Categoria: ESTERI

  • OLI 356: LIBRI – Grecia, omicidi al tempo della crisi

    La crisi finanziaria in Grecia non costituisce certo un argomento insolito, negli ultimi mesi quasi quotidianamente i mezzi di comunicazione ci hanno aggiornato su provvedimenti governativi, attività della troika, scioperi generali, disordini in Piazza Sintagma. Il panorama politico vede una profonda radicalizzazione delle posizioni: attualmente nei sondaggi il primo partito greco è la sinistra radicale di Syriza (23%), seguito dai conservatori di Nea Demokratia al 20%, al terzo gradino troviamo il partito filo-nazista Chrysì Avgì (Alba Dorata) con il 10,4%, mentre il partito socialista Pasok occupa solo il quarto posto, con un misero 7,5%.
    Solo visitando la Grecia o parlando con chi ci vive, ci si può però rendere conto delle reali difficoltà che sta affrontando il popolo di questo paese: moltissimi negozi con la scritta “VENDESI” o “AFFITTASI”, pensionati che devono conciliare una pensione di 700 euro con un affitto di 300, liberi professionisti che hanno visto “evaporare” i loro clienti, spaventati dal clima di incertezza (“non abbiamo mai la certezza che l’ultimo provvedimento che taglia stipendi e pensioni sia davvero l’ultimo”, è lo sfogo di un amico). Uno spaccato della situazione ci viene fornito nelle ultime fatiche letterarie di Petros Markaris, scrittore di gialli famoso in Grecia e largamente tradotto anche in Italia.
    I suoi ultimi romanzi, Prestiti scaduti e L’esattore, sono episodi di una trilogia dedicata alla crisi finanziaria greca.
    In Prestiti scaduti, il commissario di polizia Kostas Charitos indaga su una serie di assassinii nel mondo della finanza, facendo quotidianamente i conti con cortei, scioperi, traffico bloccato ma, tra le pieghe della trama poliziesca, si avverte chiara la presenza di una sorta di corrente sotterranea rabbiosa contro banchieri, profittatori, politici, rei di avere “corrotto” il popolo greco: Petros Markaris, contro lo scoramento e la rabbia, in un incontro che si svolse a Genova nello scorso dicembre (OLI 324), invocava una sorta di rinascita culturale, ma nei suoi romanzi prevale il pessimismo.
    (Ivo Ruello)

  • OLI 355: ESTERI – Elezioni americane, si vota per il meno peggio

    I sondaggi dicono che il voto americano è incerto, che sarà una lotta fino all’ultimo voto. Qualche settimana fa, quando Mitt Romney è stato beccato mentre offendeva la parte povera del suo popolo, Barack Obama era in netto vantaggio. Ma il primo dibattito televisivo è stato nettamente vinto da Romney. Successivamente, Obama ha recuperato, ma soltanto per arrivare alla situazione attuale di parità ed incertezza. Il primo dei tre dibattiti televisivi sarà ricordato come la causa determinante di un’eventuale sconfitta di Obama: il presidente sembrava svogliato, come se la sua passione politica fosse finita, che fosse rassegnato al potere dell’apparato politico che impedisce ad ogni occupante della Casa Bianca di compiere cambiamenti significativi alle politiche nazionali o esteri. Essendo un uomo di centro, come Bill Clinton, non ha nemmeno cercato di sfidare l’apparato di potere o di governare da progressista. David Maraniss, nel suo libro sulla vita e la formazione di Obama, racconta che quando era andato al colloquio per il suo primo lavoro come organizzatore di comunità, ha trovato il modo per chiedere al suo intervistatore se si trattava di una di quelle organizzazioni di estrema sinistra con la quale non voleva avere niente a che fare. Inoltre Obama si era presentato al dibattito impreparato, sottovalutando il suo avversario e sopravvalutando le sue capacità di improvvisazione. Obama è un grande oratore e aveva agito brillantemente contro MacCain nel 2008, ma il conservatore di destra Romney, diversamente da McCain, ha una personalità solare e ha alle spalle una brillante formazione universitaria: ha frequentato contemporaneamente la Harvard Law School e la Business School, classificandosi al top in entrambi. Romney è arrivato al dibattito molto preparato, come ha sempre fatto. Nel terzo dibattito sulla politica estera i due candidati erano sostanzialmente d’accordo su tutto, ed è proprio questo il vero problema. Glenn Greenwald sul The Guardian scrive, infatti, che il dibattito “ha mostrato una fondamentale verità sulla campagna delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti: la maggior parte delle questioni politiche più importanti sono completamente taciute“.
    Ciò è dovuto al fatto che “i due candidati in grande misura sono d’accordo su molte delle questioni politiche più urgenti del paese“.
    La maggior parte di ciò che conta nella vita politica americana non si trova nei dibattiti elettorali nazionali e le politiche penali ne sono un esempio chiaro. L’ America imprigiona i suoi cittadini in una misura di gran lunga superiore a qualsiasi altra nazione sulla terra, compresi i paesi con una popolazione molto più ampia.
    Come ha riportato il New York Times nel mese di aprile 2008: “Gli Stati Uniti hanno meno del 5% della popolazione mondiale, ma hanno quasi un quarto della popolazione carceraria del mondo”. I neri americani continuano ad esserne la prima vittima. Come è successo parecchie volte nel nostro paese negli ultimi vent’anni, anche i progressisti americani si trovano di fronte due candidati che meritano entrambi di perdere le elezioni, e siccome il sistema elettorale non lo permette, sono costretti (quelli che ci vanno) a turarsi il naso e votare per il meno peggio.
    (Saleh Zaghloul – Foto da internet)

