestazione “La Storia In Piazza” che quest’anno ha come titolo ” Le età del capitalismo”.)

    I ragazzi che agivano la storia erano tutti, senza distinzione, consapevoli che solo attraverso la pulizia dei movimenti e il giusto ritmo della parola, avrebbero potuto passare la storia di Iqbal. Una presenza che si acquisisce attraverso una pratica del teatro, attraverso l’esercizio e il gioco fatto “sul serio”.
    Pochi oggetti hanno narrato la storia: due strumenti per la fabbricazione dei tappeti, una lunga stoffa che simboleggiava il fiume e il gioco perduto, la bandiera del BLLF – l’associazione che si batte per la fine della schiavitù – un mappamondo che racconta il viaggio di Iqbal, da bimbo libero, per raccontare la sua storia al mondo; poi una penna che lui contrappone agli strumenti di lavoro, la penna come simbolo di libertà, delle biciclette – la bicicletta riversa dopo l’assassinio di Iqbal, e le molte biciclette che ci hanno circondato, correndo attorno a noi del pubblico, le biciclette che pedalano i migliaia di bambini schiavi che ci sono ancora del mondo.
    La Sala delle Grida, al palazzo della Borsa, è stato un palcoscenico totale, dove gli spettatori sono stati circondati e trasportati in un altro mondo. La drammaturgia è stata delicata, alternando momenti emotivamente forti a momenti di sfogo e gioco, sempre inerenti e utili alla narrazione.

    Il piccolo Iqbal fugge dalla fabbrica di tappeti dove è schiavo e va alla manifestazione del BLLF, un attivista lo nota e gli chiede chi sia, ma il bambino non riesce a parlare, non vuole scoprirsi davanti a tutti, quindi gli racconta nell’orecchio la sua storia. L’attivista, dopo averlo ascoltato (il pubblico no, rimane in attesa, in ascolto, attento), gli dice:
    – Bene, se vuoi essere libero devi andare su quel palco e denunciare il tuo padrone davanti a tutti.
    Successivamente gli attivisti del BLLF lo scortano dal suo padrone e lui, Iqbal, a soli dieci anni, deve dichiararsi libero davanti al suo padrone.
    Gli adulti ci sono, sono lì ad aiutarlo, a sostenerlo ma non sono lì per fare il lavoro al suo posto, a liberarlo, perché la libertà nasce prima di tutto dall’autodeterminazione, questo narra, senza esplicitarlo o banalizzarlo, lo spettacolo.
    Come testimone vivente di questa storia c’era Ehsan Ullah Khan, sindacalista del BLLF.

    Un bell’esempio di teatro politico e sociale fatto dai cittadini per i cittadini ben scritto (in collaborazione con Ehsan Ullah Khan) e diretto da una professionista del teatro come Enrica Origo.
    Un teatro che non si parla addosso, degli attori che non si compiacciono delle proprie emozioni e dei propri sentimenti ma un teatro che parla ed emoziona il pubblico, calato all’interno di uno dei luoghi simbolo dell’economia della città.
    Da vedere.
    (Arianna Musso – Foto dell’autrice)

  • OLI 422: TEATROGIORNALE – Sala riunioni bambini interiori

    immagine tratta da:
    http://fractalenlightenment.com/it/32306/life/healing-our-inner-child

