Categoria: Saleh Zaghloul

  • OLI 313: IMMIGRAZIONE – Cos’è una società multietnica?

    Disegno di Guido Rosato

    Sergio Romano è uno dei pochi intellettuali italiani che non sono scomparsi dalla scena nazionale, quelli che scrivono e pensano in maniera autonoma dal potere. Perciò ha sempre scritto cose interessanti. Già il titolo della sua rubrica sul Corriere della Sera dell’8 settembre (il multiculturalismo, quello cattivo e quello buono) è molto stimolante. C’è una grande confusione, infatti, attorno ai termini multiculturalismo e società multietnica. Se ne parla senza sapere esattamente di cosa si sta parlando. Quando il presidente del consiglio dice che è contro la società multietnica senza spiegare cosa intende per società multietnica e quando le sue parole sono trasmesse ed amplificate dai molteplici mezzi di comunicazione di massa, la confusione regna indisturbata. Una certa società è multietnica solo per il fatto che in essa ci vive un consistente numero di persone che provengono da etnie, culture e religioni diverse. L’Italia è un paese multietnico perché ci vivono più di sei milioni di queste persone. E’ insensato domandarci se siamo pro o contro questa Italia multietnica, dobbiamo invece chiederci: che tipo di società multietnica vogliamo? Vogliamo, ad esempio, una società multietnica democratica, inclusiva, aperta, oppure una società multietnica chiusa, illiberale e razzista? Una società multietnica dove vige lo stato di diritto, l’uguaglianza dei diritti, le pari opportunità, lo scambio culturale e l’intercultura o una società multietnica dove diritti ed opportunità non sono uguali per tutti e dove si vive separati in ghetti etnici, religiosi e culturali? Una società nella quale la convivenza tra diverse etnie e culture sia motivo di pace sociale o di conflitto permanente? E’ da quindici anni, almeno, che viviamo in una società multietnica, cos’aspettiamo ancora per costruirne una democratica ed interculturale? Quando iniziamo a mettere le basi legislative e culturali per costruirla?
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 313: Il presidente dell’OLP chiede all’ONU il riconoscimento dello Stato di Palestina

