Categoria: Sanità

  • OLI 426: SANITA’ – I precari cronici e le promesse della politica

    20 maggio 2015. E’ alla manifestazione per lo sciopero della Cgil contro il Jobs Act che tra striscioni istituzionali si distingue, come un lenzuolo al sole, quello dei precari del Gaslini, iscritti al Nidil e temporanei cronici. In uno degli ospedali pediatrici più famosi d’Italia sono “centoventi ricercatori – tra biologi, biotecnologi, tecnici di laboratorio, data manager” – come spiega Patrizia De Marco, la loro portavoce – con un’anzianità da precariato di dieci, quindici anni con picchi che possono arrivare ai trentatre”. In tanti anni pochissimi concorsi, assenza di finanziamenti e volontà politica hanno generato questo vulnus al quale però il Gaslini attinge per vantare, anche all’estero, i progetti di ricerca del proprio istituto. Loro chiedono di essere stabilizzati, molti hanno fatto dei concorsi, ed hanno tutte le carte in regola. Ma fino ad oggi hanno ricevuto solo promesse, De Marco, delegata Nidil (Nuove Identità di Lavoro), parla “dell’assessore Montaldo, del presidente Burlando che hanno promesso un impegno nella stabilizzazione” delle loro figure professionali, ma in dieci anni di giunta “non hanno fatto assolutamente nulla” se non concedere delle deroghe senza sostenerle economicamente. E chi è entrato è stato grazie ai finanziamenti che l’istituto ha ottenuto autonomamente.
    Al Gaslini arrivano anche bambini dal Centro e dal Sud e bambini stranieri per curare patologie uniche, De Marco si occupa della ricerca sulla spina bifida, ma i contratti possono essere rinnovati in base “alla disponibilità economica” dei capi servizio, e ai fondi disponibili.
    C’è la precaria del San Martino-Ist da 25 anni che per tre mesi quest’anno è rimasta a casa, senza contratto. In tutto sono una ottantina, ma il numero è fluttuante perché c’è chi va e chi viene. Normalmente sono sei, otto mesi di contratto, al San Martino ottenere un contratto di un anno è un lusso.
    In corteo la parola finanziamenti assume contorni più definiti con loro che ti accompagnano tra le tipologie di finanziamenti per la ricerca: quelli finalizzati, del Ministero della Salute – quotati in base alla produttività scientifica dell’istituto, tradotto numero di pubblicazioni su riviste scientifiche di alto livello; ma spesso quei soldi vengono dirottati per pagare le persone strutturate. E i fondi finanziati da fondazioni private – San Paolo, associazioni per la ricerca su patologie specifiche, Airc – finanziamenti che quando finiscono vedono i ricercatori bloccati nel loro lavoro. Inoltre il cda del Gaslini, nel 2011, ha deliberato che i ricercatori non possono avere contratti per più di cinque anni, questo nell’ottica di favorirne la regolarizzazione. Quindi a giugno 2016, 49 persone rischiano di non poter più lavorare al Gaslini perché nel frattempo nessuna assunzione è stata prodotta e i cinque anni saranno finiti. Anche lo screening neonatale al Gaslini è affidato a precari: chi si occupa della diagnosi precoce di alcune malattie “dal 1 settembre 2001” ha subito ogni forma di contratto esistente: dalle borse di studio, ai contratti co.co.co alle prestazioni occasionali nonostante il lavoro svolto fosse sempre lo stesso. Il contratto scadrà tra un anno ed è coordinatrice, precaria, di laboratorio. Quello della collega ha un rinnovo di otto mesi. Fanno decine di migliaia di esami all’anno.
    Il voto per le Regionali? Non sanno. Ma il manifesto con il quale Burlando garantiva la ricerca in Liguria quello no, non lo hanno dimenticato. Lei si chiamava Paola.
    (Giovanna Profumo – immagini dell’autrice e da internet)

