Categoria: ESTERI

  • OLI 378 – ESTERI: Voci dalla stampa internazionale

    1) The Economist, 18 maggio 2013: Israele è uno Stato ebraico e gli ebrei hanno diritti superiori ed i Karaiti non sono ebrei. Se così sono visti gli ebrei karaiti, si può immaginare come sono visti cristiani e musulmani.
    Nell’articolo intitolato “Chi è l’ebreo?” si legge tra l’altro quanto segue: “Quando è che un Ebreo non è un Ebreo? Quando egli è un Karaita. O almeno così dice il capo del Rabbinato di Israele che, dopo 65 anni di relativa armonia con un’antica setta ebraica, riapre uno scisma vecchio e amaro. Negli ultimi mesi, i rabbini che lavorano per il ministero israeliano della religione hanno ritenuto invalidi i matrimoni Karaiti, multato i macellai per pretesa di essere kosher ed hanno chiesto agli uomini Karaiti che sposano donne ebree ortodosse di convertirsi, e a volte di dover subire Tavila o il battesimo. “Israele è uno Stato ebraico e gli ebrei hanno diritti superiori – dice il portavoce del capo del Rabbinato -, ed i Karaiti non sono ebrei”. “Siamo già ebrei – protesta Moshe Firrouz, un ingegnere informatico che è a capo del Consiglio dei Saggi dei Karaiti – il Rabbinato ci sta negando la nostra libertà religiosa.”
    http://www.economist.com/news/middle-east-and-africa/21578098-old-religious-argument-once-again-rears-its-angry-head-whos-jew

    2) The Financial Times, 16 maggio 2013: Il ruolo del Qatar nella crisi siriana, come comprare una “rivoluzione” affinché non diventi una rivoluzione. Nell’articolo di Roula Khalaf e Abigail Fielding Smith si legge, tra l’altro, quanto segue: “Qatar ha speso fino a 3 bilioni di dollari nel corso degli ultimi due anni, sostenendo la ribellione in Siria, una spesa di gran lunga superiore a qualsiasi altro governo”. “Il piccolo stato con un appetito pantagruelico è il più grande donatore per l’opposizione politica, fornendo generosi pacchetti ai disertori (si parla di circa 50.000 dollari l’anno per un disertore e la sua famiglia)”.
    http://www.ft.com/intl/cms/s/0/86e3f28e-be3a-11e2-bb35-00144feab7de.html#axzz2U0q6R0Up

    3) www.cdc.gov : Il 58% delle piscine pubbliche (negli USA) sono contaminate.
    In un comunicato stampa dei CDC ( Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie) in Atalanta (USA) si legge che: “Uno studio delle piscine pubbliche svolto durante la stagione di nuoto dell’estate scorsa, ha scoperto che le feci sono spesso introdotti nell’acqua delle piscine dai bagnanti.” “Lo studio ha trovato che il 58 per cento dei campioni dei filtri delle piscine esaminate sono risultati positivi per E. coli, batteri normalmente presenti nell’intestino umano e nelle feci.”
    http://www.cdc.gov/media/releases/2013/p0516-pool-contamination.html
    (Saleh Zaghloul – immagine di Guido Rosato)

  • OLI 377: ESTERI – Voci dalla stampa internazionale

    1) The New York Times, 8 maggio 2013: “Israele si muove per porre fine alla segregazione di genere negli spazi pubblici”
    In questo articolo Jodi Rudman scrive, tra l’altro, quanto segue: “Gerusalemme – Mercoledì, il procuratore generale di Israele ha consigliato tutti i ministri del governo di porre fine immediatamente alla segregazione di genere negli spazi pubblici, con l’emissione di linee guida che dovrebbero cambiare molti aspetti della vita quotidiana qui – dagli autobus, alle sepolture, dall’assistenza sanitaria alle onde radiofoniche.”
    La cosa strana è che il New York Times, come quasi la totalità dei media occidentali, non aveva informato dell’esistenza della segregazione di genere in Israele.
    http://www.nytimes.com/2013/05/09/world/middleeast/israel-moves-to-end-gender-segregation-in-public-spaces.html?ref=todayspaper&_r=2

