Categoria: TEATROGIORNALE

  • OLI 429: TEATROGIORNALE – Al parco giochi

    La mamma con la sua bambina esce per andare al parco giochi.

     – Stai vicina alla mamma, tesoro, dai sempre la mano, che in strada ci sono le macchine che sono grandi e possono fati tanta, tanta bua.-  La bambina è vestita di rosa con una grande “Anna” disegnata sulla maglietta, sorride e tiene stretta la sua manina in quella della mamma.
     – Quando arriviamo al parco non devi mai perdere di vista la mamma.
     – Ci sarà Camilla?
     – Penso di sì tesoro, ho sentito la sua mamma oggi a pranzo, dopo l’asilo venivano anche loro al parco.
     – E Consuelo?
     – Chi è Consuelo, cara?
     – Una mia compagna di asilo.
     – Non lo so, ma se la vedi fammi conoscere la sua mamma.
     – Io non la conosco la sua mamma, viene sempre con il papà.
     – Anche il papà va bene, anche se non credo che verranno al parco, tesoro.

     Arrivano ai giochi, Camilla è già lì che la aspetta e le va incontro con due mini pony pieni di mollettine glitterate.
     – Hai sentito di ieri? Chiede la mamma di Camilla alla mamma di “Tesoro”, è una ragazza sui trentacinque anni, capelli corti e i-phone.
     – Mi è arrivato un what’s up e non ci volevo credere.
     – Credici, la mamma di Carlotta è una mia cara amica, non è una che si inventa certe cose.
     – Ma è vero che è rumena?
     – No, italiana. Sembra rumena perché è bionda ma no, è italiana, non ha un accento straniero. – Magari è nata in Italia.
     – La mamma di Carlotta mi ha detto che si chiama Elisabetta, lo ha chiesto e poi ha un ciondolo con scritto Elisabetta.
     – Incredibile, peccato che non l’abbia fotografata.
     – Chi?
     – Questa ragazzina che voleva rubare Carlotta!
     – Tredici anni e rubare i bambini…Pensa che stava giocando con Carlotta, la teneva per mano e poi, pian pianino si stava allontanando. La mamma di Carlotta gli ha urlato : “Che fai?”
     – Meno male che è una mamma attenta, se no, chissà dove finiva… – Te lo dico io dove finiva… Comunque questa gli ha risposto: “è con me!”
     – Cosa? è con me? Ma che sfrontata… è con me?
     – Allora la mamma di Carlotta gli si è avventata contro
     – Come minimo
     – Poi Carlotta ha cercato di scappare
     – E quella?
     – Non la lasciava andare. Ed è scappata.
     – Chi?
     – La rapitrice.
     – E Carlotta?
     – Per fortuna è riuscita a divincolarsi.
     – E allora come ha fatto a sapere che si chiama Elisabetta?
     – L’ha rincontrata nel parco.
     – Cercava di rubare altre bambine, come minimo.
     – E allora la mamma di Carlotta, anche se a quel punto mi sono unita anche io ed eravamo in otto e l’abbiamo accerchiata così che non potesse più scappare…
     – Brave!
     – Le ha chiesto: “Come ti chiami? Sei qui da sola o hai dei complici?”
     – E quella?
     – E quella ha detto che era al parco per giocare e il padre la aspettava fuori, allora ci siamo tutte girate verso l’uscita e quella è scappata di nuovo. Sono furbe.
     – E siete andate fuori?
     – Sì, certo era pieno di macchine che aspettavano, dentro ogni macchina un uomo solo. Il motore acceso, pronti a fuggire.
     – Meno male, meno male che la mamma di Carlotta è attenta.

     La mamma di Camilla apre la bocca, gli occhi le si riempiono di terrore e urla. Urla più forte che i suoi polmoni da ex fumatrice di Marlboro prima della gravidanza le possano permettere.
    La mamma di “Tesoro” si gira e lo vede: Un uomo di una quarantina d’anni è chino sulle loro bambine e le sta accarezzando sulla testa.
    L’urlo congela la scena per qualche istante prima che l’uomo alzi gli occhi e veda le due donne che gli piombano addosso. Istintivamente abbraccia le bambine per proteggerle da quelle che sembrano due folli in preda a una crisi, aggravando così la sua situazione. Una terza donna che è seduta lì vicino, che anche lei ha ricevuto un post di Facebook il giorno prima, in cui si spiegava la terribile emergenza rapimenti dei bambini nei parchi, si avventa sull’uomo con una borsa piena di succhi biologici e merendine al farro, sbattendogliela ripetutamente sul viso. Contemporaneamente la mamma di “Tesoro” fotografa il rapitore con il suo Nokia e condivide l’immagine su Facebook e Twitter digitandoci sotto: “Chi conosce quest’uomo? Ha cercato di rapire mia figlia”.
    Nel giro di sedici ore l’uomo fotografato perderà il posto di lavoro, ora però è caduto bocconi a terra e sei mamme, altre tre sono soccorse nel frattempo, hanno iniziato a tirargli calci e pugni per non farlo rialzare e tutte chiamano contemporaneamente la polizia.
     Nessuna sente le bambine piangere, sopratutto Consuelo che sussurra:
     – Papà.

    Dal secolo XIX: “Voleva rapire due bambine al parco: giallo su what’up”

      Arianna Musso

  • OLI 422: TEATROGIORNALE – Sala riunioni bambini interiori

    immagine tratta da:
    http://fractalenlightenment.com/it/32306/life/healing-our-inner-child

