Categoria: Aris Capra

  • OLI 405: LAVORO – Demolizioni navali: roba da terzo mondo

    Nel 2000 ero docente in una serie di corsi svolti nei confronti degli equipaggi e del personale di terra di alcune compagnie di navigazione italiane, le varie sessioni si svolgevano sulle alture di Spezia ed avevano oggetto una legge speciale da poco in vigore, il D.Lgs. 271 del 27 Luglio 1999.
    Nelle aule ruotavano tutti i membri degli equipaggi, dai mozzi ai Comandanti, ed alcuni di questi ultimi, nelle pause d’aula, mi descrissero una realtà vissuta in prima persona, gli spiaggiamenti di vecchie navi delle loro Compagnie sul grande estuario del Gange in Bangladesh nel Golfo del Bengala, nei più grandi cantieri di demolizione navale del mondo a cielo aperto, a Chittagong.
    I report di questi viaggi tendevano a dimostrare la particolare e specifica abilità del comando nel giungere a destinazione con navi ridotte all’osso, dalle quali era stato smontato e sbarcato tutto il possibile, e del momento finale, quando con la più elevata galleggiabilità e con il livello massimo di marea, venivano portate alla loro ultima corsa, alla massima velocità possibile sino ad arenarsi sulla riva, il più vicino a terra possibile, come balene spiaggiate. Descrivevano la singolare attività che vedevano iniziare spenti i motori, o che era in corso sui giganteschi rottami vicini, con la bassa marea infatti un nugolo di uomini a piedi scalzi e vestiti strappati, si avvicinavano allo scafo in secca e letteralmente lo assaltavano per scarnificarlo, per cominciare a sezionarlo, a demolirlo. Veniva praticato un varco di accesso su un fianco nel quale si introducevano gli addetti, armati di bombole e cannelli, ed incominciavano a spolpare la carcassa dall’interno. Non era più una nave, ma una grande miniera a cielo aperto di lamiere di acciaio e di componenti da riciclare. Descrivevano della qualità del lavoro e delle attività che si svolgevano nei cantieri che attraversavano mentre andavano a prendere un aereo per tornare in Italia, ma erano talmente a tinte forti da ritenerle esagerate – sono marinai – pensavo – anzi Comandanti ad un corso di formazione e chiaramente intenzionati a far colpo sul docente.
    Mi misi a fare ricerche su questi strani posti e cicli di lavoro ed allora, era il 2000, scoprii una realtà
    incredibile, scaricai foto, splendide nella loro tragicità, lessi i report di attività lavorative organizzate con caratteristiche medioevali, condotte con il più elevato disprezzo per la vita umana e l’ambiente, lessi di connivenze e aziende malavitose, di dati ambientali falsi e di proclami di governanti, di incredibili business e di paghe da fame, di ignoranza e di morti sul lavoro, di malattie da lavoro e di tumori nella popolazione, di sterminio dell’ambiente del delta nel Golfo del Bengala, di morti pagati un tanto al chilo e di attività che mai mi sarei sognato di scoprire, come quello delle raccoglitrici di amianto per il suo riutilizzo.
    Diverse da oggi erano le fonti di informazione riportanti notizie e report. La maggior parte dei siti dedicati all’argomento puntava soprattutto sulla esposizione di foto color seppia o b/n, laddove lavoratrici e lavoratori di colore erano drammaticamente ripresi durante lo svolgimento delle rispettive attività lavorative. Ricordando oggi quelle prime sensazioni penso di aver definito con chiarezza e per la prima volta, come una sorta di imprinting, cosa si potesse intendere per industrializzazione di rapina nel terzo mondo, prima ci pensavo e ne argomentavo, ma solo allora mi resi conto realmente di cosa volesse dire sfruttare in un territorio di conquista, di come aziende inquinanti, malsane e portatrici di attività altamente pericolose, potessero sfruttare povera gente, territori ed ambiente, senza alcuna regola se non il profitto, gestendo in modo criminoso un business colossale, inarrestabile, ed ancora in qual misura la impossibilità di controllo da parte delle organizzazioni dei lavoratori e dei cittadini sul ciclo produttivo avesse determinato morti e feriti, inquinamento e distruzione di un vastissimo ecosistema.
    In effetti questa posizione, questo punto di vista, allora era in fase di crescita, ma mai nella partecipazione attiva e critica dello stato sovrano.

    Oltre le posizioni negative enunciate da varie ONG e organizzazioni internazionali dei lavoratori, l’unico documento tecnico quasi pubblico che riuscii trovare ed archiviare fu la tesi di laurea di un giovane biologo che descriveva, con dovizia di dati ed argomentazioni, la riduzione della fauna ittica del Golfo, problema certamente grave, indiscutibilmente, ma in quel corposo documento non tentò nemmeno di avvicinarsi a terra, alla organizzazione del lavoro che era origine dell’inquinamento, del business all’origine di tutto ciò. Soprattutto perché i clienti, gli armatori che mandano le proprie navi in demolizione sono quelli del nord del mondo, quelle navi che in Europa dovrebbero sottostare alle poche, mal applicate o rispettate, ma esistenti, norme ambientali e di Salute e Sicurezza sul Lavoro.
    Il ciclo era completo: le vittime, i carnefici ed i mandanti.
    Nel Giugno del 2010 a Chittagong, venne tenuto un convegno con oggetto la eco-sostenibilità nella Baia del Bengala, organizzato dall’Istituto Pubblico di Ricerca sulla Pesca e presieduto dal Dr.Md.Gulam Hussain, Direttore Generale della Struttura.
    Vennero analizzati ed argomentati i dati degli sversamenti a mare determinati, tra l’altro, dalla attività di rottamazione e recupero navali, partendo da un paio di dati di fatto: i rifiuti generati dalle industrie inquinavano l’ambiente circostante a diversi livelli (acqua, aria e terreno).
    Il costo pubblico per il controllo dei rifiuti era in aumento a causa dell’inquinamento ambientale dovuto all’uso di vecchie e retrodatate tecnologie e all’uso delle apparecchiature fino alla loro morte per vecchiaia, (manifestanti l’evidente intenzione di non utilizzare più costose versioni moderne visto la variabile di costo”vite umane” irrisoria). Assenza di iniziative da parte del governo nel fornire supporto finanziario e altri incentivi per la creazione di impianti per il trattamento di sostanze chimiche provenienti dai cicli produttivi in oggetto.
    La attività di rottamazione delle navi o “ship breaking”, ha avuto origine nel 1969 ma con un vero e proprio

    boom negli anni ’80 e, continuava il report, si è guadagnata la reputazione di essere notevolmente redditizia, ma con un grande costo ambientale. Rifiuti vari e materiali usa e getta sono gettati in mare dalle navi con residui di rottamazione e spesso si miscelano con il terreno, la spiaggia e con l’acqua di mare con un impatto negativo sull’ambiente costiero e la biodiversità.
    Le operazioni di travaso e recupero di oli , grassi e carburanti raggiungono le 2500 Tonnellate anno, di tali operazioni venivano considerati gli effetti nocivi e l’impatto che, in modo documentato, gli sversamenti liquidi avevano portato all’ambiente: oli, lubrificanti, grassi, TBT.
    Gli effetti nocivi riscontrati a parere della commissione erano stati:

    • Copertura del corpo e asfissia nei pesci,
    • Riduzione dell’intensità della luce sulle foglie che inibisce la fotosintesi, riducendo lo scambio di ossigeno e carbonio
    • I danni alla popolazione degli uccelli, la ricopertura da oli delle piume, provocanti oltre a perdita di galleggiamento anche casi frequenti di tossicità acuta
    • A volte le fuoriuscite provocano mortalità ad ampia diffusione tra la popolazione di pesci, vermi, granchi e molluschi.
    • Nella popolazione umana i metalli come mercurio, rame, piombo, cadmio, arsenico, ecc, hanno determinato effetti nocivi come
    • disturbi mentali, danni al sistema nervoso (ad esempio Malattia di Minamata, Arsenocosis)
    • anemia, disturbi renali, sterilità e cancerogeni.
    • Inoltre l’effetto nocivo di gas rilasciati in atmosfera come : CO2, CO, SO2, Cl2, NH2, fumi acidi, isocianati, hanno determinato
    • un aumento di gas tossici in aria,
    • un impatto negativo sugli esseri umani (ad esempio causanti asma e di altre malattie respiratorie).
    • Fra gli inquinanti solidi PVC, plastica, lana di vetro, amianto, ecc sono presenti in quantità notevoli inoltre:
    • IPA: procuranti tumori maligni a polmoni, stomaco, intestino e alla pelle, altamente tossiche e con la proprietà di bio-accumularsi nell’ambiente.
    • diossine: provocano cancri, sono in grado di sopprimere il sistema immunitario ed in una fase sia pre che post-natale colpiscono il sistema nervoso dei bambini. 
    • I PCB: sono collegati al cancro, con danni al fegato e al sistema riproduttivo. Sono altamente persistenti del livello trofico più elevato della catena alimentare marina.

    A seconda della loro dimensione e funzione, le navi demolite hanno un peso a vuoto tra 5.000 e 40.000 tonnellate (con una media di 13.000), il 95% è acciaio, rivestito con da 10 a 100 mani di vernice contenenti piombo, cadmio, organostannici, arsenico, zinco e cromo.
    Le navi contengono una vasta gamma di altri rifiuti pericolosi come i sigillanti contenenti PCB, fino a 7,5 tonnellate di vari tipi di amianto; diverse migliaia di litri di olio (olio motore, olio di sentina, oli idraulici e lubrificanti e grassi). I serbatoi inoltre possono contenere fino a 1.000 metri cubi di olio residuo.
    Lo studio prosegue individuando i benefici che questa attività porta al territorio : l’attività di SBA (schip breaking) crea un elevato potenziale economico e una opportunità lavorativa per migliaia di lavoratori e contribuisce alla crescita economica della regione che ha bisogno di investimenti del settore privato. Per quanto possibile il 100% della nave è riciclato, l’attività è di grande importanza nell’economia nazionale del Bangladesh e fa risparmiare grande quantità di valuta estera, riducendo l’importazione di materiali in acciaio, con la demolizione delle navi si garantisce infatti l’approvvigionamento di materie prime per le acciaierie, lamiere in acciaio per la costruzione, si ricicla l’amianto, vengono rigenerati oli ed lubrificanti per le altre industrie.
     La attività di SBA garantisce lavoro direttamente a 25.000 persone ma altre 200.000 sono occupate nell’indotto. Sebbene questa attività abbia guadagnato una buona reputazione dal punto di vista del profitto per i Paesi in via di sviluppo, è considerata “fastidiosa” per l’ambiente e per la salute umana. (il termine che ho tradotto è esattamente quello utilizzato nel Report)
    Non vi è alcun disaccordo sul fatto che questa attività sia ad alto rischio industriale. Da ogni punto di vista, la demolizione delle navi è un lavoro sporco e pericoloso. I rischi specifici del ciclo di lavoro si suddividono in due categorie: intossicazione da sostanze e incidenti sul lavoro.
    Esplosioni di gas residui e fumi tossici nei serbatoi sono la prima causa di incidenti nei cantieri.
    Un’altra delle principali cause di incidente è caduta dalle navi (che sono alte fino a 70 m) di lavoratori che vi operano senza sistemi anticaduta e cinture di sicurezza.
    Gli altri incidenti mortali più frequenti comprendono per i lavoratori l’essere schiacciati da travi o lamiere in acciaio che cadono, elettrocuzione, ecc.
    I lavoratori non qualificati trasportano lastre di metallo, barre o tubi di metallo sulla testa nuda o a spalle, iniziano a camminare con passi sincronizzati dal ritmo canzoni o musica, verso una destinazione precisa e poi movimentano lamiere metalliche nei cantieri per impilarle o caricarli su camion, senza mezzi di sollevamento. Come durante la costruzione della piramide di Giza, o Stonehenge in piena continuità.
    In lingua inglese, nello slang corrente usato quando si ragiona di queste attività, si usa il termine di : three D-jobs :dirty, dangerous and demanding, e cioè sporchi, pericolosi ed impegnativi.
    Lo studio termina dopo aver analizzato, a dire il vero con maggior dovizia di numeri, il livello di degrado nel quale si trovano attualmente le foreste di mangrovie inquinate ed l’elevato numero di pesci endemici o pelagici ormai scomparsi od in pericolo, con una considerazione sul “che fare”:
     “Considerando il ruolo positivo che questa attività ha nella economia nazionale, afferma la commissione di studio, essa non può essere interrotta, piuttosto dovrebbe essere determinato un approccio sostenibile per ridurre al minimo le conseguenze negative nella zona costiera. Il governo dovrebbe nominare un’autorità competente che, in consultazione con le organizzazioni rappresentative dei datori di lavoro e dei lavoratori, dovrebbe formulare, attuare e riesaminare periodicamente una coerente politica nazionale e principi per la demolizione in sicurezza delle navi. Tale politica dovrebbe includere:

    • Il controllo delle importazioni e la preparazione delle navi alla demolizione;
    • L’occupazione e le condizioni di lavoro, sicurezza sul lavoro e la salute, i diritti e il benessere dei

      lavoratori; 

    • La protezione sia della popolazione che dell’ambiente nella prossimità di un cantiere di demolizione. 
    • Il governo dovrebbe includere questo settore nel ministero dell’industria, e formulare una politica adeguata in modo che i diritti dei lavoratori possa essere garantita e resa contemporaneamente ecocompatibile. 
    • Ambiente, diritti umani e economia, tre ambiti che dovrebbero essere considerati nel formulare la gestione pubblica di questo settore.