    Il presidente palestinese Abu Mazen all’ONU: ” I nostri sforzi non hanno lo scopo di isolare o delegittimare Israele. (…) Perché crediamo nella pace, per la nostra convinzione nella legittimità internazionale, perché abbiamo avuto il coraggio di prendere decisioni difficili per il nostro popolo, e in assenza di una giustizia assoluta, abbiamo deciso di cercare la giustizia relativa, quella possibile, e di correggere una parte delle gravi ingiustizie storiche commesse contro il nostro popolo. Così, abbiamo deciso di costruire lo Stato di Palestina in solo il 22% del territorio della Palestina storica, sui territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (…). Una tale risoluzione, si presume, dovrebbe includere una riaffermazione che qualsiasi accordo finale deve includere il riconoscimento di Israele e garantire la sua sicurezza, che i due stati condivideranno Gerusalemme come capitale, e che il problema dei rifugiati palestinesi deve essere risolto. I palestinesi non useranno la loro sovranità conquistata per presentare azioni giudiziarie contro gli israeliani presso la Corte di giustizia internazionale”.
    Bill Clinton ex presidente degli Stati Uniti parlando giovedì scorso ai margini di una conferenza a New York : “La colpa del fallimento del processo di pace con i palestinesi è del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, non è interessato al processo di pace” http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4126490,00.html .
    Ali Rashid, italo palestinese, ex deputato italiano (indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista): “Molti palestinesi considerano tardivo il passo coraggioso deciso da Abu Mazen di rivolgersi alle Nazioni Unite (…), l’assemblea generale dell’ONU ha già riconosciuto lo stato palestinese dichiarato da Arafat, nel 1988, con 104 voti favorevoli, due contrari e 36 astenuti. Anche secondo molti israeliani la cosa renderebbe Israele più sicura, favorirebbe la sua normalizzazione nella regione e rassicurerebbe la sua popolazione (..) Ritornerebbe così la presenza ebraica come elemento culturalmente originale e fondamentale nella storia della regione. Comunque più passa il tempo, più il costo del sostegno incondizionato alle politiche israeliane diventerà intollerabile a tutti” http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110922/manip2pg/01/manip2pz/310332/.
    Daniel Cohen Bendit, presente alla manifestazione di centinaia di intellettuali ed accademici israeliani a Tel Aviv, giovedì scorso, a sostegno del riconoscimento dello Stato di Palestina, ha invitato i leader della protesta sociale in Israele a sostenere la causa palestinese: “Ho parlato con i leader della protesta sociale che sono diffidenti a legare le due lotte. Ma non ci può essere alcuna soluzione ai problemi sociali di Israele senza la fine dell’occupazione dei territori palestinesi” http://www.haaretz.com/news/national/israeli-intellectuals-back-palestinian-statehood-in-tel-aviv-rally-1.386215.
    Wassim Dahmash, italo palestinese, professore all’Università di Cagliari : “Il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario ad Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi. A tutt’oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (risoluzione 194). Il riconoscimento di un “futuro” Stato palestinese limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato (virtuale). La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l’esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale secondo la carta delle Nazioni Unite …” http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2840:uno-stato-palestinese&catid=23:interventi&Itemid=43.
    Il professore israeliano Galia Golan ha accusato la leadership israeliana del mancato accordo di pace con l’Autorità palestinese: “Avremmo potuto raggiunto un accordo dal 1988 ed è interamente colpa nostra che non l’abbiamo fatto. Nel 1988, l‘OLP ha accettato un compromesso storico. Hanno dato il 78% del territorio al fine di ottenere la pace e porre fine all’occupazione. Invece abbiamo continuato a chiedere loro altri cedimenti, ma non hanno più nulla da dare. Siamo stati noi i negazionisti in tutti questi anni. Abbas è il leader più moderato che si possa desiderare ed ha fatto bene a rivolgersi all’ONU. Noi con la nostra stupidità non andremo all’ONU insieme a lui, quando lo Stato che egli chiede ci dà un confine a est e il riconoscimento di Gerusalemme Ovest, cose che non abbiamo ancora ottenuto”, http://www.haaretz.com/news/national/israeli-intellectuals-back-palestinian-statehood-in-tel-aviv-rally-1.386215

    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 312: IMMIGRAZIONE – Una tassa xenofoba sugli immigrati irregolari

    Il decreto legge 138/2011 (la manovra economica), modificata dal maxiemendamento approvato dal Parlamento, contiene una disposizione che introduce un’imposta del 2% sui trasferimenti di denaro effettuati dagli stranieri verso paesi non appartenenti all’Unione europea. Sono esentati i trasferimenti effettuati da cittadini dell’Unione europea e da cittadini muniti di matricola Inps e codice fiscale.
    Gli immigrati regolari sono tutti in possesso dei requisiti per l’esenzione e sembra, dunque, che l’obiettivo sia tassare le rimesse degli immigrati irregolari, ma non si capisce il perché. Si intende forse privare i paesi d’origine degli immigrati, in via di sviluppo, di una risorsa importante? Come si fa a dimenticare il contributo allo sviluppo dell’Italia che hanno avuto le rimesse di milioni di emigranti italiani nel mondo? Si intende forse rendere la vita ancora più faticosa agli irregolari? Ma queste persone che hanno una vita già difficile non hanno alcuna colpa per cui debbano essere puniti: l’irregolarità non è una libera scelta, sono costretti (proprio dalle politiche del governo) a vivere senza permesso di soggiorno. Comunque, non è la prima volta che le rimesse degli immigrati irregolari vengono colpite. Nel 2009 questo stesso governo, con il decreto sicurezza (legge 94/2009), aveva imposto ai gestori di “money transfer” di comunicare all’autorità di pubblica sicurezza i dati identificativi degli stranieri che effettuino invii di denaro senza esibire il permesso di soggiorno. Risultato: gli irregolari continuano a mandare i soldi nei loro paesi d’origine, ma non direttamente. Per evitare di essere identificati e conseguentemente espulsi o che sia vietata loro la prossima regolarizzazione, essi effettuano il trasferimento di denaro a nome di parenti, amici o semplici conoscenti, italiani o immigrati regolari. Da domani questi intermediari devono essere muniti anche di codice fiscale e matricola Inps. Ma se non ci sono più rimesse che vengono effettuate da immigrati irregolari, che senso ha introdurre una tassa del 2% sul nulla? Si tratta forse di un’altra svista di un governo incompetente? O forse è un altro dei “messaggi culturali” del governo Berlusconi – Lega?
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 311: IMMIGRAZIONE – Chiamateli “persone migranti”