    Entra una bambinetta senza i denti davanti, ha un vestito a righe bianco e rosso e i codini allentati, il moccolo al naso le cade sulle labbra e ritmicamente lo lecca.
    La stanza è spoglia, al centro cinque sedie di metallo disposte in cerchio, le finestre danno su un parco cementato con tre alberi grandi, segno di un passato giardino. Il cielo è plumbeo. La bambina gira attorno alle sedie, spinge con le mani gli schienali, gira sempre più velocemente spingendoli con sempre più forza, le sedie iniziano a spostarsi, poi a cadere.
    – Perché sei arrabbiata?
    Una maestra magra, con la collana di perle è sulla soglia dell’aula, guarda la bambina con benevolenza.
    – Non sono arrabbiata, mi annoio.
    Da dietro una scatola bigia che si confonde con i muri esce un’altra bambinetta, ha una scamiciata rosellina e i calzettoni bianchi.
    – Perché hai paura?
    Chiede sempre la maestra, non alla bambina nascosta ma quella senza denti.
    – Non ho paura!
    – Io sì.
    Dice la bambina nascosta. La bambina senza denti le lancia una sedia, la maestra si siede tranquillamente su un’altra sedia.
    – Maestra, mi ha tirato la sedia!
    Urla la bambina nascosta correndole incontro.
    – Non fare la spia, cara, non lo sai che chi fa la spia non è figlio di Maria, non è figlio di Gesù e all’inferno ci vai tu?
    Le dice la maestra allontanandola gentilmente.
    La stanza si riempie di bambini e bambine, sono tutti vestiti da adulti con scarpe troppo grandi, giacche e pantaloni penzolanti tanto che spesso devono tenersele con entrambe le mani. Hanno tutti una gran fretta e guardano preoccupati nella direzione della bambina senza denti.
    – Sedetevi!
    Dice la maestra con voce autoritaria.
    – Perché l’avete lasciata sola con la sua rabbia? Lei non era sbagliata, lei era solo una bambina rifiutata, negata. Le hanno fatto credere di essere sbagliata. Ma voi che l’avete lasciata sola l’avete fatta diventare sbagliata.
    Tutti i bambini adulti sono seduti e si guardano la punta dei piedi, qualcuno inizia a frignare che non è colpa sua, una bambina con la sporta della spesa farfuglia che non è mica sua madre… In realtà oltre la punta delle scarpe tengono d’occhio anche la bambina senza denti. Hanno paura e non vedono l’ora di andarsene. Una bambina signora è rannicchiata sulla sedia e piagnucola ma non si capisce cosa dica. L’unica tra i bambini che continua a giocare annoiata è la bimba senza denti.
    – Tu dove eri, quando questa bambina chiedeva aiuto?
    Continua la maestra, rivolgendosi a una bambina con un cappotto di lana cotta troppo grande.
    – Io facevo la spesa e questa qui mi voleva sputare in faccia e allora io ho cambiato marciapiede, mi ha chiamato vecchia rinco…
    La maestra alza le spalle scuotendo la testa, la bambina in cappotto di lana cotta vorrebbe dire ancora qualcosa ma nessuno l’ascolta, trenta bambini in silenzio, inchiodati alle loro sedie, infagottati in abiti inadatti.
    – Li hai fatti tu questi disegni?
    Chiede la maestra indicando una cartellina colorata.
    – Ti piacciono i miei paciughi? Non sono dei veri disegni, sono solo degli scarabocchi. I bambini non sono capaci a disegnare. L’ha detto la mia mamma.
    – Non gliel’ho detto io, io volevo essere brava…
    Frigna la bambina rannicchiata sulla sedia.
    – Noi dobbiamo parlare con te, con il tuo bambino interiore, per questo siamo qui, nella sala riunioni dei bambini interiori.
    – Per questo ci sono tutti questi mocciosi?
    Ha la faccia sfigurata dalla rabbia, in alcuni atteggiamenti scimmiotta le adolescenti della tivù.
    – Sì, sono i bambini interiori di tutti quelli che hanno partecipato all’”evento”, chiamiamolo così. Sono bambini, spaventati, bambini incapaci. Bambini che cercano conforto e che non lo trovano.
    La bambina nascosta lentamente si avvicina alla maestra, cerca di mettere la mano nella sua. La maestra l’allontana.
    – Ma sbrigatela da sola, belinona!
    La bambina nascosta torna a nascondersi dentro la sua scatola bigia.
    – E tu, perché sei arrabbiata?
    Continua la maestra.
    – Non sono arrabbiata, mi annoio! Non c’è niente che mi piaccia! Mi sembra che siano tutti degli sfigati e che dandogli due sberle possano capirlo meglio quanto sono sfigati!
    – Compi su di loro la violenza che altri hanno fatto su te?
    – Io ho paura.
    Dice una voce da sotto la scatola bigia.
    – Zitta sfigata!
    Rispondono in coro la maestra e la bambina senza denti. La stanza è di nuovo vuota, i bambini adulti sono scomparsi, le sedie sono riverse sul pavimento, la bambina senza denti le prende a calci e molte finiscono contro la scatola bigia. La maestra in collana di perle continua a scrivere i suoi appunti. Dopo qualche tempo esce dalla stanza, chiude la porta a chiave e si incammina verso la macchinetta del caffè. Vicino alla macchinetta c’è un grosso bidone dove gettare i bicchierini sporchi. La maestra sospira, guarda la sua cartellina e la getta. Si sistema i capelli, cerca in tasca due spiccioli per prendersi un cioccocaffè. Dalla sala riunioni dei bambini interiori si sentono delle urla. Dal lungo corridoio arriva un’altra maestra, si riconosce dal giro di perle attorno al collo.
    – Com’è andata?
    – Bene, credo che l’abbiano linciata ora.
    – Di già? Ma chi delle due?
    – Ha importanza?
    – Certo che no.
    – Cioccocaffè? Quanto zucchero?

    (Arianna Musso – Foto da Internet)

    Dal secoloxix.it:Gli amici: è una ragazzina pericolosa, va fermata: poteva uccidere”

  • OLI 421: TEATROGIORNALE – Coexist

    (Foto da IF Italian Factory Magazine)

    Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali

    da Il Corriere.it

    Esterno notte, davanti a un muro in una periferia parigina.
    Un ragazzo in djellaba bianco e giacca di pelle nera si avvicina al muro, si toglie lo zaino dalla schiena. Ha lo sguardo circospetto. La barba è lunga e nera, sul sopracciglio destro un piercing brilla come una cicatrice. Lo zaino è incrostato di spille e scritte che, illuminate dal lampione, luce gialla che si affievolisce a tratti, rimangono indecifrabili.
    Una cartellina rosa con dentro dei fogli neri e rossi, un barattolo bianco col tappo blu.
    Il ragazzo allinea questi strumenti sul marciapiede, fa un passo verso destra e rificca la mano nello zaino per tirare fuori qualcosa che luccica nella fioca luce notturna.

    – E tagliati sta barba, cretino!