    Quindi anche nella parte di sotto del mondo il risultato delle grandi operazioni politiche determina la nascita di

    una commissione di studio, con all’interno probabilmente coloro i quali sono stati corrotti sino a quel momento per il mantenimento dello status quo.
    Ma vediamo quanto risulta invece dalla lettura delle documentazioni non governative.
    Fondamentale è la corruzione:
    “Credo che gli ispettori che verificano le condizioni di lavoro a bordo rilascino certificati in modo “illogico” o in ragione di alcuni interessi e non in base allo stato di adeguatezza della nave “.
    l giornalista Hasan Akbar amplia questo concetto: ” il modo più facile ottenere i certificati necessari del Dipartimento è quello di pagare una tangente di alcune migliaia di taka. Quindi l’ispezione diventa non più necessaria. Purtroppo chi rilascia i certificati non controlla correttamente quanto e come dovrebbe. L’ispezione di una nave intera dovrebbe durare almeno da sei a otto ore, ma spesso si completa in meno di un ora “.
    “Un controllo completo costerebbe al proprietario tra 60.000 e 80.000 taka. Essi preferiscono pagare per la verifica di due o tre ambienti spendendo ufficialmente tra i 600 a 900 taka e farne scivolare poche migliaia sotto il tavolo verso l’ispettore, il certificatore”. (100 Taka oggi valgono, come le rupie indiane, circa 1,5 Euro.)
    “I proprietari dei cantieri hanno stabilito buone relazioni con i politici e le baronie locali. Tra l’altro finanziando i loro circoli ricreativi. In realtà si tratta di una mafia vera e propria. Dando tangenti alla polizia, politici, giornalisti e così via, hanno costruito un sistema in grado di evitare qualsiasi pubblicità negativa in caso di esplosione o incidente, minimizzandone la valenza e gli effetti. L’intera faccenda è solo un racket e condotto a costo della vita dei lavoratori, della popolazione locale e dell’ambiente.” I cantieri non sono ufficialmente industrie, non esistono, molti di questi non hanno obblighi come un salario minimo e la compensazione a seguito di un incidente, però hanno bande di “bravi” armati che di mestiere mantengono la tranquillità del sistema.
    Se le imprese fossero riconosciute, sarebbero anche passibili di ispezione dal Dipartimento del governo dell’Industria, ma ufficialmente non esistono e laddove possono pagano tangenti agli Enti preposti ai controlli.
    I lavoratori che arrivano ai cantieri sono tutti analfabeti e di origine contadina. Arrivano attirati dal miraggio del lavoro sicuro intenzionati a fermarsi per un solo anno , ma mediamente si allontanano dal mare solo dopo dieci anni. Uno su cento è assunto a tempo indeterminato, gli altri sono a chiamata, con i classici fenomeni di caporalato.

    La paga media di un lavoratore nei cantieri di demolizione si aggira sui 40 Takas al giorno, 0,60 euro al giorno nel primo anno lavorativo, per raggiungere il massimo di 70 Takas dopo 10 anni, circa un euro, lavorando 16 ore al giorno, sette giorni la settimana, 365 giorni l’anno.
    L’aspettativa di vita, vista l’esposizione a sostanze tossiche è di circa 20 anni, contro i quasi 61 del restante Bangladesh, ed il 20% inizia a lavorare nei cantieri prima di aver compiuto 15 anni.
    In caso di morte, ad evitare pubblicità negativa od interventi, pur improbabili, degli organismi di controllo, le imprese pagano alle famiglie un indennizzo, una compensazione. Un esempio documentato cita due cifre: 40.000 Takas alla famiglia del morto (600 Euro) e 60.000 alla polizia, per insabbiare e nascondere. L’indennizzo sale quando in famiglia c’è un parente militare o poliziotto.
    Le imprese, che si avvalgono per ogni nave di sei o sette ditte di appalto, ricavano mediamente 150 dollari a tonnellata per nave, la media di 13.000 tonnellate porta a valutare un ricavo medio di due milioni di dollari, oggi circa 1.600.000 euro, un lavoratore viene pagato 60 centesimi di euro il giorno, e, se muore costa 1500 euro, è un vero affare. Poi i cantieri devono pagare gli organi di vigilanza, gli ispettori, coloro che devono fare i controlli ambientali, i politici del territorio, i politici nazionali e gli esperti che partecipano alle commissioni che devono garantire tutti la continuità, ed in queste specifiche condizioni.
    Nelle ultime 300 navi analizzate dalle varie ONG sono stati indicizzati 87 morti, 3.4 per ogni nave. 6000 infortuni gravissimi, danni irreparabili all’ambiente, grande distribuzione di tumori specifici in misura abnorme rispetto agli altri territori.
    A questi imprenditori-delinquenti, grazie ai rapporti di forza favorevoli ed a quanto spendono per mantenerli, va benissimo. La commissione in effetti ha come obiettivo la continuità e interventi pubblici per eventuali bonifiche ambientali se proprio fosse il caso che il pesce palla delle mangrovie avesse a risentirne. Ricapitolando dalla mia ricerca su Chittagong e lo shipbreaking, sono emersi una serie di fattori

    • In un vasto ambito territoriale una specifica attività industriale inquina mortalmente il territorio, l’aria, il suolo, l’ambiente. 
    • I lavoratori muoiono o si ammalano svolgendo una attività lavorativa durante la quale le regole di lavoro sicuro non vengono rispettate. 
    • I lavoratori sono sottopagati. 
    • Uno su cento ha un contratto a tempo indeterminato e gli altri sono atipici. 
    • La commissione governativa che dovrebbe occuparsi di ridurre pericoli per lavoratori ed ambiente è di parte ed inquinata dalle lobby filo aziendali. 
    • Gli Enti di certificazione sono corrotti così come coloro che devono procedere alle ispezioni. 
    • Il potere locale e la polizia prendono tangenti per chiudere un occhio. 
    • Le aziende corrispondono alle famiglie delle vittime un risarcimento pur di evitare percorsi penali. 
    • Per avere maggiore collusione finanziano anche i circoli ricreativi locali.  
    • I mandanti sono lontani al sicuro nei loro inarrivabili uffici old-English, come sempre assolutamente ignari ed in buona fede.