  • OLI 353: ESTERI – Guerra tribale e di religione negli USA di Obama

    Secondo il New York Times di ieri, i capi di quindici Chiese cristiane americane hanno scritto una lettera al Congresso invitandolo a riconsiderare la concessione di aiuti a Israele accusato di violazioni dei diritti umani. La lettera ha indignato i capi religiosi ebrei americani che hanno minacciato di bloccare il dialogo ebraico cristiano e gli sforzi di lunga data per costruire relazioni interreligiose. I leader cristiani affermano che la loro intenzione era quella di mettere sotto i riflettori la situazione palestinese ed i negoziati di pace tra palestinesi ed israeliani, oggi in stallo. Tutta l’attenzione alla politica in Medio Oriente – dicono – sembra oggi incentrata sulla Siria, la primavera araba e la minaccia nucleare iraniana. “Abbiamo chiesto al Congresso di trattare Israele come farebbe con qualsiasi altro paese – ha detto il Rev. Gradye Parsons, l’alto funzionario della Chiesa Presbiteriana (USA) – per essere sicuri che il nostro aiuto militare stia andando ad un paese che abbraccia i nostri valori come gli americani e che non sia utilizzato per continuare a violare i diritti umani degli altri.” I leader ebrei hanno visto l’iniziativa dei capi delle chiese cristiane come un tradimento epocale ed hanno annunciato che non parteciperanno alla riunione di dialogo ebraico – cristiano da tempo prevista per il Lunedì prossimo. In una dichiarazione, i capi religiosi ebraici, hanno definito la lettera dei gruppi cristiani come “un passo troppo lungo” ed un segnale di “vizioso anti-sionismo”.
    (Saleh Zaghloul)

    Il link all’articolo del New York Times di ieri:
    http://www.nytimes.com/2012/10/21/us/church-appeal-on-israel-angers-jewish-groups.html?_r=0

    Il testo della lettera dei quindici capi religiosi cristiani americani
    http://globalministries.org/news/mee/pdfs/Military-aid-to-Israel-Oct-1-Final.pdf

  • OLI 352: ESTERI – Osservatori internazionali per garantire la raccolta delle olive palestinesi