    Un ragazzo dalla testa rasata, uscito da un vicolo dietro il lampione, mani in tasca e scarpe militari, gli assesta un calcio sulla spalla facendolo cadere in avanti. Subito dietro il rasato in maglietta nera, uno in maglietta rossa con occhialini giallo limone. Ride nervoso, guardandosi le spalle dopo aver superato il ragazzo in djellaba che si rialza. 
    Questi finisce di vuotare lo zaino dopo aver inveito ed essersi massaggiato il braccio. Un rullo di piccole dimensioni, un pennello piatto, tre bombolette spray: nero, rosso e bianco.
    Due finestre si accendono e si spengono sopra la sua testa, come due occhi che sbattono le palpebre.
    Il ragazzo in djellaba tira fuori dalla cartellina rosa un foglio con disegnato una stella di david e l’appende al muro.

    – Lo sapevo che eri un sionista della malora.

    Il ragazzo con la maglietta rossa è sempre dietro al più grande e rasato che ritorna indietro di scatto. Il ragazzo in djellaba si ferma e lo guarda con occhi di sfida, sempre tenendo il foglio.
    Gli occhi luminosi sbattono accompagnate da delle urla maschili e femminili.

    – Fatti gli affari tuoi…Questa è ancora casa mia… Che se ne tornino a casa loro…Che se poi ti vedono… esplodere la casa… Non posso avere paura… casa mia, che se ne tornino a casa loro in islamilandia… Che poi ti vedono.

    Le finestre si chiudono. Il ragazzo rasato e l’altro tirano un secondo calcio alle bombolette che rotolano. Ritornano nel buio. Il ragazzo in djellaba tira su le bombolette e attacca una croce a destra della stella di David.
    Tre ragazzetti in giacca leggera lanciano una sigaretta nella sua direzione, il ragazzo in diellaba istintivamente mette la mano dove la cicca accesa ha toccato la giacca. I ragazzi gli si avvicinano.

    – Ebreo?

    E calpestano il foglio con sopra la croce. Il ragazzo si china per raccoglierla e i tre gli tirano in ordine: una gomitata, una ginocchiata e uno schiaffo. Lui cerca di proteggersi il volto ma in quel momento arriva altra gente. Un ragazzo biondo vede la cartellina e la apre: Una mezza luna. Urla e si unisce anche lui al pestaggio. Una ragazza in minigonna e tacchi gli tira un pugno. Anche lei uscita dal buio e dal buio escono altre donne e uomini che si mettono a discutere attorno al ragazzo a terra.

    – I morti.

    I morti sono l’oggetto della discussione, i morti bambini, i morti giornalisti, i morti donne, i morti soldato. Ognuno ha un morto da reclamare. Visto che hanno smesso di picchiarlo, il ragazzo in djellaba si alza e continua il suo lavoro, mastica insulti e sangue. Attacca le scritte, ci passa sopra con la bomboletta nera, stacca i fogli che lasciano il disegno sul muro, firma in rosso e poi spennella il muro di colla vinilica e vi attacca un suo autoritratto in carta.

    La gente lentamente si disperde, solo gli occhi luminosi sopra la sua testa sbattono le palpebre ancora per un po’, come un nevrotico in preda a un attacco di paranoia che non riesce a gestire. In ragazzo in djellaba rimette tutto nello zaino alla rinfusa, vuole tornare a casa, quando dal buio escono tre uomini che guardano la scritta sul muro e il ragazzo con aria di rimprovero:

     – COEXIST. Che cosa vuol dire Coexist?

    Il ragazzo si gira sorridendo.

     – Allora voi siete riusciti a leggerlo!

    Non riesce ad aggiungere altro perché gli ultimi uomini della notte sono armati di manganelli.

    (Arianna Musso – Foto Internet – IF Italian Factory Magazine)

  • OLI 395: TEATROGIORNALE – Bomba sexy

    Brendon entra in ufficio.
    -Ciambella e caffè?
    Chiede Jim alzandosi dalla sua postazione.
    – Ho bisogno di caffeina e ho finito il turno. Tu a che ora smonti?
    – Smonto alle 9. Risponde Brendon sedendosi davanti agli schermi.
    – La ciambella prendimela alla crema.
     Aggiunge Brendon con un sorriso, ha la faccia sbarbata e i denti bianchi.
    -Io ti offro la colazione ma stasera tu ti sdebiti con una birra.
    Dice Jim uscendo; Jim è un ragazzo dalle spalle incredibilmente larghe, così larghe che stona nella sala di controllo dei droni, uno così dovrebbe essere là fuori a combattere ma suo fratello è morto sei mesi fa e sua madre non si merita due medaglie al valore.
    Brendon sbadiglia, ieri sera ha letto di nuovo fino a tardi, prende le cuffie e se le mette sulle orecchie.
    – Inizia il gioco.
    Inserisce la password, si sgranchisce le dita e prende in mano il joystick.

      Un movimiento sensual (sensual) 
    Un movimiento muy sexy (sexy) 
    Un movimiento muy sexy (sexy) 

    Una ventina di ragazzi con le braccia sulla testa muovono il bacino all’unisono.
    Al Saqr, con la sua maglietta rossa e il cappello da baseball, fa lo scemo mentre alle sue spalle brillano delle luci a led azzurre.
    Oggi si sposa sua sorella e lui è al settimo cielo perché non dovrà più vederla al mattino con il suo palandrano nero che si aggira come un fantasma: “…e non guardami mentre mi metto il velo, e non portare gli amici in casa, e…” sua sorella ha una voce stridula e ha la lingua più biforcuta di tutta la Radaa: spia alla mamma quando lui mangia lo zibibbo di nascosto, anche quando si è comprato una futa nuova è andata a dirlo. “ Ma erano yer miei, guadagnati aiutando lo zio Saleem… e poi tutti i miei amici avevano un futa a scacchi indonesiana”.
    Al Saqr salta piegandosi in avanti e sculetta proprio in faccia a quell’arpia di sua sorella Tahani.
    Tahani, vestita di rosa, giallo e nero, alza gli occhi al cielo e sussurra qualcosa all’orecchio della cugina, ridono. Suo marito è vicino a lei, i pantaloni bianchi, la giacca bordata in oro, un pugnale a kriss nella cintura.
    – Chissà perché non va a ballare?
    Chiede la cugina a Tahani indicandole il marito, la sposa si gira senza risponderle: “ Mancare di rispetto così a mio marito,” pensa “indicandolo addirittura! Se mia cugina non si dà una regolata nessuno la vorrà sposare. Lui non balla perché è un uomo serio, non un frivolo come Al Saqr, almeno credo.”
    Lui si gira e la guarda e lei abbassa gli occhi. “ Meno male che ho il velo,” pensa “non bisogna arrossire davanti al proprio marito.”
    Passano i vassoi con le foglie di qat e il tè zuccherato, i Kalašnikov sparano in aria in segno di augurio, il cielo è di un azzurro abbagliante e le case si stagliano sull’orizzonte come merletti.