    Ma dai, roba da terzo mondo, da noi non succederebbe mai.
    (Aris Capra – Responsabile Sportello Sicurezza CDML Genova – foto da internet)

  • OLI 402: LAVORO – Salute, lobby e serial killer

    Sempre più frequentemente una serie di eventi correlati alla qualità del lavoro inducono l’opinione pubblica a porsi una serie di domande specificatamente riferite al rapporto fra il lavoro, anzi il mantenimento del posto di lavoro, (perché c’è la crisi, perché il Paese ne abbisogna, perché è necessario tenere i piedi per terra e stare attenti ai paesi dell’Est, perché lì costa tutto meno ed un operaio guadagna un Euro l’ora che nemmeno i cinesi) ed il suo impatto sulla salute degli addetti, se pur nella salvaguardia dell’ambiente circostante il sito produttivo.
    E’ sinonimo di civiltà o di inadeguatezza del mercato lavorare in sicurezza nel rispetto dell’ambiente? Se ci si riferisce a chi lavora all’interno dell’impresa, non possiamo che pretendere la verifica del rispetto di quanto è considerato il significato del termine stesso “salute”, cioè lo “stato di completo benessere psico fisico e sociale dell’individuo”, e scusate se è poco. Tale definizione non è un parere filosofico, etico o quanto risultante da una discussione fra saggi o letto in un fumetto di Cipputi, ma quanto per legge è obbligatoriamente compito di colui il quale ha “obbligo di prevenzione” nei confronti dei lavoratori: il Datore di Lavoro in una qualsiasi delle varie forme in cui nell’ordinamento italiano si manifesti.
    Obbligo di prevenzione, non libera scelta. La filosofia infatti dell’impianto prevenzionistico vigente definisce un percorso routinario dal quale egli, il Datore di Lavoro, non può esimersi prima di svolgere una qualsiasi attività lavorativa infatti, deve immaginare gli eventi pericolosi che possono manifestarsi per la salute dei lavoratori che intende impiegare, affrontarli e eliminarli o ridurli a quanto definibile come un livello di sicurezza accettabile.
    Lo sviluppo di questo percorso legislativo è relativamente recente e si è trasformato nel tempo, è il risultato di lotte operaie e sindacali a seguito di decine di migliaia di morti causati da infortuni sul lavoro, centinaia e centinaia di migliaia di feriti gravi, di arti amputati, di schiacciamenti fratture e cadute, di intossicazioni, organi interni deteriorati, sordità, cecità, dolore e sangue, tanto ma tanto sangue. E orfani e vedove in lacrime, e bandiere ai funerali.
    Sino all’altro ieri non era impedito dalla legge monetizzare il rischio, cioè incentivare il lavoratore a svolgere una attività per varia natura rischiosa pagandolo per affrontare il pericolo, nelle buste paga dell’epoca si potevano leggere a chiare lettere e senza possibilità di equivoci ad esempio i valori orari di indennità orarie a fronte di esposizione a sostanze chimiche.
    La esposizione al pericolo in quel periodo veniva spesso scambiato con ore di permesso, ferie aggiuntive, turnazioni agevolate, premi in varia natura. Allora non c’era la crisi, anzi si era in piena ricostruzione, boom economico post bellico, il potere contrattuale all’epoca elevato veniva speso anche per tali scopi, sia a livello individuale che collettivo.
    Certo, prima era ancora peggio, brutti periodi per la contrattazione, durante la trasformazione industriale delle fabbriche, la Grande Crisi, la produzione bellica con il massiccio uso di sostanze pericolose ed esplodenti, l’Autarchia, le due guerre.
    I rapporti di forza, le Società Operaie, il Sindacato, le Piazze, la direzione e veicolazione della capacità contrattuale e i sempre tanti, troppi morti sul lavoro hanno trasformato ed accresciuto l’impianto normativo rendendolo quello attuale, ma mai nulla venne regalato, ma anzi sempre scontrandosi con la forte ritrosia della controparte per la quale la sicurezza non è mai un investimento, ma un costo, sopratutto laddove il pericolo è sinonimo di “mala”organizzazione del lavoro.
    Come sempre è avvenuto sono stati proprio gli eventi di maggiore gravità a promuovere e sviluppare percorsi di prevenzione dedicati e maggiormente incisivi, eventi che a volte vengono ricordati con nomi che oggi poco ci ricordano, ma che all’epoca sviluppavano tale risonanza da non poter essere ignorati come la tragedia nella miniera di Ribolla con il conseguente sviluppo della prevenzione in ambito minerario e la nascita dei primi “Rls” della storia negli anni ’50, o la storia dell’incidente di Seveso ed il cancro da diossina, la legge Lama, la Tito Campanella, La Thyssen, le morti multiple nelle stive di cereali, in silos e ambienti confinati determinanti la legge 177, e solo ieri la Torre in porto a Genova e le nuove successive regole che ne conseguono.
    Nel frattempo si trasformava e specializzava Medicina del Lavoro, si acquisivano nuovi dati di pericolosità di sostanze da tempo in uso e si riducevano i livelli limite di esposizione, laddove sino al giorno precedente un quantitativo soglia limite di esposizione ad una sostanza veniva considerato come un adeguato livello di protezione, poteva venire nel tempo sostituita con altri valori maggiormente protettivi, sviluppando nel frattempo più adeguati percorsi di sorveglianza sanitaria per gli esposti.
    In epoca ormai lontana era considerato un toccasana sparare in atmosfera fumi e polveri tossiche ad elevata temperatura dalla bocca di una alta ciminiera, sino a quando il legislatore è stato costretto a recepire il fatto che prima o dopo gli inquinanti sarebbero ricaduti nell’ambiente circostante e che i cittadini tutti, anche non lavoratori, da tali rifiuti avrebbero dovuto essere protetti, ma oltre ai lavoratori esposti nel ciclo produttivo, anche i terreni, le piante e gli animali, l’ambiente tutto divenne oggetto di prevenzione. Si incominciò a pensare che l’essere in cima alla catena alimentare potesse non essere, in caso di siti inquinati, una grande soddisfazione.