  • OLI 424: SANITA’ – Teresa e la cannabis

    La sposa scende i gradoni di pietra, alle sue spalle si staglia il campanile grigio, la facciata d’ardesia a righe e Teresa, la mamma della sposa, la guarda commossa. E’ un sabato di giugno, i turisti ormai sciamano via, ancora una foto di quelle rocce a picco sul mare con la chiesina che pare fatta a carboncino, i matrimoni in quell’angolo di Liguria sono consueti, al più si spia se la bella ha gli occhi a mandorla, ché vengono fin qua per convolare a nozze.
    Le giovani invitate scendono scalze fino al vicolo, i tacchi son dolori in quella discesa ma lei no, Teresa resiste, i suoi non sono tacchi a spillo, procede spedita nel suo vestito rosso verso l’imbarcadero e la vedi ondeggiare un po’, sarà il selciato pensi. Invece no. Il suo passo pare un tantino strascicato, morbida, una bruna bellezza mediterranea, dagli occhi grandi, che ti volti a guardare.
    Sono passati pochissimi anni, ora Teresa ti guarda ancora con i suoi begli occhi scuri spalancati, vigili, ma non può parlare : una specie di parkinsonismo le sta divorando i movimenti, il respiro, la voce, a stento si muovono le labbra, forse vorrebbe sorridere.
    Suo marito ha studiato, ha letto tutto quello che poteva leggere, ha scoperto che la cannabis rilassa i muscoli, il male più grande per Teresa, le contratture le procurano dolori infiniti, le rattrappiscono le mani, le gambe. Aveva chiesto come sperimentazione domiciliare che le si prescrivesse la cannabis e dopo mesi di attesa finalmente ne era stata concessa una modesta quantità per fare decotti: pochissima dalla Asl della città di residenza, mentre quella della provincia accanto ne prescrive sei volte tanto.
    Dunque una discrezionalità che varia da ospedale a ospedale, troppa prudenza o altro che è meglio non dire, di fatto un trattamento sanitario diverso nella stessa Regione.
    Non esiste dunque un protocollo a livello nazionale o strapotere del Titolo Quinto?
    Purtroppo arriva una polmonite e il ricovero in ospedale: il coma farmacologico e la terapia di cannabis interrotta. I medici sono chiari, già l’hanno aiutata a respirare, l’hanno inserita nella terapia del dolore, morfina e stordimento, prassi consolidata, al diavolo dignità e migliore qualità di vita del malato.
    Niente cannabis per Teresa, non c’è nessun protocollo che la preveda, la si può dare soltanto ai malati di Sla e sclerosi multipla.
    Il marito di Teresa insiste, insiste almeno per alleviarle i dolori, infine il Comitato etico non si pronuncia, ma c’è un altro iter e si concede il decotto, tanto per provare e lei si sveglia dal coma, è tornata a guardarti, con quegli occhi belli che a tratti si riempiono di lacrime, vorrebbe parlare forse. Il compagno della vita ogni giorno è lì ad accarezzarle le mani, il viso, le parla, vorrebbe almeno lenirle il dolore delle contratture: con l’incoraggiamento di un dirigente illuminato i medici hanno acconsentito finalmente alla “sperimentazione ufficiosa” dopo mille giri burocratici, una dose ben più forte, con un’altra formula, ma la medicina però non è disponibile. Così è andato in Svizzera a comprare lo Sativex, con la prescrizione di un medico svizzero, uno spray a base di cannabis a dosi elevate.
    Intanto il tempo è passato e la malattia è progredita, pur se Teresa ha di nuovo iniziato lentamente a muovere le mani, ad aprire meglio la bocca, fra lo scetticismo stupefatto dei medici e dopo tanta immobilità chissà.
    Il suo amorevole compagno vorrebbe portarsi a casa Teresa, le vuole così bene, si conoscono dai banchi di scuola, spera di riuscire a farla parlare di nuovo, farla muovere, rimetterla seduta, ha buttato in fondo al cuore che cosa voleva ricordargli con le sue lacrime Teresa, che glielo aveva detto quando aveva scoperto la sua malattia senza ritorno e ancora riusciva a parlare: “Portami in Svizzera”.
    Aveva ragione il cuore?
    (Bianca Vergati – foto da internet)