    Foto di Giovanna Profumo

    Il procuratore capo di Savona Francantonio Granero con una circolare chiede ai pubblici ministeri e agli agenti di polizia giudiziaria di non utilizzare, negli atti giudiziari, termini come “extracomunitario” “il clandestino” “il rumeno” ecc.., che – dice Granero – hanno assunto nel corso degli anni un significato discriminatorio anche nel linguaggio comune e nella percezione di chi opera nelle istituzioni. 

    Granero chiede invece di utilizzare, di fronte a uomini e donne che non appartengono all’Unione Europea, i termini “persone migranti” oppure “cittadino di un determinato paese” solo laddove questo risulti significativo per le indagini. “Per il resto – dice Granero – si utilizzino gli stessi termini che valgono per i cittadini italiani. Raramente del resto capita di leggere “italiano investe un pedone” o “italiano sorpreso a spacciare stupefacenti in tale zona”.
    Le disposizioni del procuratore capo sono state accolte molto bene dai suoi colleghi di Savona  e dai colleghi a livello ligure e nazionale: il presidente della sezione ligure dell’Associazione Nazionale Magistrati Franceso Pinto ha dichiarato di essere totalmente d’accordo con il collega di Savona, aggiungendo che la circolare Granero “riveste anche un’importante valenza tecnica, visto che sembra uniformarsi agli indirizzi della Corte di Giustizia Europea la quale, in più occasioni, ha sottolineato come vadano eliminate anche le discriminazioni lessicali”.
    “Extracomunitario”, uno dei termini incriminati dalla circolare Granero, nasce negli anni ottanta per indicare persone non appartenenti alla Comunità europea ed è testardamente ancora usato malgrado la Comunità non esista più dal primo novembre 1993, data di entrata in vigore del trattato di Maastricht che crea l’Unione Europea.
    Con questa ennesima iniziativa i giudici italiani confermano il loro contributo concreto per l’integrazione e contro la discriminazione, un contributo che assume un’importanza enorme in assenza di quello di politici e  giornalisti (che usano spesso e volentieri tutti i termini incriminati dalla circolare). Meno male che ci sono i giudici che imponendo legalità, rispetto della Costituzione e delle leggi riescono a limitare la prepotenza dei più forti, dei più ricchi e dei razzisti.

    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 309: ISRAELE – Esportare immigrati in Australia