    2) Il Bullettino dei Scienziati Atomici (www.sagepub.com): Inseguimenti nucleari: I cinque stati dotati di armi nucleari al di fuori del Trattato Nucleare di non proliferazione.
    In questo Notebook Nucleare, Timothy McDonnell, presenta la sua rassegna sui cinque stati che hanno sviluppato armi nucleari al di fuori del Trattato Nucleare di non proliferazione, India, Israele, Corea del Nord, Pakistan e Sud Africa. L’autore esplora le tappe fondamentali connesse con il programma di armi di ogni paese. Questi stati tendono ad avere arsenali nucleari più piccoli e tecnologicamente meno sofisticati, e hanno condotto un minor numero di test nucleari rispetto alla cinque potenze nucleari, Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti. Ma in alcuni casi, scrive l’autore, la linea che separa le differenze tecniche tra arsenali nucleari dei due gruppi sta iniziando a sfumare.
    http://bos.sagepub.com/content/69/1/62.full
    (Saleh Zaghloul – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 376 – ESTERI: voci dalla stampa internazionale

    1) The Guardian, 07 maggio 2013: Ciniche alleanze dell’occidente in Siria.
    Nell’articolo ” L’Occidente ed i suoi alleati fanno cinicamente sanguinare la Siria per indebolire Iran”, Seumas Milne, scrive, tra l’altro, quanto segue: “Ciò ha coinciso con il parlare della creazione di una zona cuscinetto israeliana all’interno della Siria, mentre i funzionari israeliani stanno sostenendo che il regime siriano ha usato armi chimiche. Dal momento che Obama ha dichiarato che l’uso di armi chimiche sarebbe stato una “linea rossa”, le accuse di usarle sono diventati un’arma fondamentale per tutti coloro che richiedono maggiore intervento occidentale, un’eco bizzarro della screditata orchestrazione dell’invasione dell’Iraq un decennio fa.”
    “Questo sforzo è venuta a galla questa settimana, quando l’investigatrice delle Nazioni Unite Carla Del Ponte ha riferito che ci sono “forti sospetti concreti” che i ribelli siriani stessi abbiano usato il gas nervino sarin.”. http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/may/07/west-cynically-bleed-syria-weaken-iran

    2) Slab News, 01 maggio 2013: Gli arabi discutono se lo striptease è una forma di lotta?
    Nell’articolo “Spogliarsi per la causa è stravaganza o è una forma di lotta?”, Farah Abi Murshid, scrive, tra l’altro, quanto segue: “Asaad Abu Khalil, noto per il suo sostegno alle cause delle donne, in risposta ad una domanda di “Slab News” sottolinea che egli: ” sta con il diritto delle persone di indossare o di non indossare ciò che vogliono, ma importare dall’occidente (da parte di una maggioranza o di una minoranza, come è in questo caso) le forme di protesta non mi piace fosse anche nel portare le fiaccole o protestare con certo tipo di danza. Le forme di protesta dovrebbero nascere dalla cultura e dall’umore locali delle persone. Il diritto a spogliarsi non ha nulla a che fare con la condizione della donna. Abukhalil si chiede: “Perché dovrebbe interessare tanto coprire o scoprire la donna? Il fenomeno è minoritario in occidente, ed è una stravaganza, perché lo importiamo? Quale è l’obiettivo? Sinceramente non so. Ma se una donna volesse spogliarsi questo non mi turba, come non mi turba il velo della donna quando la decisione in entrambi i casi fosse autonoma. Lo spogliarsi della donna in sé non porta alcun vantaggio o svantaggio alle lotte nel mondo arabo. Se tutte le donne palestinesi si spogliassero ad esempio che effetto avrebbe questo sull’occupazione israeliana?”.
    http://slabnews.com/article/19362
    (Saleh Zaghloul – immagine di Guido Rosato)