  • OLI 424: SINISTRA – In assenza del Messia si parla di maria

    Dove eravamo rimasti?
    Che per le Regionali della Liguria don Farinella aveva sognato di unire M5S e sinistra-sinistra in una grande coalizione senza riuscirci, e che poi era stato proposto e votato Giorgio Pagano per alleare almeno Rete a Sinistra e Altra Liguria (due componenti nelle quali erano confluiti SEL, Rifondazione, verdi, civatiani, lista Doria e tutti quelli che nel Pd si oppongono a Renzi) e che era quasi fatta, ma poi la pubblicazione di un carteggio mail ha dato la stura ad una coalizione, sostenuta da Cofferati, sfavorevole a Pagano, così è partita la candidatura di Pastorino (anche lui sindaco ma di Bogliasco, nonché parlamentare). Allora Giorgio Pagano ha rinunciato a candidarsi per non portare su di sé l’onta di aver scisso la sinistra, però Altra Liguria non ha appoggiato Pastorino ed ha deciso di presentarsi da sola insieme ai Verdi.
    Situazioni che nemmeno gli sceneggiatori di House of Cards arriverebbero a immaginare…
    Così da anime della sinistra i potenziali elettori si sono trasformati in anime in pena.
    Quello che rimane di questa catastrofe, militanti sopravvissuti, era in Largo Pertini sabato mattina per la presentazione del candidato Antonio Bruno della lista l’Altra Liguria e ai giardini Luzzati domenica ad un incontro-aperitivo a favore della legalizzazione della cannabis, organizzato dai sostenitori di Pastorino.
    Alla prima iniziativa è venuto a buttare uno sguardo anche Pierfranco Pellizzetti – analista raffinato e crudele del contesto politico regionale – che con un certo compiacimento non ha fatto che ribadire, interpellato, quello che già aveva scritto su Pagano, Pastorino e compagni, alimentando l’impressione che esista davvero la schiera dei promotori “del tanto peggio, tanto meglio”.
    Alla seconda iniziativa, con ragionevole ritardo, si è presentato Pastorino, sulla scia di una tradizione consolidata per la quale i candidati sono come le spose. Per fortuna i suoi giovani supporters avevano preparato seriamente l’incontro sviluppando, anche in assenza del candidato, il tema cannabis nelle sue molteplici sfaccettature: utilizzo a fini terapeutici, personale, imprenditoriale e come rilancio delle aree agricole abbandonate dell’entroterra. Mentre il Consiglio comunale genovese ha approvato una mozione favorevole

    alla legalizzazione. Accrescendo in chi scrive la convinzione che il milione di metri quadri vista mare, con tanto di moli, afferenti all’Ilva di Cornigliano potrebbero essere convertiti alla coltivazione e lavorazione della pianta, se dovesse venir meno la vocazione siderurgica del sito.
    Al dibattito ai giardini Luzzati, grazie ai relatori informati sulle inchieste andate in TV, è stato possibile un approccio costruttivo al tema della legalizzazione dell’oro verde, a partire dalla possibilità di sottrarre alla criminalità organizzata – Camorra SpA – un mercato che in Colorado ha creato legalamente 10.000 nuovi posti di lavoro, più il gettitio fiscale che permettermebbe un’entrata di otto miliardi di euro annui.
    Gli interventi dei presenti hanno dato voce alla fatica di chi, gravemente malato, è sottoposto alla sadica burocrazia del sistema sanitario per ottenere cannabis, e dei consumatori che rivolgendosi alla rete illegale dello spaccio, rischiano di assumere sostanze tagliate e gravemente dannose. Peccato che gli operatori del Sert non siano intervenuti, che fossero assenti i medici del lavoro che, per legge, devono verificare il consumo di droghe nei siti produttivi e che poco si sia detto sulle piantine coltivate dai militari italiani a Firenze.
    Così in assenza del messia a sinistra si è parlato di maria.
    Un saggio provvidenziale inizio. Una speranza per il coltivatore diretto di Ospedaletti finito in manette dopo aver convertito la produzione della sua azienda alla coltivazione illegale di canapa.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 404: SANITA’ – Franco Henriquet, per non morire di dolore

    (Franco Henriquet)

    Mi auguro che gli amici mi siano amici fino in fondo e che non facciano di me l’Enrico Toti del carcinoma, ma sappiano esortare a vedere oltre il caso personale, sappiano sollecitare a prendersi a cuore le faccende dei nostri ospedali e a tener caldo il problema sino a che non avremo ospedali, medici infermieri dal volto umano”, Gigi Ghirotti – luglio 1974.