    Mentre nel sottobosco dei palazzi romani lobby trasversali si occupavano, spesso riuscendovi (ieri come oggi), di modificare l’impianto prevenzionistico edulcorandolo e rendendolo meno impositivo per quanto riguardante le norme di salute e sicurezza sul lavoro, imprenditori di piccole e medie imprese sotterravano inusitate quantità di sostanze tossiche e rifiuti pericolosi, veri sottoprodotti del proprio ciclo produttivo, spesso con la connivenza di amministratori locali. Per molti piccoli proprietari terrieri divenne per anni, decenni, l’unica possibilità di far fruttare i propri terreni, non a caso le terre dei fuochi, che sono tante nella penisola, sono prevalentemente dislocate in zone economicamente depresse. Non solo nel centro sud italiano, ma anche al nord, laddove veniva effettuato uno scavo per una bretella autostradale, per un molo o si esauriva una cava, nottetempo, ma spesso anche alla luce del sole, camion in retromarcia riempivano buche con materiali dai contenuti più vari, dai radioattivi ai rifiuti sanitari, metalli pesanti, sostanze velenose, fumi di fonderia. Dopo una ruspa compiacente era sempre pronta a coprire e nascondere le buche.
    Di norma le aziende di piccola dimensione erano autosufficienti, ma per le grandi era necessario ricorrere a veri professionisti dello smaltimento clandestino, un business di dimensioni colossali che, per logistica ed attrezzature, ha permesso a svariate organizzazioni malavitose di specializzarsi diversificando la propria attività, Eco-Mafia è il termine corretto con cui chiamare questo ambiente. Ma attenzione i malavitosi sono senza dubbio i gestori del traffico, ma non da meno sono tali i produttori di rifiuti, gli autisti dei mezzi, gli armatori con i colletti bianchi delle compagnie di navigazione che buttavano in mare i fusti inquinanti o che a volte affondavano le navi colme di veleni, così come i Comandanti e gli ufficiali e gli equipaggi, ricattati con lavoro sicuro in cambio del silenzio.
    Ma i grandi gruppi industriali, sia pubblici che privati o partecipati, hanno da sempre usato metodi diversi: lobby di pressione, acquisto di consensi nelle amministrazioni locali o regionali o direttamente nei governi, l’uno per l’altro, atti a garantire una sorta di patto di non aggressione, la certezza di non essere controllati o, spesso, di avere dalla propria i controllori, i certificatori, i periti, gli ispettori, gli amministratori, burocrati che con un timbro giusto di forma e colore, siano in grado di asseverare il processo, di garantire che quella polvere cancerogena che uccide non paia poi così pericolosa, che l’abbattimento degli animali infetti passi sotto silenzio, che i cavoli radioattivi dell’orto siano stati irradiati dai marziani, che la scientificità dei dati presentati dai superstiti possa essere contestata, pagando mazzette a tutti, accattivandosi i lavoratori o la cittadinanza utilizzando i circoli aziendali ricreativi gestiti dalle parti sociali o finanziando le trasferte di confraternite di portacristi.
    E tutti giù a dar di matto quando le vedove denunciavano, ma venivano comprati giornalisti per condizionare l’opinione del popolo bue.
    Il dramma nel dramma è sempre lo stesso, e le domande, oggi come ieri non cambiano. Queste aziende, piccole o grandi inquinano, fanno ammalare, intossicano uccidono. Oggi come ieri. Quelle piccole tutto sommato non importano a nessuno, inquinano è vero, ma poco per volta, hanno pochi dipendenti che si ammalano e pochi inoltre perderanno il posto di lavoro se qualcuno decidesse nel rispetto delle regole di impedire l’inquinamento. Molte di queste probabilmente riescono a stare sul mercato proprio nascondendo sotto il tappeto le briciole, peccato però che le piccole imprese siano la stragrande maggioranza delle imprese italiane e che non ci sia un adeguato numero di controllori per verificarne anche solo una parte consistente e se chiudono l’impatto sull’opinione pubblica è minimo, non occuperanno mai una piazza, ma al massimo l’androne di un portone. Quelle grandi hanno dalla loro un’altra carta da giocare e si trovano alleati con parti di per se antagoniste. Queste sono quelle che inquinano il territorio per chilometri quadrati, intere città. Sono quelle che hanno sulla coscienza centinaia di morti, con amministratori delegati con stipendi a grandi cifre e studi di avvocati specializzati nel prender tempo, pelo sullo stomaco e conti nei paradisi fiscali e stupore di tanto clamore per quello che per loro non è che un danno collaterale, una bomba intelligente che solitamente produce energia od acciaio che, sorpresa sorpresa, negli anni uccide i bambini di cancro.
    Certo per i lavoratori di queste imprese non è bello sapere di essere o essere stati esposti continuamente a sostanze che possono procurare danni irreparabili, malattie incurabili e trovarsi ad un certo punto della propria vita a dover scegliere da che parte stare per campare, se pur malamente. Rischiare che, nel pretendere la salvaguardia della propria salute e, perché no, quella dei bambini dei quartieri vicini ci sia il rischio di perdere il lavoro, ‘che fuori c’è la crisi. Legittimamente domandarsi perché l’impresa, gli amministratori locali, gli esperti, non si fossero accorti di ospitare sul territorio un vero serial killer, ma non uno di quelli che ammazza tre o quattro prostitute e si prende l’ergastolo, ma bensì uno che uccide 500 o 1000 persone nell’arco di una decina d’anni e che, come capita, prenderà una multa se mai la pagherà.
    Saranno loro forse a dover pagare con una riduzione di diritti e tutele, con meno lavoro, meno certezze nel futuro.
    E’ a loro che verrà chiesto, quando scenderanno in piazza con bandiere e striscioni, quante giornate lavorative, quanti posti di lavoro vale un bambino morente di cancro.
    E sempre loro, che non c’entrano niente, verranno utilizzati dall’impresa che giocherà la carta del ricatto occupazionale, muovendo le proprie pedine, sempre le stesse, all’Ilva di Taranto come nella centrale a carbone di Vado Ligure.
    (Aris Capra – Responsabile Sportello Sicurezza CDML Genova – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 357: LAVORO – Morire di lavoro non è una malattia rara