  • OLI 375: LAVORO – Benetton nella fabbrica crollata in Bangladesh

    Ennesima catastrofe in Bangladesh per il crollo della fabbrica Rana Plaza a 30 km da Dhaka, avvenuto il 24 aprile scorso, che ha causato la morte di oltre 380 operai, 2000 feriti e molti dispersi che lavoravano per i grandi marchi della moda internazionale. L’edificio Rana Plaza ospitava 5 fabbriche di abbigliamento dove migliaia di operai ogni giorno lavoravano stipati in condizioni disumane. Loro stessi avevano denunciato le preoccupanti crepe all’interno dell’edificio, ma gli era stato intimato dai datori di lavoro di restare nella fabbrica.
    La Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign), associazione internazionale nata per assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori e lavoratrici del tessile, sta intervenendo denunciando i grandi marchi implicati tra cui Primark, Mango e l’italiana Benetton, quest’ultima in un primo momento aveva dichiarato di non aver legami diretti con le fabbriche del Rana Plaza.
    L’agenzia AFP ha fotografato tra le macerie alcune t-shirt con etichetta “United Colors of Benetton”.

    Inoltre Abiti Puliti è in possesso di una copia di un ordine d’acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una della 5 fabbriche dell’edificio.
    La Campagna Abiti Puliti sta facendo pressione sull’azienda veneta chiedendo di assumersi le proprie responsabilità su queste tragiche morti sostenendo i familiari delle vittime. “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi” ha dichiarato Deborah Lucchetti – coordinatrice e referente italiana della Campagna Abiti Puliti – “e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”.
    Il crollo del Rana Plaza è una delle tante tragedie avvenute nel sud est asiatico: ricordiamo l’incendio della fabbrica pakistana Ali Enterprises dove lo scorso settembre sono arsi vivi 300 lavoratori per la mancanza di uscite di sicurezza e l’incendio di novembre della Tazreen Fashions in Bangladesh dove hanno perso la vita più di 100 operai che cucivano per C&A, Carrefour, Kik e Walmart, lavorando 12 ore al giorno per 30 dollari al mese.
    Il tessile è un settore redditizio e le aziende occidentali di abbigliamento sono più interessate a massimizzare i profitti che alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori. Il sud-est asiatico è il più grande esportatore di prodotti tessili al mondo, come possiamo notare dalle etichette che ogni giorno indossiamo.
    Anche i consumatori spesso sono responsabili e complici inconsapevoli di questo processo in cui, attraverso l’acquisto di abbigliamento, contribuiscono a mantenere in schiavitù i lavoratori che cuciono e confezionano i nostri abiti per pochi dollari al mese.
    Come consumatori consapevoli possiamo sostenere la campagna firmando la petizione online che chiede che i lavoratori in Bangladesh siano tutelati da norme di sicurezza più severe.
    (Maria Di Pietro – foto da internet) 