    Gigi Ghirotti era un giornalista. Si era ammalato di cancro nel 1972 e della sua malattia scrisse per la Stampa e in un libro, Lungo viaggio nel tunnel della malattia
    Chissà quanti a Genova sanno chi era l’uomo che ha dato il nome l’associazione che in città si occupa di malati oncologici terminali. Ma in moltissimi erano da Feltrinelli il 16 aprile, per la presentazione del libro La strada di Henriquet, 30 anni della Gigi Ghirotti nella storia del suo fondatore (ed. Chinaski) scritto a quattro mani insieme a Enrico Cirone.
    Franco Henriquet ha spiegato che lo spirito di Ghirotti è stato fondamentale per l’associazione che ha fondato. E partendo dalla propria vita professionale ha raccontato un poco della storia sanitaria di questo paese, quando non esisteva ancora la specializzazione in anestesia – lui nasce ortopedico – e si poteva incappare in un primario che ti impediva di comunicare ai pazienti la gravità della malattia di cui erano affetti.
    Da qui la spinta a farsi carico del bisogno dei malati che non potevano guarire, per quali c’era meno attenzione, scegliendo di assisterli per davvero e anche dire loro, senza essere categorici, la verità, per sciogliere una rete di inganni e di bugie che metteva in difficoltà il rapporto.
    Henriquet ha parlato anche del fine vita: noi siamo contrari all’eutanasia, perché facendo terapia del dolore vogliamo togliere il dolore, sia dell’animo che dal punto di vista fisico, non accorciare la vita. Però sentiamo la mancanza di una legge sul testamento biologico, perché oggi la medicina si è dotata di strumenti tali che si può mantenere in vita una persona anche al di là della volontà della persona di vivere in quelle condizioni, in uno stato non di vita, ma di vita di vegetativa. Ventilazione artificiale, tracheotomia, inserimento di tubi per la nutrizione permettono di vivere per molti anni e quando uno si trova in uno stato di incoscienza deve subire tutto quello che la medicina gli offre per mantenersi in vita. Sono solo gli scontri a livello ideologico, ha spiegato Henriquet, ad impedire che sia fatta una legge che tutela le volontà dell’individuo. (OLI 283)
    L’associazione oggi ha un hospice a Bolzaneto ed uno ad Albaro per accogliere oltre a i malati oncologici anche i malati di SLA – sarebbe importante avere più posti letto – e si occupa di assistenza domiciliare. Ogni giorno la Gigi Ghirotti si prende cura dai sei ai settecento malati; con centoquaranta dipendenti, e costi elevati, di cui la Asl copre il 60%. Il restante 40% lo coprono associazioni e cittadini. Nel 2013 hanno sostenuto un costo di 7 milioni e 200mila euro. Pur essendo un’organizzazione locale sono al 32° posto a livello nazionale delle onlus.
    Alla presentazione si è avvertita l’assenza delle istituzioni, (assessori alla sanità e compagni).
    Ma solo un pochino.
    (Giovanna Profumo – Foto dell’autrice)

