Categoria: Paola Pierantoni

  • OLI 393: GRECIA – Il rebetiko di Vinicio Capossela


    Manolis Pappos

    Mercoledì 3 dicembre, in contemporanea in una sessantina di sale cinematografiche italiane, è stato proiettato «Indebito», il film-documentario di Vinicio Capossela ed Andrea Segre sulla Grecia e sulla musica rebetika.
    Il rebetiko, un genere nato verso la fine dell’800, ha il periodo d’oro tra i primi anni 20 e l’inizio della seconda guerra mondiale: suoi principali protagonisti sono i profughi greci espulsi dalla Turchia nel 1922, alla fine del conflitto greco-turco (1919-1922). Circa due milioni di persone, che si rifugiarono principalmente nei porti di Salonicco e del Pireo, portandosi dietro cultura e musica: i temi trattati non sono mai politici, si parla di alcool, droga, amore, prigione, ma il rebetiko è comunque inviso al potere. Sarà questa sua «alterità» rispetto alle varie dittature succedutesi in Grecia (da Metaxas negli anni 30 al regime dei colonnelli tra il 1967 ed il 1974), a conferire al genere grande popolarità, favorita anche dall’attenzione di musicisti «colti», quali Mikis Theodorakis e Manos Hatzidakis.

    Evghenios Voulgaris

    Non stupisce che Vinicio Capossela, uno dei più «curiosi» musicisti italiani, dopo più di dieci anni di frequentazione della Grecia e delle sue tradizioni musicali, abbia prodotto, in sequenza, un CD (Rebetiko Gymnastas), un libro (Tefteri, ‘il libro dei conti in sospeso’), ed ‘Indebito’, film-documentario, in cui diversi musicisti ci descrivono il loro rapporto con la musica, gli stati d’animo ad essa sottesi, e ci fanno ascoltare le loro voci e i loro strumenti nell’ambiente più naturale, le taverne di Atene, del Pireo, di Salonicco, tra un bicchiere di ouzo, o di tsipuro, e qualche mezes.
    La Grecia di oggi non è solo rebetiko è, ovviamente, crisi economica: realtà ingombrante che in ‘Indebito’, nonostante il titolo, fa appena capolino.

    Dimitris Mitsakidis

    Ma tra rebetiko e crisi c’è una relazione. Nato per dare voce al dolore e alla speranza, in altri anni difficili questo genere musicale è stato uno strumento culturale ed emotivo che ha aiutato le persone che vivevano al margine ad affrontare le difficoltà e a rivendicare la dignità di una cultura e di uno stile di vita.
    Oggi torna ad essere un rifugio per non scomparire unicamente nella depressione, una finestra poetica da cui guardare a se stessi e allo ‘pseftiko dounià’, al mondo menzognero in cui viviamo.
    Capossela sembra avere perfettamente interiorizzato il mood, lo stato d’animo che pervade chi suona e chi ascolta questa musica. Ma dire ‘ascolta’ è improprio: chi siede nelle taverne di certo non si limita ad ascoltare, ma canta, beve, mangia, parla, piange, e se raggiune lo stato d’animo giusto chiede ai musicisti di eseguire la canzone più amata e la balla. Questo continua a succedere, ovunque, in Grecia, e come viene detto nel film davvero tutti partecipano a questo rito: dalle ragazze e ragazzi giovanissimi, alle persone con ormai molti anni addosso.
    Non è quindi difficile condividere con Vinicio Capossela una delle frasi-chiave del film: «questa musica è rivoltosa perché accende in noi la consapevolezza che ogni attimo è eterno perché è l’ultimo, ed è quello che ci invidiano gli dei».
    (Ivo Ruello, le foto di Paola Pierantoni ritraggono tre dei musicisti presenti nel film)

  • OLI 392: CULTURA – Donna Faber

    La mostra ‘Donna Faber – lavori maschili, sessismo e altri stereotipi‘, al Ducale, purtroppo è rimasta aperta per un tempo troppo breve, e noi l’abbiamo vista troppo tardi, così ve ne diamo notizia solo ora.