  • OLI 375: ESTERI – Voci dalla stampa internazionale

    Nella giornata della libertà di stampa – 3 maggio 2013 – diamo voce ad alcune notizie che non hanno trovato sufficiente spazio nei media italiani.
     1) The New York Times, 29 aprile 2013: In Nigeria, i militari bruciano vivi i civili. 
    Nell’articolo “Massacro in Nigeria suscita clamore sulle tattiche militari”, Adam Nossiter, scrive, tra l’altro, quanto segue: “La loro comunità ha pagato un prezzo molto alto: ben 200 civili, forse di più, sono stati uccisi durante la furia dei militari, secondo la testimonianza dei rifugiati, anziani operatori umanitari, i funzionari civili e le organizzazioni per i diritti umani.” “Molti morti, tanti morti”, ha detto Mohammed Muhammed, 40 anni, un tassista di Baga. “Persone che correvano tra le fiamme, l’ho visto. Se loro non correvano tra le fiamme, l’esercito gli sparava. “Quando le fiamme hanno avvolto le loro case, (“hanno usato petrolio”, ha detto a proposito dei soldati), sono fuggiti nella boscaglia circostante. “Se vieni fuori” dalle case in fiamme “ti sparavano” ha detto. “Per favore, signore, denunciali alla corte internazionale!” ha gridato.” Centinaia di abitanti sono fuggiti nella boscaglia, dove hanno vissuto per giorni in condizioni difficili, e stanno solo ora tornando di nuovo in città. “Le persone di mezza età, la gente che non poteva correre, la maggior parte di queste persone sono state bruciate”, ha detto Antonio Emmanuel, un commerciante di pesce.” I bambini piccoli, i loro genitori li hanno lasciati, sono stati bruciati”. http://www.nytimes.com/2013/04/30/world/africa/outcry-over-military-tactics-after-massacre-in-nigeria.html?_r=1&
    2) Reuters, 29 aprile 2013: I soldati israeliani continuano sgomberi e demolizioni di case dei palestinesi nei territori occupati.
    Scrive Noah Browing: “I soldati israeliani hanno sgomberato diverse centinaia di beduini da un villaggio della Cisgiordania occupata, lunedì, dopo che l’esercito ha dichiarato l’area zona di esercitazione militare con munizioni vere. Gli abitanti di Wadi al-Maleh, un villaggio per lo più abitato da pastori nella zona arida confinante con la Giordania, hanno quasi tutti lasciato le loro case dopo un coprifuoco serale e si sono diretti verso i villaggi vicini, ha detto a Reuters, Aref Daraghmeh, un leader locale. Lo spostamento è coinciso con diverse demolizioni di proprietà di arabi in Cisgiordania e Gerusalemme Est, che avvengono quando gli Stati Uniti stano cercando di rilanciare la pace in stallo. Nel mese di gennaio, gli abitanti hanno ricevuto un ordine di sgombero simile e se ne sono andati senza resistenza, per poi tornare dopo 48 ore. La maggior parte dei loro 90 edifici, tra cui stalle per gli animali, sono state demolite nel 2010, hanno detto locali gruppi per i diritti”. http://www.reuters.com/article/2013/04/29/us-israel-palestinians-eviction-idUSBRE93S0PQ20130429
    3) www.alternet.org , 28 aprile 2013: Perché tante religioni – in particolare il cattolicesimo – esaltano il dolore?” 
    Con un articolo intitolato “Il masochismo di Madre Teresa: è forse per tenere le persone passive che la religione esalta la sofferenza?”, Valerie Tarico, psicologa e scrittrice di Seattles, Washington, scrive, a proposito di Madre Teresa: “Con le sue stesse parole, la visione di Madre Teresa della sofferenza, non faceva alcuna distinzione tra sofferenze evitabili e inevitabili, e invece coltivava accettazione passiva di entrambi. Come diceva lei,” C’è qualcosa di bello nel vedere i poveri accettare il loro destino, di soffrirlo come la passione di Cristo. Il mondo guadagna molto dalla loro sofferenza””. http://www.alternet.org/belief/mother-theresas-masochism-does-religion-demand-suffering-keep-people-passive?paging=off
    (Saleh Zaghloul – foto da internet)

  • OLI 362: PALESTINA – This must be the place

    Così si chiama la campagna per l’abolizione della Firing zone 918 nelle colline a Sud di Hebron dove il Ministro della Difesa israeliana ha deciso di far demolire i 12 villaggi presenti e far evacuare i 1000 abitanti.
    La storia risale agli anni 70 quando Israele ha dichiarato quest’area zona militare chiusa per adibirla ad addestramenti militari.
    Demolire case e villaggi significa soprattutto demolire vite umane e per questo motivo che nonostante il freddo e il gelo, nella zona E1 ad est di Gerusalemme, oltre 250 palestinesi organizzati dai Comitati Popolari di resistenza nonviolenta palestinese insieme ad attivisti internazionali il 12 gennaio hanno fondato un nuovo villaggio formato da tende e strutture fornite dal governo palestinese e l’hanno chiamato Bab Al Shams che significa “Porta del Sole”.
    Gli attivisti hanno dichiarato: “Noi figli della Palestina, provenienti da tutte le parti della patria, dichiariamo la creazione del villaggio Porta del Sole, come scelta del popolo palestinese e senza il permesso dell’occupazione israeliana. Non abbiamo bisogno dell’autorizzazione di nessuno perché questa è la nostra terra ed è nostro diritto costruire e rimanere su di essa. Abbiamo deciso di stabilire il nostro villaggio su questa cosiddetta zona E1 in cui l’occupazione ha annunciato di voler costruire 4.000 unità abitative per gli israeliani, perché non rimarremo più in silenzio di fronte agli insediamenti e alla colonizzazione continua della nostra terra … Noi crediamo nell’azione e nella resistenza non violenta e siamo sicuri che il nostro villaggio si sostengano con forza fino a quando i legittimi proprietari faranno valere i propri diritti sulla loro terra”.