    Entra una bambinetta senza i denti davanti, ha un vestito a righe bianco e rosso e i codini allentati, il moccolo al naso le cade sulle labbra e ritmicamente lo lecca.
    La stanza è spoglia, al centro cinque sedie di metallo disposte in cerchio, le finestre danno su un parco cementato con tre alberi grandi, segno di un passato giardino. Il cielo è plumbeo. La bambina gira attorno alle sedie, spinge con le mani gli schienali, gira sempre più velocemente spingendoli con sempre più forza, le sedie iniziano a spostarsi, poi a cadere.
    – Perché sei arrabbiata?
    Una maestra magra, con la collana di perle è sulla soglia dell’aula, guarda la bambina con benevolenza.
    – Non sono arrabbiata, mi annoio.
    Da dietro una scatola bigia che si confonde con i muri esce un’altra bambinetta, ha una scamiciata rosellina e i calzettoni bianchi.
    – Perché hai paura?
    Chiede sempre la maestra, non alla bambina nascosta ma quella senza denti.
    – Non ho paura!
    – Io sì.
    Dice la bambina nascosta. La bambina senza denti le lancia una sedia, la maestra si siede tranquillamente su un’altra sedia.
    – Maestra, mi ha tirato la sedia!
    Urla la bambina nascosta correndole incontro.
    – Non fare la spia, cara, non lo sai che chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù e all’inferno ci vai tu?
    Le dice la maestra allontanandola gentilmente.
    La stanza si riempie di bambini e bambine, sono tutti vestiti da adulti con scarpe troppo grandi, giacche e pantaloni penzolanti tanto che spesso devono tenersele con entrambe le mani. Hanno tutti una gran fretta e guardano preoccupati nella direzione della bambina senza denti.
    – Sedetevi!
    Dice la maestra con voce autoritaria.
    – Perché l’avete lasciata sola con la sua rabbia? Lei non era sbagliata, lei era solo una bambina rifiutata, negata. Le hanno fatto credere di essere sbagliata. Ma voi che l’avete lasciata sola l’avete fatta diventare sbagliata.
    Tutti i bambini adulti sono seduti e si guardano la punta dei piedi, qualcuno inizia a frignare che non è colpa sua, una bambina con la sporta della spesa farfuglia che non è mica sua madre… In realtà oltre la punta delle scarpe tengono d’occhio anche la bambina senza denti. Hanno paura e non vedono l’ora di andarsene. Una bambina signora è rannicchiata sulla sedia e piagnucola ma non si capisce cosa dica. L’unica tra i bambini che continua a giocare annoiata è la bimba senza denti.
    – Tu dove eri, quando questa bambina chiedeva aiuto?
    Continua la maestra, rivolgendosi a una bambina con un cappotto di lana cotta troppo grande.
    – Io facevo la spesa e questa qui mi voleva sputare in faccia e allora io ho cambiato marciapiede, mi ha chiamato vecchia rinco…
    La maestra alza le spalle scuotendo la testa, la bambina in cappotto di lana cotta vorrebbe dire ancora qualcosa ma nessuno l’ascolta, trenta bambini in silenzio, inchiodati alle loro sedie, infagottati in abiti inadatti.
    – Li hai fatti tu questi disegni?
    Chiede la maestra indicando una cartellina colorata.
    – Ti piacciono i miei paciughi? Non sono dei veri disegni, sono solo degli scarabocchi. I bambini non sono capaci a disegnare. L’ha detto la mia mamma.
    – Non gliel’ho detto io, io volevo essere brava…
    Frigna la bambina rannicchiata sulla sedia.
    – Noi dobbiamo parlare con te, con il tuo bambino interiore, per questo siamo qui, nella sala riunioni dei bambini interiori.
    – Per questo ci sono tutti questi mocciosi?
    Ha la faccia sfigurata dalla rabbia, in alcuni atteggiamenti scimmiotta le adolescenti della tivù.
    – Sì, sono i bambini interiori di tutti quelli che hanno partecipato all’”evento”, chiamiamolo così. Sono bambini, spaventati, bambini incapaci. Bambini che cercano conforto e che non lo trovano.
    La bambina nascosta lentamente si avvicina alla maestra, cerca di mettere la mano nella sua. La maestra l’allontana.
    – Ma sbrigatela da sola, belinona!
    La bambina nascosta torna a nascondersi dentro la sua scatola bigia.
    – E tu, perché sei arrabbiata?
    Continua la maestra.
    – Non sono arrabbiata, mi annoio! Non c’è niente che mi piaccia! Mi sembra che siano tutti degli sfigati e che dandogli due sberle possano capirlo meglio quanto sono sfigati!
    – Compi su di loro la violenza che altri hanno fatto su te?
    – Io ho paura.
    Dice una voce da sotto la scatola bigia.
    – Zitta sfigata!
    Rispondono in coro la maestra e la bambina senza denti. La stanza è di nuovo vuota, i bambini adulti sono scomparsi, le sedie sono riverse sul pavimento, la bambina senza denti le prende a calci e molte finiscono contro la scatola bigia. La maestra in collana di perle continua a scrivere i suoi appunti. Dopo qualche tempo esce dalla stanza, chiude la porta a chiave e si incammina verso la macchinetta del caffè. Vicino alla macchinetta c’è un grosso bidone dove gettare i bicchierini sporchi. La maestra sospira, guarda la sua cartellina e la getta. Si sistema i capelli, cerca in tasca due spiccioli per prendersi un cioccocaffè. Dalla sala riunioni dei bambini interiori si sentono delle urla. Dal lungo corridoio arriva un’altra maestra, si riconosce dal giro di perle attorno al collo.
    – Com’è andata?
    – Bene, credo che l’abbiano linciata ora.
    – Di già? Ma chi delle due?
    – Ha importanza?
    – Certo che no.
    – Cioccocaffè? Quanto zucchero?