    Y las mujeres lo bailan así, así, así, así 
    Todo el mundo una mano en la cabeza 
    una mano en la cabeza un movimiento sexy 
    un movimiento sexy 

    Tahani si annoda tra le dita il sotto vestito a farfalla, largo e leggero. “Stasera sarò una donna e poi sarò una mamma” pensa e nuovamente alza gli occhi sul marito. “Non è brutto” decide e sorride tra sé e sé.

    Para bailar esto es una                         (Bomba
    para gozar esto es una                        (Bomba
    Todas las mujeres lo bailan               (Bomba) 
    Todas los hombres lo bailan             (Bomba) 
    Todas las radios lo ponen                (Bomba
    Las discotecas lo ponen                  (Bomba
    Toda la gente lo baila                   (Bomba

    Jim è tornato con la ciambella alla crema e il caffè nella tazza di carta, li ha posati sul tavolino e ha atteso che Brendon si sfilasse le cuffie esultando.
    – Eh vai!
    -Quanti ne hai fatti secchi?
    – 17!
    – Grande!
    – Un campione!
    – Tutti armati?
    – Parliamo di Al qaeda, cocco!

     Pero este cuento se acaba, acaba, acaba acaba, acaba, acábalo 


     Da LaRepubblica.it: Yemen, drone Usa colpisce corteo nuziale: 17 morti

    (Arianna Musso)

  • OLI 393: TEATROGIORNALE – Nuda proprietà

    Adriana ha chiuso la porta di ingresso con un gesto di stizza, mastica gli insulti che vorrebbe dire a Cecilia.
    – Non siamo al Colosseo!
    Cecilia è nella camera che era stata lo studio di Ettore, il marito di Adriana. Il divano letto è aperto, sopra vi è una valigia di plastica e stoffa a quadretti.
    -Io me ne torno in Ecuador, signora. Torno da mia figlia, capisce?
    Cecilia è una donna sui 40 anni, ha i jeans con gli strass e una maglia gialla e rossa che le arriva sulle cosce.
    – Le ho fatto un po’ di spesa e le ho lasciato in frigo la cena e il pranzo per domani.
    Cecilia piega una tuta rosa e la mette in borsa vicino a un sacchetto che contiene 8 pinguini che salgono, a ritmo di musica, su una montagna di ghiaccio e scivolano giù.
    – Ha sentito suo figlio?
    È la terza volta che lo chiede in quarantotto ore. Lei lo aveva chiamato una settimana prima per metterlo al corrente che i soldi di sua madre erano finiti e che lei non poteva lavorare per loro a gratis ma sua madre non poteva vivere sola. Il figlio aveva detto che non erano fatti suoi e aveva buttato giù il telefono. Cecilia sospira e piega il pigiama a fiori giallo e verde. Sua madre le tiene sua figlia in Equador e l’aveva vista affaticata il giorno prima su Skype. Ormai Priscilla ha 6 anni, deve aiutare in casa almeno un poco. Ma quando lei tornerà, allora sì che metterà in riga quella piccola viziatella e mette in valigia il pigiama.
    Per Adriana andare dall’ingresso alla cucina è ormai un viaggio, la vista è appannata e i vecchi mobili galleggiano nella penombra. Le sue ossa sono come tenute assieme da dei fili di metallo arrugginiti, troppo corti per permetterle la maggioranza dei movimenti ma la cosa che la fa più arrabbiare è la memoria. Non si ricorda che ha venduto la casa come nuda proprietà senza parlarne col figlio ed è per questo che il figlio la odia; non si ricorda dove ha messo gli occhiali; non si ricorda che ha 87 anni e quando si intravede allo specchio non si riconosce anche se sa che è lei. A volte si ricorda del perché suo figlio la odia e si arrabbia: è la sua vita, la sua casa, lui mica le ha chiesto il permesso prima di sposarsi con quella malummera di sua moglie (moglie di seconda mano visto che ha già una figlia). Cammina piano Adriana, non vuole cadere, non vuole trattenere un istante di più quell’ingrata di Cecilia. Vuole solo arrivare alla sedia in cucina, accendere la televisione e sentire il brusio lontano che ne arriva.
    Adriana tiene la mano destra sul mobile basso dell’ingresso, un po’ per sostegno, un po’ per orientarsi, un po’ per non sentirsi sospesa nel vuoto. Quando era bambina le piaceva stare sospesa, attaccata con le gambe al l’albero di ciliegie e dondolare, il vestito di lana marrone e la camicia di flanella sul viso. Sua madre che la sgrida ma che tiene i grappoli di ciliegie che lei le ha regalato sulle orecchie come fossero degli orecchini.
    – La mamma aveva i capelli neri.
    Sussurra Adriana mentre le dita nodose fanno cadere una boccetta di ceramica su un centrino; la boccetta, cadendo, fa un rumore sordo. Nessuno lo sente.
    Cecilia esce dalla stanza con la giacca blu col cappuccio col pelo, ha la valigia in mano.
    – Signora, io vado.
    Adriana non si gira, ormai è arrivata in fondo al mobile dell’ingresso.
    – Le metto qua le chiavi e il resto della spesa.
    Cecilia lascia una banconota da 10 euro sul mobile e un mazzo di chiavi senza portachiavi.
    – Sul vostro conto ci sono ancora 100 euro. La pensione arriverà tra 15 giorni. Spero che vostro figlio venga presto.
    – Chiudi la porta.
    Dice Adriana e aspetta che la porta sbatta per continuare la sua traversata verso la cucina: c’è l’angolo, si gira a destra, davanti c’è il bagno e la porta è aperta.
    – Ma viveva al Colosseo quella lì?
    Biascica e si incammina per chiudere la porta, le dita artritiche si chiudono attorno alla maniglia in ottone. Il bagno… quando era piccola non voleva mai farsi il bagno la domenica ma stava sempre con le gambe nell’acqua del fiume, tanto che le era venuta la febbre reumatica ed era stata a letto due mesi e in quei giorni vedeva la mamma sbiadita, così come ora vede il lavabo del bagno.
    Chiude la porta del bagno e si gira per raggiungere la porta della cucina, tiene la mano sulla carta da parati ruvida. Fuori sta facendo nuvolo, da dietro le tende bianche la luce si affievolisce, i contorni del tavolo e delle sedie si fanno sempre più confusi.
    – Dove é andata Cecilia? Mi tocca aspettarla quella lì. Mai una volta che mi dica quando torna.
    Adriana alza la sedia e la porta indietro, la sedia stride contro il pavimento ma nessuno la sente. Il telecomando nero è sopra il tavolo, lo prende e schiaccia un tasto a caso. La televisione si accende. Adriana si siede, il suo volto è illuminato da una luce verdognola.