    I coloni israeliani continuano la loro aggressione contro i contadini palestinesi e contro i loro uliveti. Nei giorni scorsi i coloni hanno sradicato centinaia di alberi, ne hanno incendiato altri ed hanno rubato i raccolti degli alberi vicini agli insediamenti ebraici. E’ quanto scrive Hanan Ashrawi del Comitato Esecutivo dell’OLP nella sua lettera, di domenica scorsa, alle missioni diplomatiche in Palestina nella quale chiede di inviare osservatori internazionali nei territori palestinesi occupati per osservare i campi di ulivi, e porre fine al terrorismo organizzato dei coloni israeliani nei confronti dei contadini palestinesi, delle loro coltivazioni e proprietà.
    “Il popolo palestinese – ha scritto Ashrawi – in concomitanza con la stagione di raccolta delle olive, durante la quale crescono gli attacchi violenti contro i nostri villaggi ed i nostri campi, vi chiede di inviare osservatori in tutte le aree di raccolta a rischio, per proteggere la nostra gente e documentare le violazioni dei coloni e dell’esercito israeliano. Siamo sicuri che la vostra presenza impedirà altri atti di violenza”.
    Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, gli attacchi contro i palestinesi con conseguenti lesioni a persone o danni alle proprietà sono aumentati del 32 per cento nel 2011. L’anno scorso – ha scritto Ashrawi – i coloni israeliani hanno distrutto 7.500 alberi di ulivo, e nel solo mese scorso hanno sradicato 300 alberi nei villaggi di Turmus’ayya e al-Mughir, hanno tagliato 120 alberi nella città di Nablus, hanno distrutto 100 piantine di ulivo nel villaggio di al-Khadr, hanno sradicato 40 alberi a Ras Karkar ed hanno aggredito tre contadini finiti in ospedale e ferito un altro.
    Il tutto avviene con la complicità delle forze di occupazione israeliane con i coloni. “L’esercito d’occupazione israeliana – ha detto Ashrawi – aiuta e sostiene i coloni aggressori, invece di difendere palestinesi vittime del terrorismo.” Ashrawi ha chiesto alla comunità internazionale di costringere Israele, la potenza occupante, a rispettare la Quarta Convenzione di Ginevra, ed ha detto: “visto il sostegno del governo israeliano ai coloni, e il suo rifiuto di consentire all’Autorità nazionale palestinese di proteggere il nostro popolo inerme, in particolare nei territori occupati denominati (B, C), la nostra gente vi chiede di prendere urgenti misure internazionali per garantirne la sicurezza”.
    (Saleh Zaghloul – immagine da internet)

  • OLI 349: ESTERI – Egitto, per la prima volta un fratello musulmano è eletto presidente

    Il secondo turno delle elezioni presidenziali egiziane è stato vinto da Muhammad Mursi, candidato dei Fratelli Musulmani, il quale ha preso circa 13 milioni dei voti (51,73 %) contro i circa 12 milioni (48,27%) del suo rivale Ahmad Shafiq, candidato del vecchio regime e del consiglio militare. Al secondo turno Mursi si è presentato come il candidato di tutte le forze della rivoluzione del 25 gennaio contro il ritorno del vecchio regime rappresentato da Shafiq, ultimo primo ministro di Mubarak. Questa linea gli ha permesso di raddoppiare i voti dei fratelli musulmani ottenuti al primo turno e di vincere le elezioni. Al primo turno, infatti, Mursi aveva ottenuto 5.764.952 voti e Shafiq 5.505.327. Nessuno dei rappresenti del movimento del 25 gennaio e del popolo che ha dato inizio alle manifestazioni contro Mubarak è riuscito a superare il primo turno. Il candidato dei laici democratici egiziani Hamadin Sabahi era arrivato terzo con 4.820.273 voti, senza disporre dei mezzi economici e mediatici di cui disponevano Mursi (sostenuto dal Qatar e dalla TV del suo emiro al Jazeera e Shafiq (sostenuto dall’Arabia Saudita e dal 90 per cento dei media arabi finanziati da questo paese). I Fratelli Musulmani erano un partito “illegale” ai tempi di Mubarak, ma la loro opposizione non rappresentava un problema, riuscivano a convivere col regime. La loro opposizione era invece fortissima durante il governo laico socialista ed anti imperialista di Nasser. Negli ambienti della sinistra araba si dice che la loro politica sia stata storicamente coordinata con gli inglesi prima e con gli USA dopo e che non abbiano mai fatto vera opposizione ai regimi dittatoriali filo americani. Ora festeggiano la prima volta che un loro esponente viene eletto presidente di un paese arabo, del più importante paese arabo. Ad essere precisi gli islamici avevano vinto le elezioni in Algeria, agli inizi degli anni novanta, ma i militari algerini hanno impedito loro di governare facendo precipitare il paese nella violenza sanguinaria durata per molti anni.
    Per i laici e i democratici egiziani, ha vinto il meno peggio, ha perso il vecchio regime di Mubarak e sono maggiori le possibilità di continuare il processo di cambiamento. Non sarà facile, le difficoltà maggiori provengono dal pericolo di militarizzazione più che da quello dell’islamizzazione del paese. Il futuro del paese sarà sempre più determinato dalla volontà del popolo di ottenere democrazia, giustizia sociale e un ruolo arabo dell’Egitto, a sostegno ad esempio dei palestinesi, fuori dalla politica filo americana e filo israeliana di Mubarak. Il neo presidente ed i suoi collaboratori – consapevoli della forza limitata dei Fratelli Musulmani nel paese (circa il 25% dei voti al primo turno) e degli interessi forti dei militari al potere dopo Mubarak -, non sta facendo altro che mandare messaggi rassicuranti a tutti: “sarò il presidente di tutti gli egiziani, lavorerò per assicurare democrazia e giustizia sociale, apprezzo esercito, polizia e giudici, rispetterò l’autonomia dei giudici, condividerò il governo con le altre forze della rivoluzione egiziana, la rivoluzione continua”. Vedremo.
    (Saleh Zaghloul – immagine da internet)