    (Arianna Musso – Foto da Internet)

    Dal secoloxix.it:Gli amici: è una ragazzina pericolosa, va fermata: poteva uccidere”

  • OLI 421: TEATROGIORNALE – Coexist

    (Foto da IF Italian Factory Magazine)

    Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali

    da Il Corriere.it

    Esterno notte, davanti a un muro in una periferia parigina.
    Un ragazzo in djellaba bianco e giacca di pelle nera si avvicina al muro, si toglie lo zaino dalla schiena. Ha lo sguardo circospetto. La barba è lunga e nera, sul sopracciglio destro un piercing brilla come una cicatrice. Lo zaino è incrostato di spille e scritte che, illuminate dal lampione, luce gialla che si affievolisce a tratti, rimangono indecifrabili.
    Una cartellina rosa con dentro dei fogli neri e rossi, un barattolo bianco col tappo blu.
    Il ragazzo allinea questi strumenti sul marciapiede, fa un passo verso destra e rificca la mano nello zaino per tirare fuori qualcosa che luccica nella fioca luce notturna.

    – E tagliati sta barba, cretino!

    Un ragazzo dalla testa rasata, uscito da un vicolo dietro il lampione, mani in tasca e scarpe militari, gli assesta un calcio sulla spalla facendolo cadere in avanti. Subito dietro il rasato in maglietta nera, uno in maglietta rossa con occhialini giallo limone. Ride nervoso, guardandosi le spalle dopo aver superato il ragazzo in djellaba che si rialza. 
    Questi finisce di vuotare lo zaino dopo aver inveito ed essersi massaggiato il braccio. Un rullo di piccole dimensioni, un pennello piatto, tre bombolette spray: nero, rosso e bianco.
    Due finestre si accendono e si spengono sopra la sua testa, come due occhi che sbattono le palpebre.
    Il ragazzo in djellaba tira fuori dalla cartellina rosa un foglio con disegnato una stella di david e l’appende al muro.

    – Lo sapevo che eri un sionista della malora.

    Il ragazzo con la maglietta rossa è sempre dietro al più grande e rasato che ritorna indietro di scatto. Il ragazzo in djellaba si ferma e lo guarda con occhi di sfida, sempre tenendo il foglio.
    Gli occhi luminosi sbattono accompagnate da delle urla maschili e femminili.

    – Fatti gli affari tuoi…Questa è ancora casa mia… Che se ne tornino a casa loro…Che se poi ti vedono… esplodere la casa… Non posso avere paura… casa mia, che se ne tornino a casa loro in islamilandia… Che poi ti vedono.

    Le finestre si chiudono. Il ragazzo rasato e l’altro tirano un secondo calcio alle bombolette che rotolano. Ritornano nel buio. Il ragazzo in djellaba tira su le bombolette e attacca una croce a destra della stella di David.
    Tre ragazzetti in giacca leggera lanciano una sigaretta nella sua direzione, il ragazzo in diellaba istintivamente mette la mano dove la cicca accesa ha toccato la giacca. I ragazzi gli si avvicinano.

    – Ebreo?

    E calpestano il foglio con sopra la croce. Il ragazzo si china per raccoglierla e i tre gli tirano in ordine: una gomitata, una ginocchiata e uno schiaffo. Lui cerca di proteggersi il volto ma in quel momento arriva altra gente. Un ragazzo biondo vede la cartellina e la apre: Una mezza luna. Urla e si unisce anche lui al pestaggio. Una ragazza in minigonna e tacchi gli tira un pugno. Anche lei uscita dal buio e dal buio escono altre donne e uomini che si mettono a discutere attorno al ragazzo a terra.

    – I morti.

    I morti sono l’oggetto della discussione, i morti bambini, i morti giornalisti, i morti donne, i morti soldato. Ognuno ha un morto da reclamare. Visto che hanno smesso di picchiarlo, il ragazzo in djellaba si alza e continua il suo lavoro, mastica insulti e sangue. Attacca le scritte, ci passa sopra con la bomboletta nera, stacca i fogli che lasciano il disegno sul muro, firma in rosso e poi spennella il muro di colla vinilica e vi attacca un suo autoritratto in carta.