    Anticipiamo però che è possibile procurarsi il bel catalogo scrivendo a: info@donnafaber.it , costo 8 euro.

    La mostra, realizzata dal Laboratorio di sociologia visuale della Università di Genova e dall’Associazione culturale 36° Fotogramma, è frutto di un interessante intreccio tra fotografia e sociologia, discipline che nascono nello stesso periodo storico, la seconda metà dell’800, e ‘condividono la medesima curiosità nei confronti della società’. Prendono però subito strade diverse, la prima tesa a diventare arte, la seconda a essere riconosciuta come scienza.
    A partire dagli anni ’60 e ’70 negli USA, con la nascita della fotografia di reportage, le strade della fotografia e della sociologia iniziano a convergere. Le lega l’interesse ‘a indagare la realtà quotidiana‘ e l’impegno a focalizzare l’attenzione pubblica sui fenomeni sociali.
    Il ‘fenomeno sociale’ indagato dal Laboratorio di sociologia visuale dell’Università di Genova è quello delle donne nei cosiddetti lavori maschili. Il metodo è stato quello di intrecciare le conoscenze che venivano da un’indagine sociologica basata sulle interviste, a quelle che venivano da immagini utilizzate come ‘strumento per far emergere e comprendere aspetti della complessità altrimenti sfuggenti’.
    Alcuni pannelli offrono a chi visita la mostra delle chiavi di lettura e degli spunti di riflessione. Intanto viene motivata la scelta ‘di adottare un uso non sessista della lingua italiana, utilizzando solo termini femminili (a volte volutamente forzando la mano) per indicare la professione delle donne da noi fotografate e intervistate’. Così incontriamo la Direttora d’orchestra, la Maestra d’ascia, la Minatora.
    Lo stridore che si avverte nel confrontarsi con questi termini dà la misura di quanto profondamente sia radicata in noi quella che Emanuela Abbatecola, responsabile della ricerca, indica come ‘la gerarchizzazione del femminile e del maschile nel nostro dominio simbolico’.
    Il linguaggio, infatti ‘non è mai neutro e le parole plasmano inconsapevolmente il nostro pensiero’. Agire sul linguaggio, scrive Abbatecola, forse non è sufficiente, ma ‘agire politicamente sulle parole non costa nulla, ed è forse una delle poche piccole grandi rivoluzioni che possiamo scegliere di agire nel nostro quotidiano’.
    Mentre giro per la mostra penso che tutte le immagini comunicano una condizione di solitudine e di eccezionalità. Le donne che si trovano in queste miniere, o di fronte a queste orchestre, o in una cucina ma in qualità di Chef , dice uno dei pannelli, hanno ‘violato un dominio simbolico non scritto’. Cosa vera sia per le donne, sia per gli uomini, quando scelgono (o si trovano) in lavori culturalmente non conformi al loro genere.
    Ma quando è Lui a trasgredire ‘sarà facilmente messo su un piedistallo diventando agli occhi di tutti e di tutte ‘il migliore’ … mentre per Lei la discriminazione non è solo in ingresso, ma sembra persistere a lungo, o comunque a rimanere in agguato, puntando su un progressivo e logorante processo d’invalidazione’.
    Solo una piccola stanza e niente gigantografie per questa mostra, ma molto pensiero e molto lavoro da cui la Fondazione Ansaldo (vedi ‘Scatti d’Industria con omissioni’ su Oli 391) avrebbe parecchio da imparare.
    Molte informazioni si trovano sul sito http://www.donnafaber.it/ 
    (Paola Pierantoni – Foto di Ivo RuelloAltra immagine da Internet)