    Il Corriere della Sera del primo luglio, nell’articolo “Esportare clandestini: l’idea di Israele”, parla della proposta del governo israeliano a quello australiano di esportare in Australia gli immigrati africani che vivono in Israele in cambio di cooperazione tecnico–scientifica con Israele e la possibilità così per l’Australia di evitare l’obbligo umanitario di accogliere i profughi asiatici dall’afghanistan o da Timor Est. “Il governo Netanyahu – scrive il Corriere – eviterebbe (questo il vero scopo della proposta) un aumento dei musulmani nella popolazione d’uno Stato che preferisce ebraico”.
    Il carattere ebraico dello stato di Israele: uno degli ultimi pretesti che gli israeliani hanno inventato per bloccare le trattative di pace con i palestinesi ed impedire la nascita dello stato palestinese. Secondo i negoziatori israeliani non basta che i palestinesi riconoscano Israele (cosa che hanno già fatto dagli accordi di Oslo del 1993), ma occorre che i palestinesi riconoscano il carattere ebraico dello stato di Israele. I palestinesi temono che questo possa dare forza ai piani di pulizia etnica e di deportazione della “minoranza” di palestinesi che hanno la cittadinanza israeliana dal 1948. Stato confessionale dove la confusione tra nazione e religione viene accettata come qualcosa di normale, esattamente come vengono tollerate le aggressioni,  le occupazioni di territori altrui (dei palestinesi  e dei siriani dal 1967), le bombe atomiche di questo stato che si dice ebraico.
    In un altro articolo (http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/07/05/the_million_missing_israelis) dell’americano Foreign Policy, del 5 luglio, si parla invece della forte emigrazione degli Israeliani per gli Stati Uniti ed altri paesi europei che coinvolge circa 800 mila – un milione di persone equivalenti al 13% della piccola popolazione israeliana. Si tratta, secondo il Foreign Policy, della parte più giovane, istruita, democratica e laica dei cittadini israeliani. Le ragioni citate dalla ricerca sono le migliori condizioni di vita, l’occupazione, le opportunità professionali, e l’istruzione superiore, così come il pessimismo sulle prospettive di pace con i palestinesi. Coerentemente con questi motivi, gli intervistati hanno frequentemente detto: “La questione non è per quale motivo l’abbiamo fatto, ma perché ci abbiamo messo così tanto tempo prima di farlo”. In questo caso la preoccupazione del governo israeliano è quella, opposta, di fermare l’emigrazione di ebrei da Israele: oltre a mettere in pericolo la purezza ebraica dello stato, la partenza degli ebrei israeliani contribuisce a minare l’ideologia sionista; se un gran numero di ebrei israeliani sceglie di emigrare, perché gli ebrei che sono ben integrati e accetti in altri paesi dovrebbero immigrare in Israele? Questo accade mentre persone illuminate di tante parti del mondo sono convinte che in Palestina sia necessario un unico stato laico, veramente democratico ed interculturale, dove palestinesi e israeliani, ebrei, musulmani e cristiani possano convivere in pace con pari diritti e opportunità
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 308: IMMIGRAZIONE – PD e Cgil ripartono dai giovani figli degli immigrati

    In questo mese si svolgono due feste dedicate ai giovani figli degli immigrati: la prima è organizzata dal Partito Democratico (Cesena, dal 1 al 17 luglio), la seconda è la festa dei giovani della CGIL, compresi i giovani immigrati, (Coltano, in provincia di Pisa, dal 14 al 17 luglio).
    La CGIL inoltre ha annunciato la settimana scorso l’avvio,  insieme ad altre diciannove organizzazioni, di una campagna per la raccolta di firme per due proposte di legge di iniziativa popolare su cittadinanza (che riguarda soprattutto i giovani immigrati) e diritto di voto.
    Molti di questi giovani sono nati in Italia e si sentono italiani ma si scontrano quotidianamente con una dura realtà che li esclude e li costringe, ad esempio, alla faticosa e costosa odissea del rinnovo del permesso di soggiorno. Finita la scuola, tutto sommato isola felice dell’integrazione, grazie solo all’intelligenza, alla sensibilità e alla generosità di  insegnanti e dirigenti scolastici, si trovano impossibilitati ad accedere allo studio universitario essendo per lo più figli di operai di basso reddito (colf e operai edili). Essendo inoltre esclusi, in generale, persino dai più bassi livelli di lavoro nel pubblico impiego, molti di loro sono costretti a fare i lavori dei propri genitori.
    In Italia non ci sono politiche, progetti e fondi per l’integrazione, quest’ultima è lasciata alla buona volontà delle persone, delle associazioni e del sindacato. Tra qualche anno, quando la presenza di questi giovani sarà di massa, l’integrazione sarà ancora più difficile. L’esperienza di altri paesi, ad esempio la Francia, ci dice che diversamente dai loro genitori, essi risentono fortemente l’esclusione e c’è un alto rischio di reazioni non del tutto pacifiche. Bene fanno dunque PD e Cgil a ragionare sull’immigrazione ripartendo dalle problematiche delle nuove generazioni, dal momento che sono in gioco il futuro della pace sociale e la qualità democratica del nostro paese. Oltre alla necessità di battersi per una riforma che consenta la cittadinanza automatica per i nati in Italia e per chi è da molti anni in Italia, occorre pensare a politiche capaci di garantire il diritto allo studio universitario e post-universitario ai figli dei migranti, anche tramite fondi privati costituiti a tale scopo. La mobilità sociale degli immigrati è condizione necessaria per l’integrazione e la convivenza pacifica.        
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 303: IMMIGRATI – La circolare è buona? Allora sospendiamola..