    I neo abitanti hanno invitato tutto il popolo palestinese, in tutte le sue parti sociali e politiche, ad aderire e partecipare agli eventi culturali e alle attività che si sarebbero dovute svolgere alla Porta del Sole i giorni successivi, ma purtroppo dopo due notti 600 soldati militari israeliani hanno sgomberato ed evacuato gli abitanti di Bab Al Shams anche se la Corte Suprema aveva dato indicazione di attendere almeno sei giorni prima di decidere. Sono stati arrestati 18 attivisti che hanno partecipato alla fondazione del villaggio.
    Il premier israeliano ha voluto evacuare immediatamente un villaggio occupato “illegalmente” anche se questo trattamento non viene effettuato per la continua occupazione di colonie e avamposti israeliani sul suolo palestinese anzi la maggiorparte delle volte considera legali queste occupazioni selvagge.
    Abdullah Abu Rahme, coordinatore dei comitati popolari di restistenza nonviolenta palestinese, sarà a Genova il 24 gennaio accompagnato da Luisa Morgantini (già vice presidente del parlamento europeo) per raccontare l’esperienza dei comitati e del perchè il popolo palestinese si rifiuta di morire in silenzio.
    L’incontro sarà il 24 gennaio alle h.21 presso la Cooperativa Sociale “Il Laboratorio di piazza Cernaia 3/6”.
    Per maggiori informazioni:
    Sito web: www.nofiringzone918.org / www.operazionecolomba.it/nofiringzone918
    Petizione online: http://www.change.org/en-GB/petitions/campaign-for-abolition-of-firing-zone-918-in-south-hebron-hills 
    (Maria Di Pietro)

  • OLI 360: TESTIMONIANZE – Perché vai in Palestina?

    Vittorio Arrigoni

    Perché vai in Palestina? Al corso di formazione per andare nei territori occupati mi chiedono cosa mi spinge a fare questo viaggio, cosa mi fa paura e cosa mi aspetto.
    L’ultima volta che sono stata in Palestina è stato quattro anni fa e da quel periodo sono successe molte cose in quella terra: l’occupazione militare si espande, gli arresti e incursioni sono maggiori, l’operazione piombo fuso che a Gaza mette in ginocchio una popolazione, l’assassinio di Vittorio che avevo conosciuto a Genova e che mi aveva dato il suo libro “Restiamo umani”, la collaborazione al documentario per la traduzione di “Le lacrime di Gaza” ecc.
    Ho voglia di tornare in Palestina e interagire con persone che vivono quotidianamente l’occupazione, ho voglia di entrare nelle loro storie e nel loro vissuto e mi piacerebbe tornare in Italia con delle interviste e del girato da mostrare. Se ho paura? Sì certo, sono consapevole di trovare un clima di tensione, ho paura di non saper gestire le eventuali ansie, ho paura di non sapermi muovere da sola in un paese in conflitto e ho l’ansia di subire un eventuale interrogatorio per entrare ed uscire dal paese da parte delle autorità israeliane. Cosa mi aspetto? Giornate cariche di input che mi permettono di mettermi in gioco ogni momento. Certo che le paure ci sono, ma le motivazioni per partire sono maggiori. Prenoto un biglietto aereo e dopo 15 giorni mi trovo sull’aereo per Tel Aviv: prima destinazione Ramallah nei territori occupati, poi si vedrà. Starò in Palestina circa un mese.
    Tutto quello che mi motivava e che mi angosciava prima della partenza si è avverato.
    A distanza di quattro mesi dal mio ritorno penso sia stato un viaggio forte sia emotivamente sia psicologicamente, un viaggio difficile ma intenso. Ho vissuto incontri emozionanti, ho ascoltato storie che mi sono entrate nel cuore, storie di una Palestina che subisce l’occupazione militare israeliana e che subisce violenze e assedi affinché gli interessi economici israeliani siano difesi e tutelati; ho raccolto storie di palestinesi che hanno ricordato momenti della prima o seconda intifada, ho incontrato i profughi che vivono nei campi sia in Palestina sia in Libano a Chabra e Chatila e che sono entrati per la prima volta nella loro terra. Storie di persone che fanno resistenza non violenta e soprattutto storie di palestinesi che hanno voglia di normalità.
    Cerco di documentare e di intervistare, però la maggior parte delle volte è bello stare a contatto con le persone senza una telecamera che separi l’intimità che si crea; sono tutti molto ospitali, ti invitano a casa e con la scusa di bere un tè insieme ognuno entra nella vita dell’altro. Non è sempre facile girare nei territori, i controlli da parte dei militari israeliani sono all’ordine del giorno, le lunghe attese ai check point mi innervosiscono; non riesco ad abituarmi al filo spinato disseminato ovunque, alle torrette di controllo e al muro che divide i due popoli, ai rumori assordanti di alcuni aerei militari che periodicamente sfrecciano nell’aria. Tutto questo è assurdo. Cercherò di raccontarvelo.
    (Maria Di Pietro – immagine da internet)