    Da La stampa: Anziani in crisi, volano le vendite della nuda proprietà.

  • OLI 392: TEATROGIORNALE – Lo sciopero dei miei sogni

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali].

    A Genova c’è lo sciopero generale e il vento. Non è una novità a Genova, c’è sempre vento ma non tutti sanno che a volte questo si incanala tra i pilastri e fa cantare la sopraelevata. Il suo canto oggi non è disturbato dal rumore delle macchine perché dopo una settimana di sciopero dei mezzi pubblici i genovesi hanno deciso che è stupido prendere tutti la macchina e rimanere imbottigliati nel traffico. Molti motorini, biciclette, monopattini, pattini a rotelle, passeggini e anche un sidecar. Le poche macchine che girano vanno ai venti all’ora e si fermano a chiedere alle donne incinte o agli anziani se desiderano un passaggio.
    -Io ho fatto la partigiana!
    Urla una vecchina brandendo il bastone a tre piedi contro una punto classic grigia che si è fermata ad offrirle uno strappo.
    -Non mi spavento per due passi, belinun! E scendi da quella macchina che ti si rammollisce il cervello!
    La punto classic rimane interdetta e poi continua il suo viaggio solitario, all’altezza del secondo semaforo di Corso Aurelio Saffi posteggia e un signore sui cinquant’anni apre la portiera ed esce, il vento gli scompiglia i capelli radi. Il mare è grigio blu, le nuvole toccano l’orizzonte.

    All’entrata del porto antico, all’altezza dei giochi, dei controllori dell’AMT hanno un banchetto dove chi desidera può versare un euro a sostegno dei lavoratori precettati e multati dalla prefettura: c’è la fila.
    -Alla fine oggi avrei dovuto spendere tre euro e trenta per l’autobus, ne do due e ci ho guadagnato un euro e trenta.
    Una signora bionda, con una borsa di Prada, parla con un’altra sciura con medesima pettinatura e borsa; le scarpe basse da ginnastica Hogan invece del solito mezzo tacco fanno trasparire l’eccezionalità del momento.
    -Ma non avrei mai detto di trovarti qua, cara.
    Dice l’altra tirando fuori il suo portafoglio Gucci non taroccato.
    -Ragazza, non è una questione di comunisti o di facinorosi, io non voglio che tolgano i mezzi pubblici perché non mi piace guidare e voglio il mio 35.
    Per chi non lo sapesse il 35 è l’autobus che va a Carignano.

    Poco più in là, davanti alla palestra del Mandraccio, c’è la scuola della Maddalena che fa lezione in piazza: i bambini hanno i cartellini identificativi come durante le gite e scrivono sdraiati a terra sopra un enorme telone colorato. I maestri e le maestre hanno portato la lavagna di ardesia e vi hanno attaccato degli striscioni che dalla lavagna vanno fino alle ringhiere del Porto Antico, un gabbiano passeggia sul filo. Sugli striscioni c’è scritto: “GIU’ LE MANI DALLA SCUOLA PUBBLICA- SCUOLE IN SICUREZZA ORA E SUBITO”.

    La scolaresca del convitto Colombo aiuta gli addetti dell’AMIU a raccogliere la spazzatura.
    -Ma perché non siete in sciopero?
    Chiede Homar di dieci anni a Pamela, la netturbina più bella di tutto il centro storico.
    -Ma siamo in sciopero.
    Risponde lei porgendo il sacchetto dove lui mette una bottiglia di plastica vuota.
    -Siamo in sciopero perché vogliamo vivere meglio e non peggio quindi raccogliamo la spazzatura ma poi la portiamo in comune.

    Via Garibaldi è presidiata dalla polizia, sia in Piazza Fontane Marose che in Piazza della Meridiana c’è una camionetta con relativi agenti, ad ogni vicolo ci sono poliziotti in tenuta anti sommossa pronti a fermare qualunque assalto da parte dei cittadini. I netturbini però passano da via della Maddalena e, grazie all’aiuto degli abitanti di quei palazzi, calano i sacchetti dell’immondizia dai tetti in via Garibaldi come tanti palloncini neri che volano dall’alto verso il basso, dolcemente, senza far rumore.

    I negozianti, per venire incontro a tutti in questo momento di emergenza, hanno abbassato i prezzi degli articoli di prima necessità.
    -Se loro non guadagnano è giusto che neanche noi guadagniamo.
    Dice la panettiera di via Lomellini, dietro il bancone il collega guarda duro il giornalista, un ragazzo di venticinque anni in giacca blu; quest’ultimo vorrebbe fargli una domanda ma poi ci ripensa, forse i trecento euro che prende a fine mese col suo contratto a progetto non valgono il confronto con quell’omone grosso dai capelli neri.

    In porto tutto è fermo e i portuali hanno circondato la zona rossa creata dal comune così che sembra che la giunta e il sindaco siano in gabbia, ostaggio della loro stessa città. Anche gli operai e gli impiegati dell’Ansaldo hanno aderito alla protesta e si incamminano tutti insieme verso Tursi, il comune, per aiutare i loro concittadini.
    -Ma come ci arrivo in centro da mia figlia?
    Chiede un signore in cappotto e coppola a un gruppo di impiegate in corteo.
    -Non lo so, signore, gli autobus non passano da giorni, qua c’è sciopero generale, le strade sono tutte un corteo.
    -E va beh, se non passa l’autobus dovrò prendere il corteo. Dice il signore e si mette a camminare dietro la scritta: -LO STATO SIAMO NOI! GIU’ LE MANI DALLA NOSTRA CITTA’!