    Molte domande di emersione dal lavoro irregolare (regolarizzazione del lavoro domestico e di cura alla persona del 2009) sono state rigettate in base ad un’interpretazione del ministero dell’interno per la quale il reato di mancato ottemperamento all’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato è ostativo alla regolarizzazione.
    Il Consiglio di Stato con due sentenze del 2 e del 10 maggio 2011, recepisce la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE basata sulla Direttiva 2008/115/CE (Direttiva Rimpatri) ed accoglie i ricorsi contro i provvedimenti di rigetto delle domande di regolarizzazione fondati sull’interpretazione ostativa di cui sopra.  
    A questo punto il Ministero dell’Interno il 24 maggio 2011, per evitare ulteriori condanne a pagare i risarcimenti e spese processuali, emana una circolare nella quale si raccomanda agli Sportelli Unici ed Uffici Immigrazione delle Questure di cambiare interpretazione: di accogliere d’ufficio le istanze non ancora definite e di valutare caso per caso le istanze già definite su richiesta del lavoratore straniero interessato.
    Queste sagge indicazioni del Ministero dell’Interno durano solo due giorni e rischiano di sparire del tutto: una seconda circolare dello stesso Ministero del 26 maggio 2011, dispone, infatti, di sospendere temporaneamente tali indicazioni.
    Comportamento denunciato dalla CGIL e dalla segretaria confederale nazionale Vera Lamonica. Nel comunicato stampa del 27 maggio 2011 pubblicato su http://www.cgil.it/ si legge che “La sospensione di un atto, peraltro dovuto, la dice lunga sullo stato di confusione e di pressapochismo in cui ormai versa il Ministero degli Interni in materia di immigrazione. Viene spontaneo pensare anche alla consueta e propagandistica strumentalità, orientata più alla campagna elettorale in atto che alla soluzione dei problemi delle persone. Chiediamo al Ministro – conclude  – di risolvere questo stato di gestione confusionale e di ripristinare da subito diritto e buon senso”.
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 302: POLITICA – Obama, la pace in medio oriente non può più basarsi su accordi con uno o due dittatori arabi