  • OLI 359: ESTERI – Benvenuta Palestina

    Con 138 voti a favore, 9 contro e 41 astenuti, l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato, il 29 novembre, una risoluzione che promuove la Palestina a Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite.

    “65 anni fa, in questo giorno, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione 181, che divideva la terra della Palestina storica in due stati, e ciò divenne il certificato di nascita di Israele”, ha affermato Abbas di fronte all’assemblea delle 193 nazioni, ricevendo applausi entusiasmanti.
    Il 29 novembre del 1947 l’Onu approvò il piano di spartizione della Palestina, con uno Stato di Israele e uno Stato palestinese che invece non è mai nato.
    Le pressioni e ricatti al presidente Mahmoud Abbas non sono mancati e fino all’ultimo si è temuto che l’Olp si tirasse indietro.
    I voti contrari sono stati quelli di Stati Uniti, Canada, Israele e pochi altri.
    I diplomatici israeliani hanno accusato l’Olp di seguire la strada della guerra e non della pace e hanno minacciato di non trasferire i proventi delle tasse all’Anp e di imporre nuove restrizioni sui movimenti. Si tratta di circa 92 milioni di euro che, anziché essere trasferire all’Anp, per conto di cui sono stati raccolti, rischiano di essere trasferiti da Israele alla società elettrica israeliana.

    Gli Usa hanno minacciato il ritiro totale degli aiuti economici, come già fatto in occasione del voto di ammissione della Palestina presso l’Unesco.
    Il governo italiano, dopo le dichiarazioni del ministro Terzi, durante l’operazione a Gaza “Pillar of Clouds”, di proporre che il voto non avesse luogo, ha cambiato idea forse spinto dal pronunciamento del si di altri paesi europei.
    L’aver ottenuto il nuovo status è un passo fondamentale nella lotta per la giustizia. Questo permetterà alla Palestina e ai suoi cittadini, ancora sotto shock per lo sterminio avvenuto a Gaza i giorni scorsi, di accedere alla Corte penale e alle altre sedi giuridiche internazionali dove potrebbe presentare un’istanza contro il governo israeliano.
    La reazione di Netanyahu è stata di superbia, ha annunciato la costruzione di 1600 unità abitative in aggiunta alle 3000 previste nel corridoio tra Tel Aviv e Gerusalemme: se ciò si verificasse, spezzerebbe in due parti la cisgiordania e renderebbe impossibile la creazione di uno Stato palestinese.
    Intanto ieri l’assemblea generale delle nazioni unite ha approvato una risoluzione con la quale chiede ad Israele l’ingresso di ispettori nei siti nucleari. Un’altra sorpresa negativa per Netanyahu che continua ad ignorare le richieste di alcuni paesi dell’Ue (Francia, Danimarca, Spagna e Svezia) che hanno convocato gli ambasciatori israeliani per comunicare la loro preoccupazione.
    Chissà se il portare “democrazia” nei territori occupati attraverso incursioni militari e con l’uso di armi non convenzionali porterà Israele ed essere sempre più isolato dal resto del mondo soprattutto ora che ha gli occhi puntati addosso.
    Di certo i palestinesi si sveglieranno anche oggi con i soldati israeliani sul loro territorio, i coloni aggrediranno i contadini e i pescatori, spianeranno terra e sradicheranno alberi, ma una scintilla è stata accesa.
    (Maria Di Pietro – Foto da internet)