    Dal secolo XIX: Genova nel caos, oggi quarto giorno di sciopero

  • OLI 391: TEATROGIORNALE – Capriccio

    Da ilfattoquotidiano.it: Femminicidio, i punti deboli del decreto

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali]

    Giada e Carlo sono al Porto Antico, di fronte al Bigo. Fa caldo, il piccolo Giovanni chiede un gelato.
     -L’abbiamo già preso – lo rimprovera la madre.
     -Ma troppo tempo fa – piagnucola Giovanni e si siede per terra, la mamma lo rialza prendendolo per il braccio, Carlo è al cellulare e non si accorge della moglie che gli chiede aiuto.
    Lei urla con una voce acuta, il cinquenne non si alza da terra e inizia a colpire la vetrina dell’Eataly coi piedi. Giada a quel punto lascia il braccio di Giovanni e si scaraventa contro Carlo che si scosta per non essere investito da quella furia bionda e riccioluta di sua moglie.
    Giada è isterica ultimamente perché Giovanni fa troppi capricci, perché è stata messa in mobilità ed è anche incinta, forse. Carlo è un po’ distratto perché gli hanno abbassato lo stipendio e gli hanno prospettato un trasferimento per un anno e mezzo in un campo in Algeria. Giovanni è capriccioso perché ha caldo, non capisce perché i suoi genitori sono così strani e la sua amica Anna ha il gelato e lui no.
    Giada inciampa nelle gambe del figlio e sbatte la testa sulla panchina circolare che contiene una palma. La panchina è di legno verde ora chiazzata di sangue: Giada si è rotta il naso.
    – Ma che cazzo fai, Cristo Santo! – Grida Carlo precipitandosi, lei non risponde e non si muove, lui la gira e vede il sangue che le esce dal naso e gli occhi di lei aperti, sbarrati, respira: ha una crisi isterica.
    Carlo spaventato inizia a darle degli schiaffi per risvegliarla. 
    -Ohhh, ci sei? Giada! Cazzo, rispondi!
    Una donna bionda, di mezza età, con la montatura rossa degli occhiali che stava passando di lì con un cane di piccola taglia, inizia ad urlare: -Polizia! Polizia!
    Una pattuglia formata da due carabinieri e due alpini prontamente interviene immobilizzando Carlo a terra, scarpone sulla schiena e braccio piegato indietro. Un carabiniere chiama la volante e, prima che Giada riesca ad alzarsi, Carlo è stato portato via.
    Un’alpina si prende cura di Giada che sta cercando con gli occhi Giovanni.
    Giovanni ha smesso di piangere e scruta il punto dove il padre era stato gettato a terra.
    – Vuole che l’accompagno in ospedale?
    – Perché?
    – Sarà utile ai fini del processo.
    – Quale processo? Dov’è Carlo? Dov’è Giovanni?
    – Giovanni? L’hanno aggredita in due?
    – No, non mi ha aggredito nessuno, Carlo è mio marito.
    – Non si preoccupi, non sarà costretta a denunciarlo, la signora sta già sporgendo denuncia per lei.
    – La signora? Ma chi è?
    – C’è l’anonimato, mi dispiace, non posso dirle chi è. Comunque non si preoccupi. Eravate sposati quindi? Bene, aggravante. Mi parli di questo secondo individuo che l’ha aggredita, chi è?
    – Ma quale secondo… Giovanni! Urla Giada rivolta al figlio che subito le corre tra le braccia. 
    – Di bene in meglio, davanti a un minore. Non mi dica che è anche incinta?
    – Ma lei come fa a saperlo?
    – Bene, le dico fin da subito che suo marito non potrà più avvicinarsi a casa sua, anche se lo stato di fermo dovrebbe già garantirle una discreta tranquillità.
    – Di fermo? ma cosa dice? Voglio parlare subito con mio marito, c’è stato un’equivoco!
    – Non si preoccupi, la denuncia è ormai irrevocabile, qualunque cosa lei faccia ormai è inutile, il processo si farà, che lei lo voglia o no. Ora, se permette, l’accompagno in ospedale così ci facciamo fare una bella cartella clinica da consegnare al giudice. E non si preoccupi, lei, in quanto vittima, sarà informata di tutto l’iter giudiziario del suo persecutore.
    – Ma è mio marito!
    Il secondo alpino le si avvicina e l’aiuta a rialzarsi mentre il piccolo Giovanni viene preso in braccio da un carabiniere.
    – Non si deve preoccupare signora, ci siamo noi a difenderLa. Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli, venga, venga.
    Giada sale su un’ambulanza insieme a Giovanni. Non sa quando è comparsa l’ambulanza, come non ha ben capito quando è scomparso suo marito.
    Un telefono squilla, è quello di Carlo che è caduto sull’asfalto durante la colluttazione con i carabinieri, la donna bionda, quella con gli occhiali rossi che aveva chiamato la polizia e sporto denuncia, lo raccoglie e risponde, dal cellulare la voce di un uomo:  – Carlo sei tu? Allora domani ci vieni in Val di Susa si o no? Carlo? Ci sei? Dopo quello schifo di decreto non possiamo mica lasciarli fare così. Dobbiamo fargli vedere che non abbiamo paura. Carlo?
    La donna bionda con gli occhiali rossi sorride e si mette il telefono in borsa mentre il cane lecca il sangue rappreso sulla panchina.
    (Arianna Musso)

    Da radioradicale.it: Intervista a Valerio Spigarelli

  • OLI 390: TEATROGIORNALE – Evasione

    Corro, sono anni che sono rimasto rinchiuso.

    La cella, i guardiani, il cibo schifoso, gli occhi dei compagni: non posso più vedere quello sguardo rassegnato, quei movimenti languidi, quelle caviglie gonfie. Libero, giustamente, meritatamente libero perché io ho lottato.

    Niente più compagni di lavoro infidi, serpenti a sonagli pronti a morderti se solo ti avvicini troppo; altri invece erano apertamente aggressivi, feroci: tirano fuori gli artigli per ogni minima sciocchezza. Libero.

    Non devo far vedere che sto’ scappando, devo muovermi in maniera disinvolta, come se niente fosse: un passo dopo l’altro e poi via, di corsa dietro quel muro. Appiattirmi e nuovamente ricominciare a camminare, guardando di qua e di là in maniera disinvolta.
    Disinvolta, disinvolta…. Non ci riesco.