    Nel suo secondo discorso strategico sul medio oriente, dopo quello de Il Cairo nel settembre del 2009, il presidente Obama ha affermato che “Una pace duratura tra palestinesi ed israeliani è sinonimo di due Stati con i confini del 1967. I palestinesi devono avere uno stato sovrano”. L’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen ha giudicato positivamente il richiamo di Obama ai confini del 1967 quale base di partenza di un accordo di pace, mentre il rifiuto di Israele è puntualmente arrivato con il premier israeliano Benyamin Netanyahu che ha ribadito il no a un ritiro di Israele sui confini del 1967, cioè da tutti i territori della Cisgiordania, compresi i quartieri arabi di Gerusalemme est, occupati da Israele in quella data.
    C’è da ricordare che la risoluzione n. 181 dell’Onu del 1947, riconosce ad Israele il 56% del territorio storico della Palestina e che la proposta di Obama sui confini del 1967 riconosce ad Israele il 78% di tale territorio: l’assurdo è che siano proprio gli israeliani a non essere d’accordo. Fabio Scuto su La Repubblica di Sabato 21 Maggio parla di amarezza e rabbia di Netanyahu che “considera Obama ormai quasi un suo nemico” e che non c’è dubbio che ora in poi tenterà in ogni modo di impedire la sua rielezione facendo leva sulle grandi lobby ebraiche negli States.
    Obama, dopo aver ricevuto Netanyahu, si presenta proprio davanti alla platea di una delle principali lobby ebraiche americane (l’Aipac) e fa un discorso che nella sua parte iniziale (e maggiore) non fa altro che assicurare l’appoggio ad Israele: “avere Israele forte e sicuro rientra negli interessi strategici degli Stati Uniti, che sono impegnati a mantenere la superiorità della forza militare israeliana nella regione”. Attacca l’Iran ed assicura che impedirà che si impossessi di armi nucleari, attacca Hamas e chiede che riconosca Israele, dice persino che la riconciliazione tra Hamas e Al Fatah è preoccupante. Ma è chiaro che tutto è funzionale a ribadire la linea dell’amministrazione Usa espressa nei giorni precedenti: ” i legami tra gli Stati Uniti e Israele restano indistruttibili, anche se a volte si è in disaccordo, come accade tra amici”. La novità è che “le parti coinvolte negozieranno da sole un confine diverso da quello che esisteva il quattro giugno del 1967 tenendo in conto i cambiamenti avvenuti negli ultimi 44 anni”.
    Nella seconda parte del discorso Obama ha ribadito che Israele, proprio per i suoi interessi, deve capire che la situazione in medio oriente è cambiata, che c’è una nuova generazione di giovani arabi che stanno costruendo la democrazia nei loro paesi, lottano per i loro diritti e non accettano l’occupazione, che non è più possibile rimandare la pace con i palestinesi, che non è più possibile sostenere una pace basata su accordi con uno o due dittatori arabi.
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 298: YEMEN – Le donne di Piazza del Cambiamento.

    Il movimento per la libertà e la democrazia che sta coinvolgendo quasi tutti i paesi arabi ha già avuto grandi risultati con la caduta di Mubarak in Egitto e Ben Al in Tunisia. Nello Yemen il processo di cambiamento è in una fase avanzata.
    I giovani yemeniti stanno seguendo il modello egiziano: l’occupazione ad oltranza delle piazze principali delle città. Piazza del Cambiamento nella capitale Sana’a è occupata dal 3 febbraio scorso. Come è stato in Egitto e Tunisia (dove il processo di costruzione della democrazia sta andando sempre avanti con tutti i pericoli e le insidie che caratterizzano queste delicate fasi storiche), anche nello Yemen le donne stanno partecipando molto attivamente alle lotte. Le loro colleghe tunisine stanno ottenendo risultati importanti che, soltanto qualche mese fa, erano inimmaginabili: in base alla nuova legge elettorale non saranno ammesse liste che non abbiano almeno il 50% di candidate.
    Le donne presenti in piazza hanno avuto un ruolo fondamentale per mantenere il movimento per il cambiamento nello Yemen sulla linea della nonviolenza. I giovani continuano a non rispondere alle provocazioni e non cadono nella trappola della violenza alla quale è stato costretto il movimento in Libia.
    Consapevole della determinazione e del coraggio delle donne il contestato presidente Ali Saleh ha cercato nel suo discorso al popolo di venerdì scorso di neutralizzarle attaccandole su un punto molto delicato della tradizione yemenita: ha fatto appello alle forze dell’opposizione (che, come in Egitto, non rappresentano i giovani in piazza, ma che hanno partecipato in un secondo momento al movimento), di evitare la promiscuità tra donne e uomini nelle piazze.
    La riposta delle donne yemenite è stata forte ed immediata con cortei femminili in tutte le principali città, chiedendo di processare il presidente per calunnia al loro onore. “Ci vuole rinchiudere in casa come le galline”, “saremo noi donne a farlo cadere e a processarlo”, “noi siamo educate, oneste e coscienziose è lui che non è stato onesto nei confronti del popolo e dei suoi diritti”.
    Poche, invece, sono state le donne che hanno seguito il classico del calcio mondiale sullo schermo gigante allestito in piazza del Cambiamento a Sana’a. La partita di calcio tra Real Madrid e Barcellona, due tra le squadre più forti e spettacolari del mondo, dove giocano Messi e Ronaldo, è stata seguita dai giovani divisi nel tifo per una squadra o l’altra, ma, alla fine della partita, uniti nel chiedere la partenza del presidente Ali Saleh.
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 297: Concorrenza contro al Jazeera: è come desalinizzare il Mar Morto con un cucchiaio di zucchero