  • OLI 396: SANITA’ – Brignole, la morte di un gigante

    Un buco di bilancio che sfiora i 40 milioni di euro, al 2013. Una favola che poteva avere un lieto fine si chiude come quella della Piccola Fiammiferaia. Questo grazie ad un mix di responsabilità micidiale, perché la politica ha male agito e purtroppo anche il sindacato non è stato all’altezza della situazione, ha spiegato Antonello Sotgiu, ex dirigente della Cgil. Al suo fianco Michela Costa, Direttore Generale al Brignole dal 2003 al 2008 e Mario Calbi, che la favola dell’assistenza agli anziani a Genova la conosce sin dal 1970.
    Allo Zenzero il 14 gennaio, si è cercato di raccontare la storia dell’Albergo dei Poveri partendo proprio dagli anni Settanta quando nel territorio non c’era assistenza domiciliare e solo il ricovero era la soluzione. Grandi “universi concentrazionari” ha spiegato Calbi, parafrasando Foucault, laddove la famiglia, intesa come nucleo protettivo di cura e assistenza, stava evaporando. Il sogno politico di quegli anni era de-istitutizzare, togliere per creare servizi servizi territoriali, ambulatoriali integrati, piccoli istituti di quartiere, con commissioni di controllo costituite da parenti, ospiti e lavoratori. Un sogno che si stava realizzando con un drastico calo dei ricoveri a favore dell’assistenza domiciliare, quando è cambiata la visione politica. E, ha spigato Sotgiu, si è agito con la logica delle clientele, sia per quanto riguardava i servizi che per la parte relativa all’utilizzo del patrimonio disponibile. Anche i cittadini, invitati a vigilare hanno preferito tacere, per l’ansia di vedere il parente rispedito a casa. Mentre la politica nominava presidenti senza competenze manageriali.
    Un gigante, così viene definito il Brignole da Michela Costa, per patrimonio immobiliare, autonomia gestione e quattrocento anni di storia. Un gigante stremato dal disordine amministrativo e dai debiti, in grado però, nel 2003 di ripartire grazie al capitale umano professionale di cui disponeva, se questo cammino fosse stato appoggiato dalle istituzioni.
    Un gigante che poteva far confluire su di sé, con un’operazione di unificazione, l’istituto Doria e che avrebbe potuto ripartire dando una risposta agli anziani e ai loro bisogni con un’unica azienda pubblica, a sua volta integrata dai servizi del privato-sociale grazie ad un patto che impegnava Regione, Provincia, Comune, e Asl 3. Un patto che è saltato nello spazio di pochi giorni perché qualcuno ha ritenuto che era assolutamente impossibile, impensabile poter mettere un milione e mezzo di Euro su questa partita. Le stesse dirigenze, gli stessi politici che per errori poi banali hanno pagato botte di quattro milioni e mezzo con qualche conto ancora aperto ha detto Sotgiu.
    Però il risparmio del 36% in meno c’era, insieme ad un livello di produttività molto alto e posti letto coperti del 95%. Ci doveva essere un provvedimento che non facesse morire asfissiata l’azienda. Nel 2007 il Brignole poteva offrire servizi pubblici e sopperire a funzioni varie per 150 Euro al giorno a posto letto di riabilitazione. Tutto questo nel pubblico. Non c’è stato verso di trovare questo denaro. Nessuno ha mai risposto. Così l’ipotesi è stata cedere il personale in altri enti pubblici, perdendo know how per assumere nuovo personale con altri contratti. Così Michela Costa ha restituito le chiavi. Ed ha chiarito ai presenti in sala: Quest’azienda non è morta da sola perché si volevano fare i servizi domiciliari, ma si voleva che tutti i servizi pubblici venissero convenzionati a qualcun altro. Ed è esattamente quanto si è conseguito perché oggi questa città che, dal punto di vista demografico, sappiamo come è, non ha più servizi pubblici residenziali per gli anziani.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 392: SANITA’ – Aspettare un anno ed essere felici

    Oggi è una giornata nera. Nemmeno un posto a sedere. Succede spesso ma questa volta è diverso. Nell’aria c’è più tensione. E la pazienza scarseggia. Una signora anziana si lamenta per l’attesa – sono lumache! esclama – ha il cappello di lana calato come un elmetto sulla fronte. Deve essere nuova del luogo, è il tipo di persona che si lamenta allo stesso modo ovunque. La parola lumache le è congeniale, se ne compiace mentre la pronuncia.
    Il pannello luminoso scandisce i numeri lentamente. Dei tre sportelli, A B C, solo uno è indicato come operativo. Alle dieci del mattino ci sono già quarantacinque persone in attesa di pagare, prenotarsi e consegnare la cartella clinica. Molti hanno l’appuntamento. Infatti un cartello ribadisce loro di prendere il numero solo dopo la visita. Chi è esperto se la gioca: prende il numero appena arriva in ambulatorio sperando di restare nei tempi tra visita e pagamento senza saltare il turno e fare due code.
    Questa sala d’aspetto, in una palazzina bassa vicina alle camere mortuarie dell’ospedale Galliera, raccoglie persone di tutte le età: dal bambino che smanetta sul cellulare al vecchio sulla sedia a rotelle.
    Per ortodonzia chi c’è? – grida un’infermiera, una bambina scivola con la madre verso la porta a vetri. Urgenza numero undici? Chi deve togliere i punti? Per i punti si va al box otto. La voce dell’infermiera si mescola a quella dell’interfono, come alla spiaggia: La mamma di Laura C. avanti!