    La gente lentamente si disperde, solo gli occhi luminosi sopra la sua testa sbattono le palpebre ancora per un po’, come un nevrotico in preda a un attacco di paranoia che non riesce a gestire. In ragazzo in djellaba rimette tutto nello zaino alla rinfusa, vuole tornare a casa, quando dal buio escono tre uomini che guardano la scritta sul muro e il ragazzo con aria di rimprovero:

     – COEXIST. Che cosa vuol dire Coexist?

    Il ragazzo si gira sorridendo.

     – Allora voi siete riusciti a leggerlo!

    Non riesce ad aggiungere altro perché gli ultimi uomini della notte sono armati di manganelli.

    (Arianna Musso – Foto Internet – IF Italian Factory Magazine)

  • OLI 420: SCUOLA – Quante bambine perdute?

    Incontro la Maestra Tina in via Cairoli, è furibonda.
    La settimana scorsa, mi racconta, ho finito il giro delle scuole del circondario. Ogni anno, ad inizio anno scolastico, vado a trovare i miei bambini che sono andati in prima elementare, parlo con le maestre e vedo come stanno. Ma non riuscivo a trovare O. Pensando che fosse tornata in Bangladesh sono andata al negozio di frutta e verdura del papà per avere notizie.
    Quando mi vede il papà mi accoglie sorridendo, gli chiedo della bambina e mi dice che è a casa con l’ultima nata. – E la scuola? – Quale scuola? Mi risponde lui. – In Italia tutti i bambini e le bambine devono andare a scuola. Se no vengono i Carabinieri. Il padre si scusa, dice che non sapeva, che da loro non usa. – Mi aiuti lei maestra! E così l’ho accompagnato a fare l’iscrizione a scuola. Ma pensa, quanti mesi ha perso O. di scuola e quanti mesi ha perso la scuola per lavorare con O.? Una bimba sveglia, curiosa, che ha voglia di imparare.
    Ma come è possibile che una bambina nata in Italia, che ha fatto la scuola materna nel nostro paese, ad un certo punto sparisca così? Quale sistema di vigilanza abbiamo? La domanda della maestra è importante, e io la ringrazio. Se non ci fosse lei, che di sua iniziativa e utilizzando il suo tempo libero, va a trovare i “suoi bambini”, nessuno si sarebbe accorto di O. E chissà se ci sono altre O. che vivono chiuse tra le mura domestiche ad allevare fratellini, a cucinare e a lavare, a soli sei anni, magari di fianco a casa nostra, che hanno condiviso la stessa aula dei nostri figli l’anno precedente.
    (Arianna Musso)