    Il mese scorso la segretaria di stato americana Hillary Clinton, ha dichiarato alla commissione senatoriale per gli affari esteri che i networks americani stanno perdendo nella competizione per l’informazione. “ Al-Jazeera, che vi piaccia o no è davvero efficiente, tanto è vero che, per quanto riguarda le news, l’audience di Al-Jazeera negli Stati Uniti sta aumentando perché trasmette vere news”. ”E’ probabile che non ci crediate, ma guardando Al-Jazeera ti rendi conto che stai ricevendo news 24 ore al giorno, invece di milioni di spot pubblicitari e litigi tra inconcludenti mezzibusti. Le nostre tv non forniscono informazione né a noi e né agli stranieri”, ha detto la Clinton.
    La settimana scorsa sul sito di Al Jazeera è apparso un articolo di Wadii Awawdeh, nel quale si parla dell’annuncio fatto dal presidente del Congresso dei dirigenti ebraici, Alexander Meskuvic , di creare una nuova rete Tv globale di notizie, come Al Jazeera, a supporto di Israele. Il miliardario ebreo di origine russa, il cui patrimonio, secondo fonti israeliane, ammonta a circa 3,7 miliardi di dollari, ha detto al Congresso ebraico tenutosi nei giorni scorsi negli Stati Uniti: “ogni giorno perdiamo la guerra riguardante l’immagine di Israele nell’opinione pubblica mondiale. Le ricerche delle organizzazioni ebraiche rivelano che i governi europei sono più solidali con Israele rispetto ai propri popoli. E’ necessaria una rete globale ebraica e per scongiurare il pericolo di una delegittimazione internazionale di Israele. La TV sarà lanciata in inglese, arabo, francese e spagnolo e sarà una rete privata e indipendente”.
    Ad esprimere parecchi dubbi sul successi dell’iniziativa è il direttore della Scuola di Giornalismo e Comunicazione presso l’Università di Haifa, Gabi Faymann, il quale parlando ad Al Jazeera ha ricordato il fallimento di progetti americani simili, quali la TV Al Horra e la radio Sawa. “E’ molto difficile competere con Al Jazeera – ha detto l’israeliano Faymann – e la concorrenza può venire solo dall’interno e attraverso reti arabe e non attraverso reti straniere al servizio di determinati interessi politici”.
    “Prima di creare un canale televisivo – afferma Faymann – è essenziale per Israele avere un chiaro messaggio politico. Il canale satellitare da solo non basta. Gli sforzi propagandistici di Israele nel mondo sono inutili, visto il suo cattivo comportamento politico, ed assomigliano al tentativo di desalinizzare le acque del Mare Morto con un cucchiaio di zucchero”.
    (Saleh Zaghloul)