  • OLI 332: ESTERI – Siria, Adonis contro il regime e contro l’opposizione fondamentalista

    La Siria è terra di poeti, ha regalato agli arabi e a chi vuole nel mondo intero almeno tre dei più importanti poeti arabi contemporanei: uno è senz’altro Adonis, 82 anni, più volte candidato al premio Nobel, vincitore dell’ultima edizione (2011) del prestigioso premio Goethe; nel nostro paese ha ricevuto il premio Nonino per la poesia (1999) ed il premio Lerici Pea per l’Opera Poetica (2000).
    Il grande poeta siriano è da sempre impegnato per la libertà, la democrazia e soprattutto per uno sviluppo laico del mondo arabo. Dopo un anno e mezzo nelle carceri siriane nel 1956 per attività di opposizione, va in esilio prima in Libano fino al 1982 e poi in Europa.
    Intervistato l’11 febbraio scorso dal giornale austriaco Profil, Adonis dice che egli è contro il regime siriano ma è anche contro l’opposizione composta da una stragrande maggioranza di fondamentalisti islamici; dice di non volere cambiare una dittatura militare con una peggiore dittatura religiosa e dichiara la propria contrarietà ad interventi esterni in particolare ad intervento militare che avrà gli effetti distruttivi avuti in Iraq. “Non capisco come è possibile chiedere agli stessi che hanno colonizzato la Siria di liberare il popolo siriano”. Egli non crede che l’occidente sia interessato alla liberazione dei popoli arabi: “fosse vero l’Occidente sarebbe intervenuto prima di tutto per liberare il popolo palestinese che soffre da 50 anni una sistematica oppressione e distruzione”. Adonis racconta di essere stato entusiasta all’inizio delle rivolte arabe in Tunisia e Egitto, di aver scritto qualche poesia ispirato da esse, ma dopo la vittoria dei movimenti islamici nelle elezioni egli ha cambiato idea: “non basta la democrazia delle elezioni, anche Hitler è arrivato al potere attraverso le elezioni”. Per Adonis le rivolte arabe sono più vicine al medioevo che all’era moderna: “non ci sono possibilità di un vero cambiamento senza la laicità, senza separare religione e stato e senza la totale parità dei diritti per le donne. La dittatura militare controlla la mente mentre quella religiosa controlla la mente, il corpo e la vita quotidiana; è una dittatura totalitaria”. Le dittature devono andarsene – dice Adonis – e bisogna continuare la lotta contro di esse ma liberi di ogni ideologia religiosa. “Dobbiamo chiederci quale regime verrà al posto di questo e non bisogna dimenticare che nella regione c’è già un paese che ha la religione come base ed è Israele, e non abbiamo bisogno di altri regimi religiosi”. Per Adonis esistono i musulmani moderati ma non i movimenti islamici moderati. “Il movimento dei fratelli musulmani è un movimento fascista ed è oggi sostenuto da Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar e Israele con l’obbiettivo distruggere l’asse composto da Iran, Siria e Hezbollah. Se davvero l’occidente vuole un Islam moderato dovrebbe iniziare ad instaurarlo in Arabia Saudita”. Alla domanda se pensa dunque che il mondo arabo abbia perso la battaglia per la libertà e la democrazia Adonis risponde di si.
    I laici democratici nel mondo arabo sono oggi divisi in una parte che condivide il pessimismo di Adonis ed un’altra che continua a sperare: da più di un anno i cittadini arabi continuano a riempire le piazze e le strade, anche in Tunisia ed Egitto e finché la lotta continua nelle piazze c’è speranza.
    (Saleh Zaghloul)