  • OLI 401: TEATROGIORNALE – Il gioco

    Pavia, ore 1, 25.
    Matteo è andato a prendere Guido alla scuola materna e lo ha portato a mangiarsi una cioccolata calda da Luigi, il bar in piazza dove comprava le chewing gummma quanto aveva l’età di Guido e le chewing gummma costavano 20 lire.
     – Papà, perché vieni tu a prendermi e non la nonna?
     – Non sei contento?
     Dice Matteo asciugandogli il muso col tovagliolo.
     – Cosa hai fatto oggi a scuola?
     – Ho fatto il libro dei grandi, quello per andare in prima elementare: devo passare sopra le righe con pennarello.
     – Bravo!
     Matteo conta gli spiccioli che gli sono rimasti in tasca dopo aver pagato la cioccolata.
     – Vuoi fare un gioco con papà?
     La cioccolata è finita metà nella pancia di Guido e metà sulla sua giacca, Matteo la pulisce con alcuni fazzoletti che abbandona dentro la tazza vuota. Padre e figlio si siedono su degli sgabelli alti di fronte a un computer colorato.
     – Come si gioca papà?
     – Bene, allora noi mettiamo questo soldino qua dentro e poi schiacciamo il pulsante così.
     Il computer si illumina, Guido ride, Marco trattiene il respiro, gli occhi si dilatano e il battito cardiaco aumenta.
     … Oggi ha piovuto tutto il giorno, È arrivata la bolletta del gas, Cinzia è incazzata, è sempre incazzata e non si capisce perché, la mamma non può più andare a prendere il bambino scuola perché ha la sciatica, magari però succede qualcosa di buono… 
     Il computer lampeggia, una musichetta trilla, sullo schermo sono comparsi tre limoni, Guido batte le mani e chiede:
     – Abbiamo vinto?
     – Sì.
     Dice Marco soddisfatto.
     – Abbiamo vinto un’altra partita: schiaccia!
     – Questo qui?
     Chiede Guido con orgoglio indicando il pulsante rosso.
     – Con forza, al mio tre: uno, due, tre! Il bambino schiaccia con un’aria seria seria: il presidente degli Stati Uniti non avrebbe avuto un’espressione diversa se avesse lanciato la bomba atomica.
     A Matteo gli si ferma di nuovo respiro
     … come diceva quel film di quando ero ragazzino: non può piovere per sempre… 
     Accenna un sorriso, gli occhi fissi sullo schermo colorato.
     – Ho vinto?
     Chiede Guido guardando il padre. Marco ha la gola secca: non ha vinto! Infila un’altra monetina nella fessura e schiaccia il pulsante rosso.
     – Io, papà. Io devo schiacciare il pulsante.
     – Aspetta.
     Il bambino è aggrappato al braccio del padre. La macchina lampeggia, sembra che gli sorrida.
     – E io papà?
     Il giallo, il rosso, il verde gli ballano davanti invitandolo a continuare, la macchina gli sussurra ancora e la sua voce è un linguaggio morse luminoso. Il braccio del bambino è pesante. La frutta balla leggera davanti ai suoi occhi mentre schiaccia automaticamente il pulsante di puntata massima, le monetine scivolano dentro la sua fessura sempre accogliente, il bambino è caldo, appiccicoso, lo trascina verso il basso.
     – Sì, aspetta. Lo vuoi un gelato?
     … Dentro le vene l’adrenalina corre contro Cinzia, contro la paura. Ma di cosa ha paura? Che la mamma muoia? Che Cinzia lo lasci? Di svegliarsi un giorno ed essere solo. Deve smettere di correre (devo smettere di correre), deve respirare (devo respirare), non può piovere per sempre (non può piovere per sempre). Una voce dentro di sé gli dice di smettere! (Smettila!)
    Si ferma, si guarda intorno con nonchalance, si asciuga le mani sui jeans, fa un passo in dietro tanto che il bambino si sbilancia, lui lo sostiene prontamente, gli sorride.
     – Dai forza, l’ultima monetina è tua.
     La monetina scompare nella fessura, Guido schiaccia il pulsante rosso guardando il padre, la macchina sembra delusa e pigramente mostra tre frutti disuguali.
     – Ho vinto?
     – No.
     – Ma io volevo vincere!
     Matteo prende in braccio Guido.
     – Domani.
     – Ma io volevo vincere oggi.
     Matteo apre il portafoglio: c’erano 30 euro.
     – Bisognerà passare da un bancomat. Andiamo dai, se no la mamma si preoccupa.
     Fuori piove, Guido saluta la slot-machine con la mano:
     – Ciao, ciao.
    Matteo gli tira su il cappuccio, la macchina sorride, tre ciliegie scendono come palpebre luminose.
    (Arianna Musso)

    Da ilfattoquotidiano.it: “Pavia-viaggio-nella-las-vegas-d’Italia-i-giocatori-ecco-come-ci-riduce-lo-stato”.

  • OLI 395: TEATROGIORNALE – Bomba sexy

    Brendon entra in ufficio.
    -Ciambella e caffè?
    Chiede Jim alzandosi dalla sua postazione.
    – Ho bisogno di caffeina e ho finito il turno. Tu a che ora smonti?
    – Smonto alle 9. Risponde Brendon sedendosi davanti agli schermi.
    – La ciambella prendimela alla crema.
     Aggiunge Brendon con un sorriso, ha la faccia sbarbata e i denti bianchi.
    -Io ti offro la colazione ma stasera tu ti sdebiti con una birra.
    Dice Jim uscendo; Jim è un ragazzo dalle spalle incredibilmente larghe, così larghe che stona nella sala di controllo dei droni, uno così dovrebbe essere là fuori a combattere ma suo fratello è morto sei mesi fa e sua madre non si merita due medaglie al valore.
    Brendon sbadiglia, ieri sera ha letto di nuovo fino a tardi, prende le cuffie e se le mette sulle orecchie.
    – Inizia il gioco.
    Inserisce la password, si sgranchisce le dita e prende in mano il joystick.