    La consuetudine annuale della diffusione dei numeri d’infortuni sul lavoro avvenuti, coinvolge poco o niente gli italiani, che vengono assaliti da una noia abissale, risentendone parlare e riparlare anno dopo anno, sempre nello stesso modo, dalle stesse istituzioni e le stesse persone, con gli stessi aggettivi e modalità.
    Nulla di nuovo. Lavorando con questa organizzazione del lavoro, questo insieme di regole, questo sistema di vigilanza, questa crisi e questo mercato in avanzato stato di decomposizione ci si infortuna, ci si ammala e, spesso, si muore.
    Se ne parla tutti gli anni e nello stesso modo. Quest’ultima tornata di dati, seppure dichiaratamente incompleti, è in effetti parte di una sfocata fotografia di un tempo di crisi, con code di cassaintegrati a sbrigare pratiche che si propongono per lavori in nero e sottopagati, assieme ai loro ex colleghi esodati, o disoccupati o inoccupati (brutti termini entrati nel nostro lessico giornaliero), travolti da disastri alluvionali e terremoti, stravolgimenti climatici e abbandono a se stesso di un territorio alienato da sciagurate politiche industriali.

    È terribile pensare che chi legge i dati o chi ne senta semplicemente parlare li affronti come ineluttabili, e che tutto sommato si aspetti semplicemente ed inevitabilmente una lista di numeri.
    Non c’è sorpresa o indignazione, bensì una sorta di rassegnazione, una presa d’atto che di lavoro si muore, si deve morire, perché è così che vanno le cose, è il costo del lavoro e a qualcuno spetta ed è toccato anche quest’anno. Poi leggendo meglio i dati locali, sovviene di un evento particolare, quello vicino o quell’altro particolarmente eclatante, finito in prima pagina, con funerale in pompa magna e parole contrite di figure meste ed ufficiali.
    Si viene maggiormente coinvolti dalle disgrazie di altri sfortunati, sorteggiati senza colpa alcuna da qualche malattia rara, una di quelle dal nome strano e terribile, quelle per le quali non esiste cura.
    Una malattia è considerata rara quando ha una prevalenza nella popolazione generale inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea definisce tale soglia 1 caso su 2000 abitanti e l’Italia si attiene a tale definizione.
    L’attenzione per le malattie rare a livello legislativo e amministrativo è relativamente recente. Questo perché il trattamento di una malattia rara, quando possibile, ha un costo per paziente molto più elevato di quello di una malattia comune e tende quindi a non essere mai inserito tra le priorità, a meno che la gravità della patologia o l’attivismo dei pazienti non la imponga all’attenzione.

    In pochi casi e per patologie particolarmente gravi solo la pressante attività di sensibilizzazione da parte dei pazienti e dei loro familiari ha prodotto grandi risultati. 
    Secondo tale arida interpretazione numerica, infortunarsi sul lavoro non è poi così raro, anzi vengono denunciati infortuni sul lavoro per un valore estremamente più elevato, i dati INAIL, pur parziali e non riferiti alla totalità dei lavoratori, indicano come l’infortunarsi sul lavoro sia non solo non raro, ma certo per un lavoratore ogni 15 o poco più della popolazione di addetti analizzata, ma anche uno ogni 2000 o 200 sarebbe un dramma. 
    Ma è un ragionamento diverso, nell’immaginario collettivo ha meno presa di quello delle malattie rare, questi infatti, se lo sono andati a cercare, lavorano e sanno che lavorando ci si fa male, o si muore. 
    È talmente certo che ciò sicuramente avvenga che una consistente fetta dello Stato se ne occupa, dodici mila addetti, tanti sono i dipendenti INAIL, con un Presidente, un Direttore Generale, direzioni centrali, venti direzioni regionali, duecentottantaquattro unità operative territoriali, un consiglio di amministrazione, un consiglio di indirizzo e vigilanza, un collegio sindacale, dodici miliardi di incassi e attivi a chiusura di bilancio da manovra finanziaria.
    Quindi tutto bene, è così che funziona.
    Il ministro del Lavoro e della politiche sociali, Elsa Fornero, nel corso del suo intervento in occasione della presentazione del Rapporto annuale INAIL 2011, ci ha spiegato che “sulla sicurezza non siamo in ritardo nel nostro paese”, sottolineando che questi principi richiedono “un radicamento diffuso della cultura della prevenzione”. Poi ha rassicurato quel lavoratore ogni 15 che si infortuna informandolo che “la sicurezza non è più vista dalle imprese come un mero onere, una mera incombenza, un gravame burocratico, ma è percepito ormai come un incentivo al lavoro e, dunque, un fattore essenziale di crescita, e che tutto questo necessita di una normativa aggiornata e coerente come lo è il Testo unico 2008, punto di riferimento essenziale per il Paese, che rende evidente come l’Italia, sotto il profilo normativo, non è in ritardo”. 
    Ma, ammette il ministro, “resta, tuttavia, la necessità di una effettiva applicazione e un costante monitoraggio grazie al continuo coinvolgimento dei soggetti coinvolti, soprattutto davanti a un mondo del lavoro in continuo cambiamento: realtà che cambia, di conseguenza, anche la natura del rischio”. 
    Ma guarda, potrebbero pensare quel poco meno di un migliaio di famiglie orfane che si sono aggiunte a quelle altrettante dell’anno prima, ma allora è proprio sfortuna, la sicurezza è incentivo alla crescita, le regole sono uno splendore, ma proprio da noi non sono state applicate e ne è mancato il controllo. 
    Nessuno alla presentazione di lettura dei dati ha detto cosa stessero facendo i controllori invece di controllare o, molto più probabile, se fossero in condizione di farlo, sia per numero che per strumenti. Od ancora se questo passaggio del Ministro avesse come obiettivo il rafforzare un progetto nemmeno tanto occulto teso a ridurli ulteriormente e passarne all’INAIL competenze e finanziamenti di scopo. 
    Il dato più tragico è però quello riguardante le malattie professionali, poco rare anche queste. E’ evidente come per i media buchi la pagina più un lavoratore che cada da un ponteggio e muoia, o rimanga schiacciato da un mezzo operativo o bruci in un incendio in azienda, piuttosto di un altro al quale lentamente una sostanza corroda i polmoni, gli avveleni il sangue o gli riempia di metastasi il corpo. Non c’è l’evento traumatico, muore in casa od in ospedale, con terribile agonia. Non fa notizia, fra la causa, la malattia e la morte passa tempo, a volte anni. Spesso non si riesce nemmeno a capire, a ricostruire per i famigliari il periodo di esposizione, il posto di lavoro incriminato o l’evento di esposizione scatenante. Non fa notizia, ma i morti da malattie professionali sono tantissimi, svariate volte più di quelli che muoiono di infortunio. E questi numeri sono tragicamente in aumento, secondo il Capo dello Stato si tratta di “un fenomeno che sta emergendo anche in virtù di una migliore sensibilizzazione sul tema e che merita la più attenta vigilanza considerata la natura spesso silente di patologie fatali”. 
    E poi ancora: tutti sappiamo, anche senza citare numeri o statistiche, che la base dai quali questi dati sono estrapolati è irrimediabilmente falsata dal mondo reale, quello che gira là fuori è un mercato del lavoro stravolto dalla cassa integrazione, dal lavoro nero, dalla sottodenuncia degli infortuni da parte di tutti quei lavoratori di piccole imprese nelle quali non esiste prevenzione, dove non viene svolta alcuna valutazione dei rischi, dove la scelta è lavorare così o non lavorare, dove denunciare un infortunio od essere iscritti alla CGIL può voler dire non essere riconfermati al termine di un contratto atipico, dove spesso l`infortunio viene trasformato dal padrone in malattia, aziende nelle quali un lavoratore, peggio se extracomunitario, è oggetto di ricatto, sicuramente di tipo contrattuale e salariale, ma altrettanto certamente è costretto ad accettare una riduzione dei suoi diritti, fra i quali quello alla salute. 
    Quindi questi trionfalismi, queste affermazioni roboanti basate su presupposti incompleti, anche quest’anno, ci lasciano la solita ed ineluttabile certezza che nulla è cambiato, che con questa organizzazione del lavoro ci si infortuna, ci si ammala, si muore. Dati noiosi, nè più nè meno che lo scorso anno. 
    (Aris Capra disegno di Guido Rosato)
  • Oli 355: ETICA – Dalle mine antiuomo al Latte Oro