    Un padre, la figlia in braccio, racconta che per l’apparecchio della bambina ha chiesto l’appuntamento nel febbraio 2012 e glielo hanno fissato per marzo 2013. Ma è contento – anche se ha dovuto aspettare più di un anno – perché poi è stata seguita bene con appuntamenti programmati, a un costo di 800 euro circa tra visite e apparecchio. Con la grande eravamo andati da un privato, mi sarà costato almeno il doppio. La bambina è pronta per togliere l’apparecchio.
    Dentro, oltre la porta a vetri, sembra un alveare, i pazienti vengono smistati in una decina di box dove uno sciame tra medici infermieri e tirocinanti si occupa di loro. Difficile capitare con lo stesso dentista. Ma le infermiere si riconoscono, sono quelle che gestiscono la baracca, parlano ai bambini, sedano gli animi e organizzano i flusso di un’utenza poliedrica, riconoscente o maleducata a seconda degli umori e dei dolori.
    Qui più che altrove la lingua batte dove il dente duole.
    Ai politici genovesi si suggerisce timidamente di prenotare una visita di controllo.
    (Giovanna Profumo – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 352: SANITA’ – Centro trapianti: tagli che costano vite

    In rete sta girando la lettera che segue. Abbiamo deciso di pubblicarla perché da sola racchiude le molte tragedie che i tagli alla sanità stanno provocando: speriamo che contribuisca a orientare le decisioni della Regione Liguria (vedi Il Secolo XIX).

    Mi chiamo Sandro Secchi, ho 48 anni, sono nato a Genova, la città dove vivo, e sono malato di leucemia acuta Linfoide. La malattia non ha avuto riguardi: ha deciso quando arrivare e si è presentata senza invito. Credevo di avere al massimo un’ernia discale ed invece in tre giorni mi hanno diagnosticato questa terribile malattia. Non molti anni fa sarei morto in pochi mesi. E basta.
    Oggi sono qui a scrivere dopo 4 anni perché all’ospedale San Martino di Genova ho trovato chi mi ha affiancato ed ha affrontato con me e la mia famiglia un percorso terribilmente complesso e tuttora in corso, che mi ha permesso e mi permette di sopravvivere ancora.
    L’equipe del prof. Gobbi mi ha accompagnato al trapianto di midollo, che per grazia di Dio mia sorella, abbiamo scoperto, aveva altamente compatibile col mio. Un’altra equipe, quella del prof. Bacigalupo, mi ha preso in carico. Sono stato ricoverato in camera sterile al padiglione 5, un reparto che non esiste più perché si è ritenuto costasse troppo. Sono stati 27 giorni difficili e non tutti siamo usciti vivi. Ma per chi è uscito vivo è stato nascere una seconda volta, dolori compresi. Una seconda possibilità, una luce nel buio, la vita, non semplice magari, ma vita.
    Il centro trapianti del midollo di Genova è stato il primo in Italia ed è un grandissimo centro di eccellenza. Da tutta Italia malati di Leucemia, linfomi ed altre malattie onco-ematologiche vengono qui per cercare cure e vita, un vero pellegrinaggio della speranza e del dolore. Qui si sono ideati e consolidati metodi rivoluzionari ed innovativi che stanno via via rendendo sempre più compatibile con la vita tipi sempre più numerosi di trapianto, moltiplicando le possibilità di sopravvivenza.
    Ma oggi, dopo aver chiuso il padiglione 5, anche il 6 subisce un pesante ridimensionamento e passa a 14 letti. E tutto questo accadrà a breve, il 14 novembre 2012. Alcuni percorsi preparatori curati e perseguiti con passione e speranza da mesi non potranno più nemmeno iniziare. Per molti tutto dovrá ricominciare presso un altro centro. Per altri non si farà in tempo e, semplicemente, moriranno. Moriranno perché è stato fatto un risparmio semplice ed ottuso, ostacolando pesantemente uno dei migliori centri di trapianto del midollo oggi esistenti. Ci vogliono 10 anni per specializzare infermieri in grado di affrontare la complessità professionale di un reparto come questo, e molti se ne dovranno andare disperdendo questo patrimonio.
    Nessun centro trapianti ha subito in Italia tagli paragonabili. Le risorse vanno sicuramente razionalizzate, ma dov’è il senso di cominciare dalle eccellenze, che semmai vanno fatte diventare polo, riferimento, punto di confluenza?
    La vita di noi malati non è semplice, tutt’altro. Ma senza quel posto dove sono nuovamente venuto al mondo, senza quel letto che è stato tagliato, non c’è speranza e non c’è vita. E la vita va preservata prima di tutto. O non siamo niente.  
    (Sandro Secchi)