      Un movimiento sensual (sensual) 
    Un movimiento muy sexy (sexy) 
    Un movimiento muy sexy (sexy) 

    Una ventina di ragazzi con le braccia sulla testa muovono il bacino all’unisono.
    Al Saqr, con la sua maglietta rossa e il cappello da baseball, fa lo scemo mentre alle sue spalle brillano delle luci a led azzurre.
    Oggi si sposa sua sorella e lui è al settimo cielo perché non dovrà più vederla al mattino con il suo palandrano nero che si aggira come un fantasma: “…e non guardami mentre mi metto il velo, e non portare gli amici in casa, e…” sua sorella ha una voce stridula e ha la lingua più biforcuta di tutta la Radaa: spia alla mamma quando lui mangia lo zibibbo di nascosto, anche quando si è comprato una futa nuova è andata a dirlo. “ Ma erano yer miei, guadagnati aiutando lo zio Saleem… e poi tutti i miei amici avevano un futa a scacchi indonesiana”.
    Al Saqr salta piegandosi in avanti e sculetta proprio in faccia a quell’arpia di sua sorella Tahani.
    Tahani, vestita di rosa, giallo e nero, alza gli occhi al cielo e sussurra qualcosa all’orecchio della cugina, ridono. Suo marito è vicino a lei, i pantaloni bianchi, la giacca bordata in oro, un pugnale a kriss nella cintura.
    – Chissà perché non va a ballare?
    Chiede la cugina a Tahani indicandole il marito, la sposa si gira senza risponderle: “ Mancare di rispetto così a mio marito,” pensa “indicandolo addirittura! Se mia cugina non si dà una regolata nessuno la vorrà sposare. Lui non balla perché è un uomo serio, non un frivolo come Al Saqr, almeno credo.”
    Lui si gira e la guarda e lei abbassa gli occhi. “ Meno male che ho il velo,” pensa “non bisogna arrossire davanti al proprio marito.”
    Passano i vassoi con le foglie di qat e il tè zuccherato, i Kalašnikov sparano in aria in segno di augurio, il cielo è di un azzurro abbagliante e le case si stagliano sull’orizzonte come merletti.

    Y las mujeres lo bailan así, así, así, así 
    Todo el mundo una mano en la cabeza 
    una mano en la cabeza un movimiento sexy 
    un movimiento sexy 

    Tahani si annoda tra le dita il sotto vestito a farfalla, largo e leggero. “Stasera sarò una donna e poi sarò una mamma” pensa e nuovamente alza gli occhi sul marito. “Non è brutto” decide e sorride tra sé e sé.

    Para bailar esto es una                         (Bomba
    para gozar esto es una                        (Bomba
    Todas las mujeres lo bailan               (Bomba) 
    Todas los hombres lo bailan             (Bomba) 
    Todas las radios lo ponen                (Bomba
    Las discotecas lo ponen                  (Bomba
    Toda la gente lo baila                   (Bomba

    Jim è tornato con la ciambella alla crema e il caffè nella tazza di carta, li ha posati sul tavolino e ha atteso che Brendon si sfilasse le cuffie esultando.
    – Eh vai!
    -Quanti ne hai fatti secchi?
    – 17!
    – Grande!
    – Un campione!
    – Tutti armati?
    – Parliamo di Al qaeda, cocco!

     Pero este cuento se acaba, acaba, acaba acaba, acaba, acábalo 


     Da LaRepubblica.it: Yemen, drone Usa colpisce corteo nuziale: 17 morti

    (Arianna Musso)

  • OLI 394: ESTERI – Tutto era di Ben Ali

    Centro di Sfax

    [Ho vissuto in Tunisia per alcuni mesi. Quello che riporto sono degli stralci di discorsi che mi hanno fatto varie persone tunisine in riferimento alla situazione politica nel loro paese. Le persone, maschi o femmine e di diverse estrazioni sociali, riportavano tutte una visione omogenea della realtà anche se non credo del tutto veritiera. Per chi non lo sapesse Ben Ali fu il presidente della Tunisia dal 1987, deposto nel 2011 con la rivoluzione dei gelsomini.]

    Uscivi di casa, andavi a prenderti un caffè al bar e davi i soldi a Ben Ali: perché la produzione del caffè era monopolio suo o della sua famiglia.
    Prendevi la macchina, andavi a fare benzina e davi i soldi a Ben Ali: perché le aziende che estraevano petrolio erano tutte sue o della sua famiglia.
    Ti accendevi una sigaretta e davi i soldi a Ben Ali; chiamavi tua moglie e davi i soldi a Ben Ali, perché le compagnie telefoniche erano tutte sue o della sua famiglia.
    Qualunque cosa facessi davi soldi a Ben Ali.