    Negli anni ’70, ricordo, si ragionava sull’efferatezza degli imprenditori della Val Trompia che producevano mine antiuomo, commissionate da regimi forse totalitari, dittatori, che le spargevano laddove inermi famigliole, bambini che giocavano sui prati, donne che lavavano i panni in riva a torrenti ne erano poi vittime. E quindi gambe maciullate, braccia mozze, lunghe fila di croci o di qualsiasi indicatore di cadaveri seppelliti. Danni collaterali o forse no. Ci dissero le parti, tutte le parti, che in giro, da qualche parte del mondo le mine le avrebbero comunque costruite, che ci saremmo trovati in una strana posizione, che con la nostra posizione esclusivamente etica avremmo portato alla crisi lavoratori di un settore in difficoltà, così come quei loro colleghi che producevano pistole per le forze armate americane: guai a fermarli. O i produttori di fucili che grazie alla notevole dimensione di un hobby nazionale, per altro fortemente incentivato a tutti i livelli dalle lobby di riferimento, produceva un benessere trasversale, oggetto di evidente voto di scambio di diverso colore.

    A certi livelli però una scelta era possibile. Ricordo infatti che qualche campionato mondiale di calcio fa, si diffuse una parola d’ordine in tutto il mondo civilmente etico: non si sarebbero dovuti comperare od utilizzare i palloni da calcio rappresentativi della manifestazione, in quanto cuciti, firmati e prodotti da lavoratori bambini del Bangladesh. Il movimento di opinione che ne adottò lo slogan, senza incertezze attraversò in un lampo il mondo: nessuno avrebbe mai comperato palloni eticamente così mal prodotti. Accidenti, saremmo scesi in piazza per garantire a quegli sconosciuti bambini del delta del Gange, oltretutto probabili futuri oggetti sessuali di pallidi e pingui pedofili europei, che non avremmo comperato i loro palloni, strumento di sfruttamento e di prevaricazione. Un bambino a quella età non deve che vivere felice, giocare con i suoi consimili, restare la sera in famiglia, andare a scuola, vedere BarbaPapà la sera alla televisione e, dopo Carosello, andare a nanna.
    Ma l’etica è un pasticcio soggettivo, con principi che di volta in volta sono frutto di mediazione fra le parti: dipendono da rapporti di forza, da potere contrattuale esercitato od impedito.
    Oggi un vescovo della chiesa americana non potrebbe più battezzare in modo beneaugurale le bombe piene di Agent Orange da scaricare in Vietnam, ed oltretutto come diossina noi siamo già a posto con quanto diffuso generosamente dalla industria italiana, il caso Taranto insegna. Certo, è difficile applicare principi di etica commerciale al prodotto acciaio: come esercitare la scelta di non comperare un prodotto costruito con acciaio non eticamente prodotto? La filiera di riferimento è certamente inquinata dai prodotti extranazionali, extraeuropei.
    Certo forse è più eticamente problematico prendere posizione su eventi internazionali che ci vedono coinvolti come Stato: i due militari che sparano ed uccidono pescatori nell’Oceano Indiano, credendoli pirati, avevano licenza di uccidere o meno? Ricordo empo addietro Messina Jr. che in un convegno rivendicava, per conto di Confitarma, il diritto ad essere protetto, durante il percorso più economico possibile delle merci da lui trasportate; anzi lui parlava di militarizzare i suoi equipaggi, dotandoli, forse, in qualche misura, di armi e sistemi di deterrenza. E giù quasi tutti ad applaudire, meno solo noi di Cgil, forse profeti di sventura, persi ad immaginare il bambino pakistano o il pescatore indiano travolti come danni collaterali, scenari improbabili ma possibili, tragicamente manifestatisi.

    A questo punto ci potremmo chiedere perché dovremmo continuare a comperare eticamente un pack di Latte Oro; ci hanno preso in giro, noi consumatori e certamente i lavoratori, Anzi, ex-lavoratori. Dopo la grande truffa ci hanno convinti a progettare percorsi di sviluppo, ad immaginare crescita od almeno mantenimento di occupazione, quando l’obiettivo era semplicemente di chiudere per meglio creare mercato. Ma perbacco, avevano promesso mercato, marchio, mantenimento e supporto della filiera e dell’occupazione, ed invece tutto si è risolto nella chiusura dell’azienda, con l’impedimento ad essere sostituiti da concorrenti, e con l’unico certo risultato di una drastica, immediata e fisica estrusione dal posto di lavoro.
    Anzi la campagna promozionale del marchio, da quel momento è rappresentata da un brutto slogan, su grandi manifesti in giro per Genova sui quali si legge che “Oggi il Latte Oro costa meno.”
    Ecco, a differenza delle mine antiuomo, posso non comperare il Latte Oro, posso esercitare una scelta etica. Quell’azienda, nata sulle ceneri di una grandissima truffa di stato, non merita il mio euro o poco più, perché non ha rispettato le promesse, ha garantito un processo con una serie di esche truffaldine, non dissimili da un verme finto che metti sull’amo, preda di un pesce affamato e necessariamente portato a credere a quanto spera di vedere. Ma noi abbiamo ancora, nonostante questi momenti bui quasi eticamente medioevali, leggi, norme, alcune belle e moderne. Pensiamo alla Legge 300 del 1970, quella che molti chiamano “Statuto dei Lavoratori”. Quello è stato ed è un grande e bilanciato accordo fra le parti, “l’accordo sull’organizzazione del lavoro, la condivisione dei ruoli e delle parti”, da cui tutto nasce e viene rivendicato. Da cui si sviluppano le leggi moderne, i Contratti nazionali, le contrattazioni locali. E’ grazie allo sviluppo di questa pletora di articoli e commi che localmente si garantisce il fluidificare di accordi locali, di categoria, di azienda. A fronte di profitto e, spesso, di sudore e sangue. Non è una drammatizzazione, mille morti più o meno ogni anno, cosi come avviene, dati alla mano, nella sommatoria del farsi male nelle aziende italiane, naturalmente oltre gli ammalati, gli intossicati, i cancerosi, i morti in nero, quelli sconosciuti ai più ed alle statistiche ufficiali e politicamente corrette. Bene, una grande azienda italiana che produce auto, non splendide auto ma questa è altra storia, che non rispetta gli accordi fra le parti, che vanifica la Legge 300, che disconosce le organizzazioni sindacali a lei non suddite, è diversa da quella che fa costruire palloni da calcio in Bangladesh dai bambini? Perché, crisi permettendo, devo comperare una auto con quel marchio? In qual misura posso rivendicare il mio diritto al manifestare il mio, soggettivo ed unico, punto di vista etico e smettere di comperare il latte da chi mi ha preso in giro? Eticamente il “diritto” ha un valore alfanumerico? Posso determinare quale livello di prevaricazione sono in grado di accettare come consumatore prima di interrompere una sequenza di azioni, una scelta di acquisto indirizzata verso un marchio invece che un altro? Non compero mine antiuomo, palloni prodotti da bambini, non cambio auto perché spero che la mia vada avanti ancora trent’anni, ma almeno il latte, dai, lo compero da qualche altro, meglio filiera corta, ma certamente non quello di una azienda che mi ha preso in giro, raccontandomi tante balle ed ottenendo finanziamenti pubblici, sconti di pena, concordati fiscali alla faccia mia, su questo tema sono finalmente in grado quindi di manifestare appieno il vero valore del mio concetto di etica, perché ormai i lavoratori sono stati licenziati, nessuno ci perde niente, meglio o peggio di così?  
    (Aris Capra – immagini da internet)