  • OLI 358: INFORMAZIONE – Repubblica censura Odifreddi su Israele

    Il noto matematico Piergiorgio Odifreddi, ha scritto fra l’altro, sul suo blog personale sul sito del giornale la Repubblica: “In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe…Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi”.
    la Repubblica lo censura e subito cancella il suo post dal sito. Lui chiude il suo blog ed abbandona con tanti saluti alla favola della libertà dì espressione e di stampa. Libertà ipocritamente sbandierate durante la discussione sul film contro il profeta dei musulmani. Questo di Repubblica è soltanto un esempio sulla “non informazione da parte dei media sulle atrocità compiute da Israele a Gaza” denunciata da Noam Chomsky (ebreo americano) e altri esponenti del mondo culturale che hanno scritto un appello ( http://www.osservatorioiraq.it/speciale-gaza-il-jaccuse-di-chomsky-alla-stampa) ai media ed ai giornalisti nel quale si legge : “Se non fosse per i post su Facebook, non sapremmo nulla del livello di terrore patito ogni giorno dai civili palestinesi di Gaza. Questo contrasta in modo netto con la consapevolezza mondiale sui cittadini israeliani terrorizzati e sconvolti (..). Israele continua nei suoi crimini contro l’umanità con il tacito consenso e il pieno supporto finanziario, militare e morale dei nostri governi: Stati Uniti, Canada, Unione Europea. La mancanza di pubblica indignazione verso questi crimini è una diretta conseguenza del modo sistematico in cui i fatti sono negati e/o del modo sbilanciato in cui vengono dipinti. Vorremmo esprimere la nostra indignazione per la riprovevole modalità di copertura di questi atti da parte dei media. Facciamo appello ai giornalisti che, nel mondo, lavorano per le grandi testate mediatiche affinché rifiutino di essere strumenti di questa sistematica politica di dissimulazione. Facciamo appello ai cittadini perché si informino attraverso media indipendenti”.
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 357: ESTERI – I fiori di gelsomino sono ormai secchi

    C’è stata una rivoluzione e ora stanno tutti peggio di prima: insomma, la “solita storia”. A Biserta si può tastare il polso della situazione prendendo un taxi: una delle arterie principali della città era chiamata «Avenue 7 novembre» in “onore” dell’ascesa al potere del dittatore Ben Ali (che succedeva all’ottimo ma anziano Habib Bourguiba). Dopo la rivoluzione, peste au diable se la si poteva più chiamare in questo modo! Ogni riferimento al cleptocrate e dalla sua famiglia in fuga (con l’ultima tonnellata e mezza d’oro delle casse tunisine in valigia) era bandito con orgoglio. Dopo un breve sbandamento toponomastico, durante il quale si voleva dare alla strada il nome di un martire locale della Rivoluzione, ci si attestò sul più facile e omogeneo «Avenue 14janvier», la data d’inizio della Revolution du Jasmin. Ciò dava ampio margine ai francesi di fare un lapsus con il loro 14 juillet . Ma la delusione è grande: la Libertà non è quello che sembrava, la disoccupazione è in aumento e i ladri anche; i turisti, stanchi di sentire discussioni sui capelli delle donne e spaventati da pericoli immaginari, non vengono più. Il cibo aumenta orribilmente di prezzo. Un dittatore, ladro sì, ma capace di tenere più o meno in ordine il paese (che ora rigurgita di spazzatura), non era forse un miglior compromesso? Si chiedono in molti. E così, triste a dirsi, è di nuovo possibile chiedere al tassista di accompagnarci alla ‘7 novembre’ : non reagirà. Se ne può fare una simpatica occasione di discussione politica – “Ci porti per favore alla «7 novembre, o alla 14 gennaio»: a lei la scelta !” – oppure fare come faccio io quando mi sento poco ciarliera : “andiamo alla «Ex 7 novembre», s’il vous plait…”
    (Monica Profumo – foto dell’autrice)