  • OLI 391: ANSALDO – Scatti d’Industria con omissioni

    La mostra ‘Scatti di industria -160 anni di immagini dalla Fototeca Ansaldo’, aperta fino al 30 novembre, espone splendide fotografie che però non sono accompagnate né da date, né da didascalie, né da pannelli che le inquadrino storicamente.
    L’unico orientamento è fornito da un piccolo depliant che, per trentacinque delle immagini esposte, ne indica oggetto e data; ad esempio: ‘Caldaia navale, 1913’. Alcune restano invece del tutto anonime.
    Se si ha la fortuna di capitare quando inizia la visita guidata, alcuni dati di contesto si riescono a recuperare, altrimenti il visitatore può solo affidarsi alla suggestione delle gigantografie, o di alcuni brevi filmati centrati sulle principali produzioni Ansaldo: navi, treni, energia. Può bastare? Forse, ma solo per i pochi che possono contare su una propria memoria storica, o su personali approfondimenti e letture. E gli altri?
    Poi ci sono i veri e propri ‘buchi’.
    Il depliant informa che ‘Nella fototeca Ansaldo sono state a tutt’oggi raccolte oltre 400mila fotografie, a partire da metà dell’800’; e che oltre alla documentazione delle produzioni industriali ‘Non mancano immagini su manifestazioni politiche e sindacali …‘ Materiale iconografico che insieme a una storia industriale, ne narra anche una politica e sociale, di cui però, nella mostra, si coglie solo una fuggevole traccia in uno dei filmati: alcune immagini di cortei accompagnate dal commento che gli anni 60 furono caratterizzati da instabilità economica e tensioni sociali. Che ne sarà stato, ci si chiede, di tutti i decenni successivi? E dei lavoratori, non solo ‘all’opra chini‘, ma soggetti creativi dei loro diritti?
    Del tutto assente poi un gigantesco fatto economico, culturale e sociale, e cioè che dal 1915 al 1918 la produzione bellica Ansaldo fu garantita dall’impiego di donne al posto degli uomini impegnati al fronte.
    Solo a Genova, nei vari stabilimenti Ansaldo (Fiumara, Sestri, Meccanico di Sampierdarena, Stabilimento artiglierie, Stabilimento Metallurgico Delta, Stabilimento fonderie e artiglierie) nel 1917 lavoravano 3606 donne. Erano zero prima del 1915, e sarebbero subito crollate a 526 nel 1919, dovendo cedere il loro lavoro agli uomini che tornavano.
    Questo passaggio, per quanto ‘effimero’, ebbe un’importanza determinante perché modificò la coscienza di sé delle donne, l’immaginario collettivo che delle donne aveva la società, ed anche l’ergonomia: i documenti del Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale invitavano infatti gli industriali a ‘predisporre opportunamente gli impianti e le attrezzature delle nuove officine per le donne’ segnalando, come esempio da seguire, la Meccanica Lombarda di Monza ‘per i soddisfacenti risultati ottenuti con l’uso di manodopera femminile, agevolando quest’ultima con opportuni e intelligenti dispositivi di manovra meccanica di pezzi pesanti’. Per la prima volta l’industria pesante, pressata dall’urgenza bellica, si doveva confrontare con la ‘diversità femminile’.

    Girando per la mostra ad un certo punto si incappa nell’immagine di un gruppo di donne, sorridenti nonostante l’inquietante scritta sullo sfondo, ma è impossibile sapere quale sia la fabbrica, l’anno, il contesto. Bisogna farsi un giro sulla rete per scoprire che sono operaie dello Stabilimento Metallurgico Delta, anno 1937, e bisogna riprendere in mano la tesi di laurea di Roberta Barazzoni: “Il lavoro femminile all’Ansaldo durante la prima guerra mondiale”, anno accademico 1985/86, per inquadrarla storicamente: in questa fabbrica le operaie, del tutto assenti prima della guerra, nel 1918 arrivarono a 340, per crollare a quarantuno nel 1919: alcune di loro devono esserci ancora nella fotografia esposta in questa mostra, condannate una volta di più al silenzio su di sé e sulla loro storia.
    Il depliant dice che quello della Fototeca Ansaldo “E’ un patrimonio fotografico che merita di uscire dalle sale studio della Fondazione ed essere conosciuto da un pubblico vasto e diversificato”. Verissimo, ma bisogna farlo altrimenti.
    (Dati tratti dalla Tesi di Laurea di Roberta Barazzoni: “Il lavoro femminile all’Ansaldo durante la prima guerra mondiale”, e dall’Archivio Donne FLM, presso Archimovi.
    Per un ulteriore approfondimento: Estratto da ‘8 Marzo 2005: Donna, salute, storia’ dello Sportello Sicurezza della Cgil
     (Paola Pierantoni – fotografie dalla rete)

  • OLI 389: PAROLE DEGLI OCCHI – SARA’ FINITA?