  • OLI 353 – LAVORO E SICUREZZA: Il ruggito del coniglio

    Questa storia è apparsa sul n. 35 di La Rassegna Sindacale, il settimanale della Cgil. D’accordo con l’autore abbiamo pensato di condividerla con i lettori di OLI
    Nell’immaginario collettivo il padrone cattivo è quello che ti uccide con i suoi fumi tossici, quello che ti spezza la schiena facendoti trasportare a spalla i sacchi di cemento, quello che ti lascia cadere da un ponteggio fuori norma o quello che ti costringe a guidare un camion per 18 ore e che ti porta a schiantarti contro un cavalcavia in autostrada. In effetti è il tuo scarso potere contrattuale che lo permette, ed il fatto di essere parte di una attività lavorativa di piccola dimensione non aiuta: l’impossibilità di manifestare i tuoi diritti, per altro veramente ridotti sempre più all’osso, in un mercato della forza lavoro pieno di contraddizioni e di fame, affogato in una crisi in continua evoluzione, senza prospettive di futuro, sperando solo che accettando il lavoro a rischio tu possa starne fuori ancora un poco, magari sino alla fine. A volte il potere di chi il coltello lo tiene per il manico si manifesta in ambiti che fanno veramente gridar vendetta, anche in ambiti dove tradizionalmente il rischio non è elevato, laddove il potere in se è l’oggetto del contendere, il potere per il piacere di esercitarlo. Si presenta allo Sportello Sicurezza di Genova una lavoratrice per chiedere informazioni ed aiuto, impiegata in un ufficio amministrativo in una azienda con una decina di addetti. Il datore di lavoro è in sede con loro e con lui moglie e figlia. Mentre mi descrive il suo problema osservo un diffuso rash cutaneo, tipo morbillo, su braccia e collo, ha il viso e la fronte gonfi e arrossati. Mi chiede aiuto, anzi conforto e mi spiega che un paio di anni or sono, la figlia del suo datore di lavoro aveva comperato un coniglio, uno di quelli da compagnia, da tenere in giro per casa, ed aveva incominciato a portarselo in ufficio, libero di andare in giro fra scrivanie e server. Di lì a poco incominciarono a manifestarsi i primi segni di una reazione allergica, come quella in opera al momento, ma dopo un paio di giorni di mutua la sua richiesta di allontanarlo venne accolta e il coniglio venne riportato a casa. Benché le manifestazioni allergiche più evidenti cessassero, da allora la lavoratrice incominciò a riconoscersi intollerante a vari alimenti e sostanze. La causa scatenante era stata eliminata, ma era stata innescata una sequenza di sintomi poco piacevoli, non più direttamente collegati, pustole, bruciori e pruriti agli occhi, frequenti starnuti ed altro. Alcuni giorni fa, prosegue nella descrizione la lavoratrice, il coniglio è riapparso, la simpatica famiglia ha fatto sapere che è stato trasferito definitivamente in ufficio, in quanto a casa rosicchia i mobili e sporca. Il risultato è che ora si mangia i mobili dell’ufficio, i faldoni di documenti, lascia ciuffi di pelo ed escrementi sotto le scrivanie, in quanto è libero di girare come e dove e più gli aggrada. Alla lavoratrice rispuntano le manifestazioni allergiche e non le resta che tornare dal medico che, invece di inviarla ad una specifica visita allergologica, le prescrive un paio di giorni di riposo ogni volta per ridurle le manifestazioni. Alla richiesta specifica di allontanamento dell’animale le viene, dalla simpatica famigliola amante degli animali, indicato l’ordine di priorità: prima il coniglio e solo dopo lei. Se l’animaletto tanto caro non le piace, può andarsene. Dispiace che, in questo caso come tante altre volte, non vi siano spazi di contrattazione, certo le abbiamo consigliato visite specialistiche per, a futura memoria, avere traccia e poter fare rivalsa, le abbiamo parlato di rischio biologico, le abbiamo proposto una serie di percorsi formali, le abbiamo garantito, qualora volesse, un intervento nostro o di qualche organismo di controllo, le abbiamo proposto di mangiarsi il coniglio, o di aspettare che incominciasse a rosicchiare i fili elettrici in tensione od ancora di lasciar aperta la porta del giro scale. Ci abbiamo anche riso sopra, ma in effetti ambedue sapevamo che avrebbe dovuto tenersi coniglio ed allergia, almeno sino alla fine della crisi, sino all’ affacciarsi di un nuovo posto di lavoro. Così come quel suo collega che nel cantiere rischia sul ponteggio o respira diossina, certo nell’ottica che il diritto al lavoro sia subalterno al diritto alla salute. Sempre, diritto costituzionale, se hai il potere contrattuale per poterlo pretendere.
    (Aris CapraResponsabile Sportello Sicurezza CDLM Genova – disegno di Guido Rosato)