  • OLI 347: LETTERE – Anche la malattia discrimina

    Negli ultimi tempi, ammettiamolo, la mia salute non è stata un granchè: sono stata operata due volte in poco più di un mese, sempre con metodologie a bassa invasività ma, insomma, mi sono beccata due anestesie totali in meno di 40 giorni. La seconda operazione, in particolare, è stata abbastanza impegnativa e il decorso post operatorio alquanto doloroso. Sono stata dimessa due giorni dopo l’operazione e attualmente sono ospite a casa di mia madre, che, nonostante non sia più giovane e a sua volta piena di acciacchi, è ben contenta di potersi occupare di me, aiutata da mia sorella, un’infermiera ad alta professionalità che mi sorveglia con occhio d’aquila con la collaborazione di altri amici e parenti. Tutta l’organizzazione funziona anche perché, a parte un gatto viziato, non ho altre responsabilità familiari. Mi domando, però, cosa sarebbe successo se, appunto, non avessi potuto contare su una rete di relazioni personali così ricca. Mi domando come avrei potuto cavarmela se fossi stata anziana e sola, oppure se fossi stata una donna giovane con figli che dipendevano da me. Sarei riuscita a stare a riposo completo (che, lo garantisco, è necessario!) se le urgenze della vita familiare fossero state lì, sotto i miei occhi? Anche la malattia discrimina per genere: se una donna sta a casa, malata o sana che sia, ci si aspetta che comunque si prenda cura degli altri e sembra quasi innaturale che qualcuno si prenda cura di lei. Anche in questi casi si misura, dunque, come le donne paghino sempre il doppio per il peso del lavoro di cura che in larga misura sostengono: pagano in termini di maggiore fatica, ma anche di minore assistenza, perché, se, come giusto, l’ospedale deve essere il luogo degli interventi su malattie acute, allora è sulle famiglie e quindi sulle donne che ricade interamente il peso dell’assistenza post acuta. Accorciare i tempi di degenza, aumentare la produttività degli ospedali è senz’altro buona politica, ma fa male alle donne se non si accompagna al trasferimento di risorse sul territorio per organizzare una rete credibile di servizi rivolti alle fasi post acute della malattia. Guardare il mondo con occhi di donna vuol dire anche questo.
    (Paola Repetto – Disegno di Guido Rosato)

  • OLI 311: LETTERE – Cup, lo sfacelo organizzativo della Asl 3

    Lunedi: come si sa, giorno dell’ottimismo e delle buone intenzioni. Poiché non fumo e non sono sovrappeso, non mi resta che ripromettermi di affrontare l’impegno di una prenotazione al Cup.Intanto ho già fatto una telefonata per scoprire che l’esame che devo fare non è prenotabile per telefono e un’altra per chiedere a un istituto privato il prezzo da pagare per intero: 350 euro superano il mio budget mensile. E anche una inutile corsa all’ufficio Asl che nel frattempo scopro che si è spostato in un’altra sede, con orario solo mattutino. Stamattina alle 8,10 mi presento alla nuova sede.Un atrio di ingresso di appena 10 metri quadrati chiamato “ufficio prenotazioni”, qualche sedia sparsa in bel disordine sul passaggio, un cartello che avvisa dello sciopero di domani che accolgono i soliti pensionati in attesa del turno, già una decina. Il distributore di numeri nuovo di zecca (come tutto il resto) è già restio a distribuire, e mi assegno automaticamente l’epiteto di “ultima della fila”.Una signora si accorge che a lei non serve il numero, e “molto” democraticamente lo cede all’ultimo arrivato (…), che dal 14 fa un balzo in avanti all’8. Ho già un sussulto di ingiustizia.L’impiegata, barricata dietro un “paravento” improvvisato, evidentemente non avendo altro modo si alza 3 volte per chiedere alla collega della stanza di fronte informazioni utili alla prenotazione (“ma tu quando vai in ferie?”) portando con sé la borsa, casomai uno degli astanti avesse intenzione di portargliela via, di fronte a una decina di testimoni …Comincio il conto alla rovescia: se fra 15 minuti devo andare a lavorare, e in 7 minuti solo una persona è riuscita ad avere la sua prenotazione, che ci sto a fare qui? A parte il signore poco udente che continua a chiedermi quando tocca a lui, ormai sappiamo tutti qualcosa di più del fortunato arrivato ultimo e passato per primo, del tipo tipo “quando dovrà fare le analisi, quali, quanta pipì dovrà portare, che è diabetico e cosa gli ha detto il dottore”, e anche della sua signora, perchè con un numero regalato sono riusciti a passare in due, tra gli sguardi per niente rassegnati di chi era arrivato lì un’ora prima.Basta, non ce la faccio più.Non ho più tempo, non ho voglia di conoscere le malattie di altre 9 persone, e tantomeno di far conoscere le mie.Finirà come al solito che dovrò rimandare le visite mediche perché chi ha la fortuna di lavorare in proprio deve aspettare di poter prendere mezza giornata libera per pagare un ticket esoso per una prestazione che aspetterà per mesi.
    (Cristina Capelli)