    Foto di Paola Pierantoni
    9 Ottobre 2013, una grande nave incombe orribilmente sulle case di Venezia. 
    Il governo ha deciso che da Novembre 2014 dovrà essere definitivamente precluso il transito 
    delle navi crocieristiche superiori a 96mila tonnellate
  • OLI 383: GRECIA – Microcronace da una crisi, tra razzismo, cultura e danza

    Conosco una famiglia, due giovani genitori, meno di trenta anni, e tre figli. Madre greca, padre nigeriano, buon livello culturale. Vivono ad Atene, ma sull’isola che frequento lei ha i genitori.
    Perfettamente bilingui tra inglese e greco stanno progettando l’emigrazione in Australia, ma la ragione principale non è che le varie attività di lavoro seguite in questi anni sono ora tranciate dalla crisi, la ragione principale è il razzismo. Si sentono spaventati e inquieti.
    Già, perché la Grecia, con la crisi, si è scoperta razzista, e lo si vede nella quotidianità.
    A scuola, ad esempio. O nei quartieri, dove gli ‘attivisti’ di Alba Dorata, il partito neo-nazista, fanno scorribande in motocicletta: alla guida nerboruti palestrati, dietro ragazzine con la svastica dipinta in faccia, a minacciare gli ambulanti immigrati, a proporsi come quelli che ‘aiutano i poveri’, pur che siano rigorosamente greci. Come è avvenuto recentemente nel centro di Atene, in Piazza Syntagma, dove hanno organizzato una distribuzione di generi alimentari, e poi hanno pestato i ragazzi che contestavano il loro razzismo.
    Vanno negli ospedali, fanno incursioni, minacciano il personale medico e paramedico che presta le cure ai non greci. Di fronte alle denunce, ci dice un’amica “la polizia tarda ad intervenire”. Aggiunge: è un terrorismo quotidiano. I sondaggi li accreditano al 10 %.
    In parlamento sono avvenuti episodi gravi. Insulti sistematici ai parlamentari, risse. Recentemente uno di Alba Dorata è entrato armato. Ora, tra incertezze e ambiguità in particolare da parte di Nea Democratìa, i partiti al governo stanno discutendo un disegno di legge contro il razzismo.

    Nei “Persiani” di Eschilo l’ombra di Dario viene a consolare il suo popolo dopo che l’ambizione di Serse aveva condotto alla catastrofe di Salamina, e dice: “Anche avvolti di angoscia offritevi quel poco di gioia, ogni giorno che passa”. Spirito e filosofia greca messa in bocca al nemico, combattuto fino alla morte, e pur rispettato nel suo dolore.
    In Grecia c’è ancora un modo di dire: “Η Φτόχια θέλει καλοπέραση”, la povertà richiede la capacità di saper vivere bene.

    I greci lo sanno ancora fare. Così nelle feste interminabili, in questa isola citata nell’Iliade, citata nei ‘Persiani’, la gente continua a perdersi nella danza. A farsi compagnia intorno a tavolate con sopra sempre, rigorosamente, gli stessi cibi. La cosa importante più di tutte infatti non è la varietà o raffinatezza del mangiare, ma la ‘παρέα’, la compagnia, e la musica.
    Speriamo che ce la facciano, che non si perdano, che la disperazione non prevalga gettandoli definitivamente nelle braccia di Alba Dorata, degli speculatori e degli opportunisti di casa propria, del rigore miope di un’Europa che non sa riconoscere se stessa.
    (Paola Pierantoni – Foto dell’autrice)