    Io, io me lo ricordo quello che ho lasciato qua fuori, lo so, me lo sono ripassato nella memoria per trenta lunghi anni, una forma di lotta silenziosa e tenace: ricordare, sforzarsi di non dimenticare: ogni notte prima di addormentarmi io ripensavo a quello che c’era fuori, l’ho sognato, l’ho immaginato, ho pianto di nostalgia e ora?
    E ora sono fuori ma questa terra non è la mia terra, è diversa, è più dura, più grigia.
    Provo ad appoggiarmi a queste piante ma si piegano e fanno un rumore strano, alcune poi si spostano. Non sono piante sono pietre colorate che si muovono da sole! No, queste non me le ricordavo proprio. Gli alberi hanno i tronchi lisci e delle foglie luminose. Provo ad odorarne una ma puzzano. Diciamo che puzza un po’ tutto qua intorno e non ci sono corsi d’acqua. Forse è una savana?
    Attorno a me le pietre si fermano ed escono dei tipi che mi ricordano i guardiani, meglio telare.
    Sento odore d’acqua, non ne sento il rumore, non so se è per colpa del frastuono creato da queste rocce mobili o a causa della musica assordante che mettevano i guardiani durante le ore di lavoro.
    C’era una canzone che non era male, faceva più o meno così: “non importa quel che muovi e allora muovi! tatattattatta e allora muovi!” . Questa musichetta mi fa ballare il naso, una volta che mi prende poi…

    Aspetta, aspetta, devo trovare la strada di casa, non mi devo distrarre: odore d’acqua. Ma queste montagne io non me le ricordo. Il mondo è così cambiato in trent’anni? Ci sarà ancora qualcuno ad aspettarmi? E soprattutto dove? Acqua e… che cosa è questo odore? Un odore dolce, verde diverso da questa puzza che mi invade le narici. Ci sono delle strane grotte sempre piene di quegli esseri… li schiaccio o li soffio via, o li sposto con una mossa di quelle ….”tatattattatta e allora muovi! ” No, no, non li schiaccio che iniziano tutti a urlare… che male alle orecchie! Arrivano a fare degli ultrasuoni.
    Verde, c’è una grotta piena di verde, vorrei provare a prenderne un po’, sembra meglio della sbobba della galera. Perché urlano sempre questi umani? Io provo a soffiarli via, via, via sparite.
    Io voglio solo tornare a casa ma qui non c’è più una casa per me. Qui non c’è più nessuno che mi conosca, che si ricorda chi io sia. Voi siete ovunque ma non parlate con me, non mi vedete. Chi sono io per voi? Un animale da circo, una cosa grossa di cui ridere per mezz’ora. Io sono, io esisto perché ho dei ricordi, ho una storia ma se voi mi togliete anche questo, cosa rimane? Una pelle ruvida con due zanne d’avorio. Via, via, volate via. Vi siete presi tutto, anche il mio ricordo del mondo e cosa mi avete dato in cambio? Puzza, grigio e rocce mobili. Vorrei urlare, uccidervi tutti a furia di “tatattattatta e allora muovi! ” ma a cosa servirebbe? A nulla, solo a farvi urlare più forte.

    Mi state accerchiando, ora inizierete a sparare le vostre siringhe dormiglione? No, vi avvicinate? Mi arrendo, non c’è nulla qua fuori per me, chiudo gli occhi, rimettetemi le manette, riportatemi in cella, domenica sarò di nuovo in pista, solo un po’ più triste, solo un po’ più solo: ora so che non ho più un luogo dove tornare.

    Da blizquotidiano: Elefante fugge e passeggia per Roma: ripreso al mercato di Ponte di Nona.

    (Arianna Musso- video da internert)

  • OLI 389- TEATROGIORNALE: Petizione: Affinché il fenomeno migrazioni sia più umano

    Per una volta non voglio scrivere un racconto ma voglio riportare il testo di una petizione on-line che gira sulla rete. L’appello lo potete firmare al seguente indirizzo: http://www.change.org/it/petizioni/affinché-il-fenomeno-migrazioni-sia-più-umano

     “Questo è un’appello al Governo Italiano e alla comunità internazionale tutta.
    Difronte all’ininterrotto genocidio a cui assistiamo inermi in cui uomini, donne e bambini muoiono atrocemente scappando da guerre e carestie, la comunità internazionale non può restare a guardare ma deve agire.
    Questa gente, che contiamo ormai a milioni, esseri umani come noi, bambini che potrebbero essere i nostri figli, donne che potrebbero essere le nostre mogli o madri, intraprende viaggi perigliosi e assurdi come attraversare il deserto a piedi o imbarcarsi su navigli fatiscenti, privi d’acqua o strumenti di navigazione adeguati. Come possiamo rimanere indifferenti a tutto questo?

    Ma, dirà qualcuno, non si possono aprire le nostre ambasciate a tutti coloro che desiderano entrare nella nostra Italia già nel loro paese d’origine. Queste sarebbero prese d’assalto e il nostro territorio nazionale invaso da siriani, afgani, somali, eritrei e tutti quei popoli della terra ingiustamente martoriati dalla povertà, dalla guerra o dalla violenza. Il concetto stesso di Stato e di cittadinanza perderebbe senso, tradiremmo i valori Risorgimentali di patria per cui tanti Italiani sono morti.

    Viviamo quindi in una angosciosa contraddizione: da una parte non possiamo continuare ad assistere inerti alla morte di cotonati uomini, nostri simili che spirano in maniera così atroce, e dall’altra non possiamo accoglierli tutti in cristiano abbraccio.
    Mi chiedo come può una madre vedere morire i propri figli di sete in mezzo al deserto: quanta tragedia è racchiusa in quei piccoli cadaveri riparati all’ombra di un cespuglio, come se questo potesse evitarne la morte. Senza parlare delle nefandezze di cui si macchiano gli Italiani venendo a contatto con realtà così dolorose: campi di detenzione dove i richiedenti asilo (un diritto, non dimentichiamo) giacciono in condizioni disumane, oltre i limiti della legalità; uomini delle Forze dell’Ordine che, esasperati, commettono ingiustizie come il furto (non ancora accertato) a danno di alcuni esponenti della borghesia siriana scappati dalla guerra; i nostri marinai che si macchiano del terribile crimine del non soccorrere i naufraghi a causa dell’incertezza legislativa.