  • OLI 320: ESTERI – Gli Stati Uniti e l’Islam riformista

    In un articolo sul giornale libanese Al-Akhbar in lingua inglese, Asàd AbuKhalil, professore di scienze politiche all’Università americana di California, racconta la storia della riforma progressista dell’Islam tentata in Egitto da Nasser negli anni 1950 e 1960: C’era una guerra civile all’interno dell’Islam, l’Arabia Saudita e le altre dittature filo-americane del Medio Oriente sostenevano un Islam reazionario e conservatore definito dagli standard del wahabismo, uno dei movimenti religiosi più intolleranti ed esclusivisti nell’Islam. Mentre, Nasser, sosteneva e promuoveva un Islam molto diverso. Era un Islam che sosteneva l’uguaglianza di genere, promuoveva le donne e combatteva l’oscurantismo. Nasser ha usato l’istituzione religiosa più importante d’Egitto, al-Azhar, attraverso il suo alleato, il capo religioso Mahmud Shaltut, per una effettuare una riforma illuminata dell’Islam.
    Sotto Nasser, al-Azhar ha aperto le sue porte alle donne, ed è finito il takfir (dichiarazione di infedeltà) dei musulmani sciiti. “Nasser – scrive il professore americano d’origine libanese – aveva emarginato e addirittura espulso quei religiosi fanatici dei Fratelli Musulmani che hanno (successivamente) ispirato Al-Qaeda ed altri gruppi del genere”. E tutti i religiosi reazionari sono fuggiti dall’Egitto e sono stati accolti dalle monarchie del Golfo che li ha assunti come educatori, consulenti, sacerdoti e personaggi televisivi. Ma Nasser non ha avuto contro solo l’Arabia Saudita e la sua ricchezza petrolifera: ha dovuto anche affrontare i governi statunitense e occidentali. “Gli Stati Uniti, per sostenere Israele e perché erano più preoccupati del comunismo e delle sinistre, hanno sostenuto la versione reazionaria dell’Islam e le organizzazioni musulmane create dall’Arabia Saudita. Gli Stati Uniti hanno combattuto ferocemente contro l’Islam progressista di Nasser e stavano nello stesso campo con l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo che hanno promosso i valori e le dottrine conservatrici”.
    Questa guerra andò avanti per anni, nella quale Nasser ha segnato grandi colpi: alcune nuove e vecchie repubbliche (Libia, Siria e Iraq) sono state influenzate da Nasser. Persino il leader dei Fratelli musulmani siriani Mustafa Sibai era sulla difensiva ed ha scritto un libro intitolato “Il socialismo dell’Islam”. “I Fratelli musulmani – scrive AbuKhalil – sono stati creati per assomigliare a dei difensori di un ordine di morte. Nasser (con precisione) ha associato quell’Islam al suo sponsor: l’Arabia Saudita. Era l’Islam che serve il colonialismo, egli sosteneva”.
    Nasser morì nel 1970 e il suo successore Sadat (guardando a Washington), ha liberato dal carcere tutti gli estremisti islamici e li ha scatenati nei campus universitari egiziani. Sadat (e i suoi alleati sauditi), volevano che gli islamisti contrastassero la sinistra ed i nazionalisti arabi. E’ stato inferto un duro colpo alla laicità: il suo grande e più credibile sponsor, Nasser, era morto. “Dopo il 1970 – scrive AbuKhalil -, siamo entrati nell’era saudita cioè l’era della prevalenza dell’Islam reazionario. Questo Islam ha ricevuto un’ulteriore spinta negli anni ottanta, quando è stato sostenuto dai miliardi e dalle armi degli Stati Uniti in Afghanistan. Il resto è storia distorta.”
    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 313: Il presidente dell’OLP chiede all’ONU il riconoscimento dello Stato di Palestina