  • OLI 382: SOCIETA’ – I martiri dell’ignoranza

    La prima volta che ho sentito il racconto di Lanciné Camara, giovanissimo cittadino della Costa D’Avorio, sulla sua piccola amica albina, è stato durante un laboratorio teatrale a cui partecipiamo entrambi, il ‘Laboratorio Immigrati’ di Vico Papa: quindici persone impegnate ormai da un anno a mettere in scena la storia della immigrazione a Genova.
    Una sera, nel corso di una delle improvvisazioni che fanno parte di questo lavoro, ciascuno dei partecipanti doveva raccontare un episodio della propria vita legato ad una forte emozione.
    Lanciné, giovane immigrato della Costa D’Avorio, parlò di quando, andando a scuola, passava ogni mattina davanti alla casa di una ragazzina della stessa età.
    La conosceva perché frequentavano la locale parrocchia cattolica, ma non erano compagni di scuola perché a lei, albina, non era permesso andarci: essere albini in molti paesi africani è uno stimma che ti esclude.
    Si sorridevano e si guardavano al di là della recinzione del giardino, ma una mattina la sua piccola amica non c’era più. Lui non osava nemmeno chiedere cosa ne fosse stato, perché anche solo parlarne era cosa proibita. Poi seppe che era stata uccisa e fatta a pezzi dai suoi stessi parenti. Ci disse: “era il mio primo amore”.
    Lanciné si è fatto testimone di questo dramma, ed è riuscito, anche se nostro concittadino solo da due anni, a promuovere un’iniziativa d’informazione e sensibilizzazione che si è svolta lo scorso venerdì 14 giugno nella ‘Sala Clerici’ della Biblioteca Berio.
    Il titolo era “L’albinismo in Africa: un dramma sociale e culturale”.

    Il pubblico, numeroso ed attento, è stato informato della dimensione dell’abinismo in Africa (un caso ogni 4000 abitanti, e fino ad uno su 1000 in Nigeria), degli aspetti medici particolarmente pesanti causati dalle alte temperature, dal sole, dalla carenza di cure e di prevenzione che espongono a sofferenze e danni gravi alla vista, alla pelle: moltissimi i casi di tumore. Si è parlato delle iniziative di sostegno, sensibilizzazione, aiuto che molte organizzazioni – tra queste la “Associazione Di Cooperanti Tulime ONLUS” (http://www.tulime.org/2011/10/13/progetto-albini/) – stanno svolgendo in diversi paesi africani.

    Ma è stato Lanciné a dare col suo intervento la dimensione culturale, sociale, emotiva di questo dramma. “Gli albini non sono considerati persone! Una leggenda racconta che gli albini spariscono ma non muoiono mai, simbolizzano una maledizione degli dei. Le famiglie in cui nascono sono sommerse dalla vergogna e dalla paura, e in tanti casi arrivano all’infanticidio. Oppure sono considerati incarnazione di un potere magico, benefico o malefico … “.
    L’ambiguità che rappresenta un essere come l’albino, alimenta pratiche occulte: spesso sono cacciati, uccisi, mutilati, vittime di crimini rituali. C’è un mercato dei loro organi, ritenuti magici. In una situazione di miseria, è un mercato che rende.
    Che vada bene sono esclusi, soli, abbandonati. Dice Lanciné: “Alla luce del sole, quelli che restano nel buio diventano martiri dell’ignoranza degli altri, e la sorte che tocca a chi è in minoranza è uno specchio che ingrandisce i mali della società”.
    Ogni società ha i suoi albini, e l’Europa e l’America ne sanno qualcosa.
    L’incontro si è concluso con un messaggio di speranza, il video del grande compositore Salif Keita, albino, che canta: io sono un nero, la mia pelle è bianca, io sono un bianco e il mio sangue è nero, e io adoro questa differenza, questa differenza è bella. Ognuno, al suo turno, avrà il suo amore, e la vita sarà bella. 
    (Paola Pierantoni – foto dell’autrice)

    Pubblichiamo anche la bella poesia che Lacine Camara ha scritto e letto al convegno, qui nella traduzione di Marina Bonelli

    Dio! Clemente e misericordioso, Dio!
    Te ne prego, non abbandonare Mukidoma!