    Gli stati occidentali, che hanno traghettato il mondo intero fuori dalle barbarie, devono mettere da parte ogni sentimentalismo ed avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e indicare la strada da seguire. Chiedo quindi a gran voce di organizzare uno studio serio e documentato di quali siano le reali possibilità di sopravvivenza per ogni viaggio della speranza. Queste statistiche dovranno tenere conto dello stato di provenienza e della situazione economica e culturale del richiedente asilo: sarebbe infatti infantile credere che una contadina nigeriana analfabeta abbia le stesse possibilità di sopravvivenza di un medico iracheno.

    Successivamente dovremmo fare una attenta riflessione sulla quantità di sofferenza che questi viaggi della speranza comportano: se non possiamo evitare le guerre e le carestie dobbiamo almeno cercare di alleviare il dolore che queste genti patiscono. E’ un nostro dovere difronte a tanta disperazione. Quindi chiedo che, alla luce delle ricerche fatte, siano istituite delle camere a gas per motivi umanitari in tutte le nostre ambasciate e che venga concessa la possibilità ai richiedenti asilo di poter scegliere di tentare la fortuna in maniera più consona ad un esponente della razza umana.

    Il richiedente asilo presenterà una domanda completa di ogni informazione per poi entrare in una stanza d’attesa  e lì le statistiche decideranno se verrà accompagnato a una dolce morte o partirà con un biglietto aereo, già fornito di ogni documento, per il paese che più desidera.

    Questo soluzione umanitaria non costerebbe quasi nulla agli stati ospitanti in quanto i beni dei migranti che purtroppo non avevano le caratteristiche necessarie servirebbero a dare la copertura finanziaria necessaria, quest’ultimo fatto avrebbe anche la grande rilevanza di sottrarre ingenti quantità di denaro alla criminalità organizzata.

    Tengo a sottolineare l’importanza del metodo con cui questa prassi deve essere attuata, bisogna avvalersi di ricercatori di indubbia fama e funzionari che non cedano al facile buonismo o alla concussione.

    Questa è una seria proposta che ha come unico fine l’alleviamento della sofferenza e il donare nuova dignità all’essere umano nella sua interezza.”

    Da la stampa.it: Niger: strage migranti, trovati 87 corpi

    LaRepubblica.it: “Noi derubati sulla nave militare”, il giallo del furto ai profughi siriani

    (Arianna Musso- foto da internert)

  • OLI 388: TEATROGIORNALE- L’uomo nero

    [ Questo è un racconto di finzione liberamente ispirato a un fatto di cronaca così come è stato presentato dai mezzi di informazione]

    Pompeo è a piedi nudi, i suoi passi risuonano sul pavimento in pietra. Fuori dalle finestre la luna crescente illumina un albero di fichi in giardino. Silenzio, Pompeo è davanti al talamo dei genitori ma è indeciso se chiamarli o ritornarsene su i suoi passi: e se il padre avesse pensato che è un debole, una pula che ha paura della sua ombra? E se l’avesse battuto col bastone? Con la cinghia? O se avessero deciso di mandarlo in villa, lontano da tutti?

    Sbatte una porta, la civetta canta e poi si invola, Pompeo salta nel talamo.

    -Per Castore! 
    -Per Polluce! 

     Il padre impugna meccanicamente il randello che tiene sempre a portata di mano per ogni evenienza; la madre prende il figlio tra le braccia e lo nasconde tra le lenzuola.

     -Mamma, è vero che i cristiani mangiano i bambini? 

     Dice Pompeo tutto in un fiato, come se quella domanda gli stesse appesa alla lingua da tutta la notte. 

    -Si tesoro, sono delle persone cattive che rifiutano di vivere come noi, in una casa per vivere dentro le catacombe: il loro Dio Gesù strappa i morti dalla pace per farli vagare senza quiete per il mondo. 
    Il bimbo guarda il buio della stanza mentre il padre, riposto il randello, si sdraia nel letto. 

    -E un giorno, questo Gesù gli ha detto: mangiatemi e andate per il mondo a mangiare i bambini in ricordo di me. Ogni settimana i cristiani scelgono un bambino cattivo, che non vuole studiare e che non rispetta i suoi genitori, aspettano che scappi dalle mani dello schiavo che lo deve accompagnare a scuola oppure che salti le lezioni del maestro per andarsene in giro… 
    -Oppure che si metta a guardare le farfalle mentre va al tempio col padre… 
    Aggiunge il pater familia con uno sbadiglio. 

    -E lo rapiscono, lo portano in una tomba e lì lo uccidono, lo fanno a pezzi e poi se lo mangiano; raccolgono il sangue in una brocca e poi se lo bevono come se fosse vino. 

    -Ma questo Gesù era un bambino?

    La madre accarezza Pompeo.
    -No caro, non era un bambino ma un uomo barbuto che diceva di essere lui un dio e che tutti gli altri Dei come Giove, Giunone, Apollo non esistevano.

    Il padre prende il figlio per le orecchie e gli dice affettuosamente:
    -Ma non è vero niente! I cristiani dicevano anche di essere buoni ad addomesticare le bestie feroci ma, l’altro giorno al Circo, hai visto come la tigre si è mangiata quei sobillatori, avvelenatori? Ah-ham! In un boccone!
    Caio Maximum di professione esattore inizia a mimare la tigre che si mangia i cristiani finendo per fare il solletico al pancino del suo bambino. La madre Ottavia li guarda severa.

    -Basta adesso, Pompeo ritornatene nel tuo letto e ricordati di stare sempre vicino a tua madre, a tuo padre o allo schiavo Eunoos quando cammini per la strada. Inoltre devi studiare e essere ubbidiente altrimenti i cristiani ti rapiscono e ti mangiano.
    Pompeo abbraccia forte i suoi genitori e, con un lembo della tunica tra le labbra per farsi coraggio, esce dalla stanza.

    [Questa breve scena potrebbe essere riscritta mettendo al posto della parola cristiani la parola ebrei, uomo nero, comunisti, zingari.]

    Da ilcorriere.it:Il caso di Maria: una coppia rom bulgara «È nostra figlia, l’abbiamo affidata ai greci»

    (Arianna Musso – Foto da internet)