    La moglie di Ben Ali, la quale è raccontata sia come la figlia del generale in capo sia come una parrucchiera e a volte entrambe le cose contemporaneamente, aveva la fissa per le scarpe, ne possedeva di tutte le fogge: con i tacchi, senza tacchi, incastonate di diamanti.
    La moglie di Ben Ali voleva prendere il posto di Ben Ali e si faceva vedere sempre in televisione.
    Quando la moglie di Ben Ali è scappata si è portata via metà del tesoro di stato (in lingotti d’oro) nascosto nelle valigie.

    E’ furbo Ben Ali.
    Ben Ali era il portiere di Bourguiba ma quando Bourguiba ( il presidente dell’indipendenza e fondatore dello stato tunisino moderno) si ammalò lui diventò i suoi occhi e il suo braccio. E quando la sua voce è diventata troppo debole, Ben Ali parlò al posto suo. Il popolo pensava di ascoltare Bourguiba attraverso la voce di Ben Ali ma era Ben Ali che parlava.
    Quando l’eroe della rivoluzione è morto per tutti i tunisini Ben Ali era già il volto e la voce dello stato.

    La famiglia d Ben Ali e quella della moglie hanno organizzato la Tunisia come se fosse la loro azienda e i cittadini tunisini fossero i loro schiavi.

    Ma si stava meglio.
    Il latte costava tre volte di meno. Il pane costava la metà.
    La polizia se la chiamavi veniva, ora la polizia ha paura ad intervenire. La polizia pensa solo a chiederti soldi.
    Prima se pensavi che qualche negoziante ti stesse fregando chiamavi la polizia e questa prima lo picchiava e poi controllava.
    Nessuno ti fregava perché tutti avevano paura.
    Quando c’era Ben Ali una donna poteva camminare senza paura nel centro di Tunisi e non c’era la spazzatura abbandonata ovunque.
    Ora nessuno vuole più lavorare, prima tutti lavoravano perché avevano paura ora che hanno la libertà nessuno vuole fare nulla.

    Con la rivoluzione tutto è peggiorato ma adesso deve avvenire una nuova rivoluzione.
    Gli esponenti di Ennhada (movimento della rinascita, partito filo islamista ora al governo in coalizione) sono tutti pazzi perché hanno passato troppi anni in prigione.
    Quelli di Ennhada  non capiscono più nulla a furia di pregare.
    Quelli di Ennhada stanno riscrivendo la costituzione tunisina.
    Quelli di Ennhada vogliono che le donne vadano in giro con il bourqa ma lo sanno tutti che in Arabia Saudita le donne vanno in discoteca e sotto il bourqa sono tutte truccate e bevono.

    Alla fine con Ben Ali si stava meglio.

    Ho incontrato in nave un signore tunisino che vive in Francia, una persona colta e distinta che mi ha confidato la paura che Ben Ali, o le persone a lui vicine, si stiano organizzando per presentarsi alle prossime elezioni. Questo signore ha concluso che il problema della politica in Tunisia è un problema culturale e fino a quando non si creerà un’alternativa culturale e ideologica ad Ennhada e a Ben Ali le rivoluzioni potranno solo peggiorare le cose.

    L’articolo è stato aggiornato al 17 dicembre 2013.

    (Arianna Musso)