    Sarò consegnato all’indegna prigione della diversità
    dove l’orizzonte della mia esistenza non sarà che avversità.
    Invano cercherò una luce per illuminare i loro occhi,
    dove già la mia differenza giustificherà la mia inferiorità

    Pregando per non avere un figlio che mi assomigli,
    la loro pioggia di sputi seguirà la mia apparizione
    e per maledire lo zerou-zerou che mi rappresenterebbe,
    mi bagneranno con parole irridenti e denigranti.

    Mi accuseranno di aver commesso un grave crimine, 
    quello di essere nato con la pelle troppo bianca!
    Allora la mia anima sarà chiusa in una prigione,
    dove la pena sarà immensa come l’universo.

    Resterò dunque perso nella mia solitudine.
    Una brezza malinconica profumerà la mia vecchiaia.
    Le mie labbra resteranno serrate, la mascella digrignante,
    racchiudendo una energia di dolore e gemiti.

    Non avrò lenti, non avrò occhiali
    che mi diano il santo piacere di vedere bene.
    E il sole stesso si armerà dei suoi raggi,
    per spezzare il mio corpo e infiammare la mia pelle.

    Poiché un corpo di albino è una merce appetibile.
    Senza dubbio, sarò abbattuto, smembrato, e venduto!
    Certamente proprio dalle mani dei miei vicini.
    Probabilmente proprio per volontà dei meii genitori!

    Così sarò sacrificato agli dei! 
    I feticci avrebbero grandi poteri celesti
    gli stregoni saprebbero fabbricare i migliori talismani.
    Ecco chi saprebbe guarire da ogni disgrazia!
    Ecco chi potrebbe riempire di pesci le piroghe,
    ecco chi potrebbe concedere tutti i poteri.

    Dio, clemente e misericordioso, Dio!
    Ti prego, non abbandonarmi!
    Non abbandonare Mukidoma,
    almeno là, anima in pace, 
    troverò un pò di serenità.
    (Lanciné Camara)


  • OLI 381 – TURCHIA – Occupygezi

    C’è un filo rosso che collega tutti i movimenti che si nominano Occupy, c’è un sentimento di disagio nei confronti di un potere, sia pur democraticamente eletto, che non rispetta tutti i suoi cittadini. Esiste una dittatura della maggioranza che non è equiparabile a una democrazia.
    In Turchia, così come in tanti altri paesi occidentali, in piazza sono scese tutte quelle persone che non sono in sintonia con la maggioranza democraticamente eletta: ci sono laici, anarchici, comunisti, religiosi che la pensano in maniera diversa, femministe, donne che magari femministe non si sentono ma non vogliono neanche essere il focolare della casa, architetti, storici, intellettuali, omosessuali, kemalisti e ambientalisti. Ognuno è in piazza per un motivo diverso ma tutti si sono ritrovati travolti dalla violenza della polizia di stato che ha già fatto i suoi morti.
    Questa rivolta ha in comune molto col G8 genovese, dove una massa festante di persone, di molte idee diverse ma alternative rispetto al potere, sono state oggetto di una brutale aggressione da parte della polizia italiana.
    Il fattore religioso in Turchia è un ulteriore elemento di complessità che non deve però offuscare un’analisi più articolata, così come è riduttivo parlare della rivolta turca solo come un problema di verde cittadino: il parco Gezi è un luogo simbolo per i lavoratori turchi, è il luogo dove si fanno le manifestazioni e dove si festeggia il primo maggio, come per noi è piazza San Giovanni a Roma.
    I turchi non sono arabi. La figura religiosa più autorevole della storia religiosa turca è Rumi, un poeta e maestro sufi. Dopo la rivoluzione kemalista la religione è stata relegata ad una sfera personale: non si poteva indossare nessun elemento di identificazione religiosa nei luoghi pubblici e nessuno poteva obbligare un altro/a ad indossarli, così come era vietata l’educazione religiosa nelle scuole. Le donne hanno avuto diritto di voto nel 1926, venti anni prima che in Italia.
    L’AKP, il partito di Erdogan, è un partito islamico considerato moderato in occidente che, oltre a cambiare lentamente ma inesorabilmente il volto culturale ed economico della Turchia, ne ha cambiato anche il paesaggio dando il via a grandi opere su cui aleggia l’ombra della corruzione e del clientelismo.