    Il presidente palestinese Abu Mazen all’ONU: ” I nostri sforzi non hanno lo scopo di isolare o delegittimare Israele. (…) Perché crediamo nella pace, per la nostra convinzione nella legittimità internazionale, perché abbiamo avuto il coraggio di prendere decisioni difficili per il nostro popolo, e in assenza di una giustizia assoluta, abbiamo deciso di cercare la giustizia relativa, quella possibile, e di correggere una parte delle gravi ingiustizie storiche commesse contro il nostro popolo. Così, abbiamo deciso di costruire lo Stato di Palestina in solo il 22% del territorio della Palestina storica, sui territori palestinesi occupati da Israele nel 1967 (…). Una tale risoluzione, si presume, dovrebbe includere una riaffermazione che qualsiasi accordo finale deve includere il riconoscimento di Israele e garantire la sua sicurezza, che i due stati condivideranno Gerusalemme come capitale, e che il problema dei rifugiati palestinesi deve essere risolto. I palestinesi non useranno la loro sovranità conquistata per presentare azioni giudiziarie contro gli israeliani presso la Corte di giustizia internazionale”.
    Bill Clinton ex presidente degli Stati Uniti parlando giovedì scorso ai margini di una conferenza a New York : “La colpa del fallimento del processo di pace con i palestinesi è del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, non è interessato al processo di pace” http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4126490,00.html .
    Ali Rashid, italo palestinese, ex deputato italiano (indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista): “Molti palestinesi considerano tardivo il passo coraggioso deciso da Abu Mazen di rivolgersi alle Nazioni Unite (…), l’assemblea generale dell’ONU ha già riconosciuto lo stato palestinese dichiarato da Arafat, nel 1988, con 104 voti favorevoli, due contrari e 36 astenuti. Anche secondo molti israeliani la cosa renderebbe Israele più sicura, favorirebbe la sua normalizzazione nella regione e rassicurerebbe la sua popolazione (..) Ritornerebbe così la presenza ebraica come elemento culturalmente originale e fondamentale nella storia della regione. Comunque più passa il tempo, più il costo del sostegno incondizionato alle politiche israeliane diventerà intollerabile a tutti” http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20110922/manip2pg/01/manip2pz/310332/.
    Daniel Cohen Bendit, presente alla manifestazione di centinaia di intellettuali ed accademici israeliani a Tel Aviv, giovedì scorso, a sostegno del riconoscimento dello Stato di Palestina, ha invitato i leader della protesta sociale in Israele a sostenere la causa palestinese: “Ho parlato con i leader della protesta sociale che sono diffidenti a legare le due lotte. Ma non ci può essere alcuna soluzione ai problemi sociali di Israele senza la fine dell’occupazione dei territori palestinesi” http://www.haaretz.com/news/national/israeli-intellectuals-back-palestinian-statehood-in-tel-aviv-rally-1.386215.
    Wassim Dahmash, italo palestinese, professore all’Università di Cagliari : “Il riconoscimento di uno Stato palestinese, sotto il profilo legale, è necessario ad Israele perché abbassa il tetto delle rivendicazioni palestinesi. A tutt’oggi, secondo il diritto internazionale, i profughi palestinesi hanno diritto a ritornare alle loro terre (risoluzione 194). Il riconoscimento di un “futuro” Stato palestinese limiterebbe questo diritto ai confini (virtuali) del costruendo Stato (virtuale). La proclamazione di uno Stato palestinese su una parte del territorio della Palestina mandataria renderebbe automaticamente legale l’esistenza sul rimanente territorio dello Stato coloniale tuttora illegale secondo la carta delle Nazioni Unite …” http://www.amiciziaitalo-palestinese.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2840:uno-stato-palestinese&catid=23:interventi&Itemid=43.
    Il professore israeliano Galia Golan ha accusato la leadership israeliana del mancato accordo di pace con l’Autorità palestinese: “Avremmo potuto raggiunto un accordo dal 1988 ed è interamente colpa nostra che non l’abbiamo fatto. Nel 1988, l‘OLP ha accettato un compromesso storico. Hanno dato il 78% del territorio al fine di ottenere la pace e porre fine all’occupazione. Invece abbiamo continuato a chiedere loro altri cedimenti, ma non hanno più nulla da dare. Siamo stati noi i negazionisti in tutti questi anni. Abbas è il leader più moderato che si possa desiderare ed ha fatto bene a rivolgersi all’ONU. Noi con la nostra stupidità non andremo all’ONU insieme a lui, quando lo Stato che egli chiede ci dà un confine a est e il riconoscimento di Gerusalemme Ovest, cose che non abbiamo ancora ottenuto”, http://www.haaretz.com/news/national/israeli-intellectuals-back-palestinian-statehood-in-tel-aviv-rally-1.386215

    (Saleh Zaghloul)

  • OLI 303: CURIOSITA’ – La foto più grande del mondo

    La foto navigabile di Sevilla: 111 Gigapixel.

    http://www.sevilla111.com è il sito della foto più grande del mondo, circa 111 miliardi di pixel, ottenuta con un collage di migliaia di foto scattate mediante l’uso di una postazione robotizzata. Il sito propone anche la storia di come sia nata l’iniziativa, la scelta del posto per installare la macchina, la tecnologia usata per la riduzione degli errori. Non occorrono molte parole ancora, seguendo il link ci si troverà immersi nella giornata tranquilla dei pescatori, di un cane che segue il proprio compagno in bicicletta o di un monumento che svetta a decine di metri d’altezza da sempre, sulla cima di un campanile. Que viva Sevilla!
    (Siamo in attesa della seconda foto più grande del mondo: Milano, resa nuovamente vivibile da Pisapia)
    (Stefano De Pietro)