  • OLI 307: ANZIANI – Stoccolma, Rivarolo e le inaugurazioni del PD

    La casa di riposo è a Solna.

    Il centro di Stoccolma è a quindici minuti di metropolitana.
    La casa di riposo è il ricordo di un viaggio dell’estate scorsa.
    All’estero, in certi luoghi, ci si finisce per accompagnare qualcuno in visita. E’solo il caso che ti ci porta e non fanno mai parte dell’album di fotografie.
    La casa di riposo di Solna a Stoccolma è una palazzina liscia liscia che affaccia sulla strada principale. Chi accompagno mi spiega che i degenti sono tendenzialmente divisi per età, ad ogni piano corrisponde una fascia di tempo. L’ultimo piano, quello più vicino al paradiso è per i più anziani. Il reparto è accogliente come la hall di un albergo: divani svedesi, televisore, sala da pranzo spaziosa che un’addetta sta spazzando dopo cena, l’ora del nostro arrivo. Una porta a finestre è spalancata su un lungo balcone pieno di piante. La luce del tramonto schianta sui pensili allineati su tutta una parete. Nella sala accanto un gruppo di ospiti chiacchiera.
    La porta della stanza dell’anziana è preceduta da una targhetta con il suo nome ed una fotografia nella quale è inquadrata assieme alla persona che più si occupa di lei nel reparto. E’ uno scatto amicale. All’interno, un grande bagno per disabili precede sulla sinistra una camera spaziosa con cucinino e frigo. La stanza è arredata con alcuni oggetti cari alla donna: un tavolino da tè, un bureau, due poltrone e alcuni quadri che l’hanno accompagnata tutta una vita.
    Lì i degenti fanno molte attività. Chi può esce e vive il quartiere. Ed è assolutamente normale che l’assistenza all’anziano venga fornita al massimo livello, al di là del reddito. La casa di riposo di Solna è pagata dalle pensioni dei degenti stessi.
    Sul Secolo XIX , nei giorni scorsi, un’inchiesta ha svelato il livello di assistenza fornita in alcune case di cura genovesi. Anziani affamati, fatti dormire nel “locale destinato alle attività riabilitative”, parcheggiati davanti al televisore ore ed ore, messi a letto subito dopo cena e alzati all’alba il mattino successivo.
    Molti dettagli atroci sono stati forniti dalla lettera di Marta Bianchi apparsa il 27 giugno sul SecoloXIX.
    Marta Bianchi è lo pseudonimo di una dipendente di “Anni azzurri – Sacra Famiglia di Rivarolo”. Prima di essere trasferita lì, spiega, lavorava alla “Casa Protetta Villa San Teodoro, piccola struttura con soli 18 anziani, con addirittura certificazione di qualità, già lodata dal Cardinal Bagnasco e dal sindaco Vincenzi, che dopo le lodi (“fiore all’occhiello per il Comune” la definì) nulla fece per evitarne la chiusura. Ciò permise, guarda caso, alla Sacra Famiglia di aprire con largo anticipo i battenti assorbendo qualche dipendente e 17 dei 18 anziani. La metà dei quali morì nei primi sei mesi dal trasferimento”.
    Nel 2009 su Oli 227 Paola Pierantoni, occupandosi di assistenza pubblica, forniva dettagli sull’evento: “L’inaugurazione più recente, celebrata in grande spolvero, è quella della struttura “La sacra famiglia” di Rivarolo, che ha avuto il privilegio di una procedura di accreditamento insolitamente rapida. Pare che la qualità della residenza sia ottima. Di certo ottima è la stampa di cui gode sul sito del PD”. (*)

    (Giovanna Profumo)