    (Arianna Musso – Foto Paola Pierantoni)
  • OLI 381: INFORMAZIONE – Microcronache dalla Grecia, la ERT / 2

    Atene, striscione sulla sede della ERT: la ERT è e resterà aperta

    Chiamo Atene, sotto l’emozione della chiusura della rete televisiva pubblica ERT, per raccogliere le reazioni di un amico.
    Mi attendo preoccupazione e indignazione, invece trovo una presa d’atto disincantata.
    Guarda, mi dice, che la ERT è stata, come tutto il settore pubblico in Grecia, un grandissimo serbatoio clientelare. Ci lavora il triplo di quelli che lavorano per la BBC.
    Informazione vera e di qualità non ne ha mai fatta, è stata solo la voce dei partiti di volta in volta dominanti.
    A Tutta la città ne parla su Radio 3 questa mattina un esponente del Pasok dice che la ERT non andava certo chiusa con un colpo di mano, ma riformata, razionalizzata: era nell’agenda politica procedere in questo senso.
    Ma l’amico mi dice che sono anni che questo viene detto, e mai fatto, e che mai si sarebbe potuto fare senza forzature, perché le resistenze interne ed esterne erano invincibili.
    Skype mi permette di raggiungere un altro amico al Pireo, nei saloni di una mostra d’arte, dove ha esposto alcune sue opere. Mi dice che la ERT era una fonte incredibile di spreco e clientelismo, ma che chiuderla d’imperio con un colpo di mano è un fatto gravissimo, è fascismo. Aggiunge: è una prova generale di quel che si potrà fare anche in altri Paesi.
    In queste ore le trasmissioni, per iniziativa dei giornalisti, proseguono attraverso internet. O vengono ospitati da canali stranieri.
    Il mio amico manifesta la sua inquietudine. Dice che è stato un errore lo sciopero dichiarato da una parte dei giornalisti: per chi fa informazione ora è il momento di lavorare più che mai, in qualunque condizione.
    Con lui è un’altra mia grandissima amica. Mi dice: le trasmissioni non si sono interrotte nemmeno durante la guerra. In queste ore girano i documenti d’archivio: è anche una grande questione culturale. Un patrimonio custodito nell’archivio storico che rischia di andare perduto.
    Attraverso la web cam gli amici mi portano a visitare le opere esposte nei grandi, asettici, bianchi locali di questi spazi espositivi allestiti nei locali di una vecchia fabbrica dismessa. Questa è un’oasi, mi dicono, fuori c’è il caos. La cultura si sta frantumando. Ne trovi tracce sempre più deboli. Si perde ormai la qualità nella musica, nella danza, nel cinema. Ci sono solo isole di resistenza.
    La ERT on line si può seguire a questo indirizzo:
    http://www3.ebu.ch/cms/en/sites/ebu/contents/news/2013/06/monitor-ert-online.html
    Molto spesso viene offerta anche la traduzione in italiano di quel che viene detto.
    (Paola Pierantoni – Immagine da internet)