  • OLI 393: TEATROGIORNALE – Nuda proprietà

    Adriana ha chiuso la porta di ingresso con un gesto di stizza, mastica gli insulti che vorrebbe dire a Cecilia.
    – Non siamo al Colosseo!
    Cecilia è nella camera che era stata lo studio di Ettore, il marito di Adriana. Il divano letto è aperto, sopra vi è una valigia di plastica e stoffa a quadretti.
    -Io me ne torno in Ecuador, signora. Torno da mia figlia, capisce?
    Cecilia è una donna sui 40 anni, ha i jeans con gli strass e una maglia gialla e rossa che le arriva sulle cosce.
    – Le ho fatto un po’ di spesa e le ho lasciato in frigo la cena e il pranzo per domani.
    Cecilia piega una tuta rosa e la mette in borsa vicino a un sacchetto che contiene 8 pinguini che salgono, a ritmo di musica, su una montagna di ghiaccio e scivolano giù.
    – Ha sentito suo figlio?
    È la terza volta che lo chiede in quarantotto ore. Lei lo aveva chiamato una settimana prima per metterlo al corrente che i soldi di sua madre erano finiti e che lei non poteva lavorare per loro a gratis ma sua madre non poteva vivere sola. Il figlio aveva detto che non erano fatti suoi e aveva buttato giù il telefono. Cecilia sospira e piega il pigiama a fiori giallo e verde. Sua madre le tiene sua figlia in Equador e l’aveva vista affaticata il giorno prima su Skype. Ormai Priscilla ha 6 anni, deve aiutare in casa almeno un poco. Ma quando lei tornerà, allora sì che metterà in riga quella piccola viziatella e mette in valigia il pigiama.
    Per Adriana andare dall’ingresso alla cucina è ormai un viaggio, la vista è appannata e i vecchi mobili galleggiano nella penombra. Le sue ossa sono come tenute assieme da dei fili di metallo arrugginiti, troppo corti per permetterle la maggioranza dei movimenti ma la cosa che la fa più arrabbiare è la memoria. Non si ricorda che ha venduto la casa come nuda proprietà senza parlarne col figlio ed è per questo che il figlio la odia; non si ricorda dove ha messo gli occhiali; non si ricorda che ha 87 anni e quando si intravede allo specchio non si riconosce anche se sa che è lei. A volte si ricorda del perché suo figlio la odia e si arrabbia: è la sua vita, la sua casa, lui mica le ha chiesto il permesso prima di sposarsi con quella malummera di sua moglie (moglie di seconda mano visto che ha già una figlia). Cammina piano Adriana, non vuole cadere, non vuole trattenere un istante di più quell’ingrata di Cecilia. Vuole solo arrivare alla sedia in cucina, accendere la televisione e sentire il brusio lontano che ne arriva.
    Adriana tiene la mano destra sul mobile basso dell’ingresso, un po’ per sostegno, un po’ per orientarsi, un po’ per non sentirsi sospesa nel vuoto. Quando era bambina le piaceva stare sospesa, attaccata con le gambe al l’albero di ciliegie e dondolare, il vestito di lana marrone e la camicia di flanella sul viso. Sua madre che la sgrida ma che tiene i grappoli di ciliegie che lei le ha regalato sulle orecchie come fossero degli orecchini.
    – La mamma aveva i capelli neri.
    Sussurra Adriana mentre le dita nodose fanno cadere una boccetta di ceramica su un centrino; la boccetta, cadendo, fa un rumore sordo. Nessuno lo sente.
    Cecilia esce dalla stanza con la giacca blu col cappuccio col pelo, ha la valigia in mano.
    – Signora, io vado.
    Adriana non si gira, ormai è arrivata in fondo al mobile dell’ingresso.
    – Le metto qua le chiavi e il resto della spesa.
    Cecilia lascia una banconota da 10 euro sul mobile e un mazzo di chiavi senza portachiavi.
    – Sul vostro conto ci sono ancora 100 euro. La pensione arriverà tra 15 giorni. Spero che vostro figlio venga presto.
    – Chiudi la porta.
    Dice Adriana e aspetta che la porta sbatta per continuare la sua traversata verso la cucina: c’è l’angolo, si gira a destra, davanti c’è il bagno e la porta è aperta.
    – Ma viveva al Colosseo quella lì?
    Biascica e si incammina per chiudere la porta, le dita artritiche si chiudono attorno alla maniglia in ottone. Il bagno… quando era piccola non voleva mai farsi il bagno la domenica ma stava sempre con le gambe nell’acqua del fiume, tanto che le era venuta la febbre reumatica ed era stata a letto due mesi e in quei giorni vedeva la mamma sbiadita, così come ora vede il lavabo del bagno.
    Chiude la porta del bagno e si gira per raggiungere la porta della cucina, tiene la mano sulla carta da parati ruvida. Fuori sta facendo nuvolo, da dietro le tende bianche la luce si affievolisce, i contorni del tavolo e delle sedie si fanno sempre più confusi.
    – Dove é andata Cecilia? Mi tocca aspettarla quella lì. Mai una volta che mi dica quando torna.
    Adriana alza la sedia e la porta indietro, la sedia stride contro il pavimento ma nessuno la sente. Il telecomando nero è sopra il tavolo, lo prende e schiaccia un tasto a caso. La televisione si accende. Adriana si siede, il suo volto è illuminato da una luce verdognola.

    Da La stampa: Anziani in crisi, volano le vendite della nuda proprietà.