  • OLI 380: GRECIA – Micro-cronache da una crisi / 1

    Ikaria. A mattina inoltrata i tavolini del piccolo caffè sono ancora vuoti. Parliamo con un giovane amico che vive di musica e del poco che gli dà, una volta pagato l’affitto, un esercizio commerciale, emporio di generi di prima necessità di un villaggio abbastanza isolato, e insieme caffè e punto di ritrovo dei pochi abitanti, e dei turisti di passaggio, d’estate.
    L’argomento è la crisi, tema su cui si cade immediatamente quando si parla con le persone di qui, e sfondo sonoro continuo, se per caso c’è un apparecchio televisivo acceso.
    Cerchiamo di sostenere con lui le ragioni del rimanere in Europa, ma l’unico altro avventore, un anziano signore seduto vicino a noi, interviene quietamente dicendo: “Avevo una pensione di 1300 euro, ora me ne danno 900. Ecco cosa mi è restato dopo 45 anni di lavoro”.
    Pochi giorni dopo, un’amica ateniese ci informerà che sono in arrivo altri tagli, che si sommeranno ai precedenti e colpiranno anche le pensioni minime, qui di 450 euro mensili, a cui verranno tolti 25 euro, e poi a crescere.
    A queste condizioni non c’è spazio per discutere. Ogni speranza, ogni ipotesi è stata tagliata. Notizie come un lieve miglioramento del rating, o promesse di ripresa nel 2015 non vengono nemmeno commentate.
    Ci dicono: aspettano di comprarci, che ci vendiamo tutto, per disperazione.

    Conosciamo qui un anziano signore, è stato professore di letteratura francese al liceo e all’università di Atene. Conosce diverse lingue, tra cui l’italiano. Ha all’attivo traduzioni e diversi saggi. Gli argomenti variano dalla storia dell’occupazione italiana nell’isola di Ikaria durante la guerra, alle opere e biografie dei rappresentanti del filellenismo francese.
    Leggere, corrispondere con un’amica lontana sono da anni le sue risorse. Ora sta perdendo la vista, ma l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno è impossibile ottenerlo da una struttura pubblica, e farlo privatamente costa duemila euro, cosa che la sua pensione, tagliata come sopra, non permette.
    Tutte le volte che lo incontriamo in paese il discorso torna sempre lì.

    “Qui, nell’isola, le cose vanno un po’ meglio. Qui non c’è la fame”. Te lo dicono tutti, qui, e va inteso in senso letterale. Ci sono gli orti, che danno patate, pomodori, zucchini, melanzane, fagioli, zucche, peperoni, cipolle. Ci sono il maiale e l’agnello, al singolare, che fatti a pezzi e surgelati forniscono la carne per tutto l’anno. Ci sono le galline con le uova, e i conigli, che danno anche il letame per l’orto. Ma stipendi e pensioni fatti a pezzi non permettono altro. Anche un impiego apparentemente sicuro, come un posto d’insegnante nella scuola professionale dell’isola, è diventato incerto: non si sa cosa vorranno fare di questa scuola. Forse toccherà andar via. L’ospedale, unico dell’isola, lo vogliono chiudere, e si infittiscono manifestazioni per tentare di difenderlo. La sanità, l’università per i figli, finire di sistemare la casa sono diventati obiettivi al di là del confine. C’è chi per avere una diagnosi dovrebbe fare una biopsia. Aspetterà un anno. Per farla privatamente i soldi non ci sono. Tutto è fermo. Anche andare e venire da Atene all’isola è diventata questione di calcoli attenti: i 35 euro del biglietto, il doppio almeno per l’automobile, sono costi che non ci si può più permettere con leggerezza.
    Ci dicono: meno male che questo inverno è stato mite, abbiamo acceso il riscaldamento solo due volte, altrimenti con quel che è aumentato il petrolio come potevamo fare?
    (Le cronache continueranno nei prossimi Oli)

    Informazione: un documentario sull’isola di Ikaria verrà proiettato sabato 8 giugno alle 18.30 al Cinema Sivori, nell’ambito della rassegna “CINEA – Il filo di Gaia – Cinema ed educazione alla sostenibilità ambientale”. Dal programma di sala leggiamo che narra la storia di  un giovane disoccupato ateniese che ha lasciato la città per trasferirsi a Ikaria, per lavorare nell’apicultura, scoprendovi una comunità che sopravvive grazie a una particolare cultura incentrata sull’autonomia e la cooperazione.
    (Paola Pierantoni –  Foto dell’autrice)