La consuetudine annuale della diffusione dei numeri d’infortuni sul lavoro avvenuti, coinvolge poco o niente gli italiani, che vengono assaliti da una noia abissale, risentendone parlare e riparlare anno dopo anno, sempre nello stesso modo, dalle stesse istituzioni e le stesse persone, con gli stessi aggettivi e modalità. Nulla di nuovo. Lavorando con questa organizzazione del lavoro, questo insieme di regole, questo sistema di vigilanza, questa crisi e questo mercato in avanzato stato di decomposizione ci si infortuna, ci si ammala e, spesso, si muore. Se ne parla tutti gli anni e nello stesso modo. Quest’ultima tornata di dati, seppure dichiaratamente incompleti, è in effetti parte di una sfocata fotografia di un tempo di crisi, con code di cassaintegrati a sbrigare pratiche che si propongono per lavori in nero e sottopagati, assieme ai loro ex colleghi esodati, o disoccupati o inoccupati (brutti termini entrati nel nostro lessico giornaliero), travolti da disastri alluvionali e terremoti, stravolgimenti climatici e abbandono a se stesso di un territorio alienato da sciagurate politiche industriali.
È terribile pensare che chi legge i dati o chi ne senta semplicemente parlare li affronti come ineluttabili, e che tutto sommato si aspetti semplicemente ed inevitabilmente una lista di numeri. Non c’è sorpresa o indignazione, bensì una sorta di rassegnazione, una presa d’atto che di lavoro si muore, si deve morire, perché è così che vanno le cose, è il costo del lavoro e a qualcuno spetta ed è toccato anche quest’anno. Poi leggendo meglio i dati locali, sovviene di un evento particolare, quello vicino o quell’altro particolarmente eclatante, finito in prima pagina, con funerale in pompa magna e parole contrite di figure meste ed ufficiali. Si viene maggiormente coinvolti dalle disgrazie di altri sfortunati, sorteggiati senza colpa alcuna da qualche malattia rara, una di quelle dal nome strano e terribile, quelle per le quali non esiste cura. Una malattia è considerata rara quando ha una prevalenza nella popolazione generale inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea definisce tale soglia 1 caso su 2000 abitanti e l’Italia si attiene a tale definizione. L’attenzione per le malattie rare a livello legislativo e amministrativo è relativamente recente. Questo perché il trattamento di una malattia rara, quando possibile, ha un costo per paziente molto più elevato di quello di una malattia comune e tende quindi a non essere mai inserito tra le priorità, a meno che la gravità della patologia o l’attivismo dei pazienti non la imponga all’attenzione.
In pochi casi e per patologie particolarmente gravi solo la pressante attività di sensibilizzazione da parte dei pazienti e dei loro familiari ha prodotto grandi risultati.
Secondo tale arida interpretazione numerica, infortunarsi sul lavoro non è poi così raro, anzi vengono denunciati infortuni sul lavoro per un valore estremamente più elevato, i dati INAIL, pur parziali e non riferiti alla totalità dei lavoratori, indicano come l’infortunarsi sul lavoro sia non solo non raro, ma certo per un lavoratore ogni 15 o poco più della popolazione di addetti analizzata, ma anche uno ogni 2000 o 200 sarebbe un dramma.
Ma è un ragionamento diverso, nell’immaginario collettivo ha meno presa di quello delle malattie rare, questi infatti, se lo sono andati a cercare, lavorano e sanno che lavorando ci si fa male, o si muore.
È talmente certo che ciò sicuramente avvenga che una consistente fetta dello Stato se ne occupa, dodici mila addetti, tanti sono i dipendenti INAIL, con un Presidente, un Direttore Generale, direzioni centrali, venti direzioni regionali, duecentottantaquattro unità operative territoriali, un consiglio di amministrazione, un consiglio di indirizzo e vigilanza, un collegio sindacale, dodici miliardi di incassi e attivi a chiusura di bilancio da manovra finanziaria.
Quindi tutto bene, è così che funziona.
Il ministro del Lavoro e della politiche sociali, Elsa Fornero, nel corso del suo intervento in occasione della presentazione del Rapporto annuale INAIL 2011, ci ha spiegato che “sulla sicurezza non siamo in ritardo nel nostro paese”, sottolineando che questi principi richiedono “un radicamento diffuso della cultura della prevenzione”. Poi ha rassicurato quel lavoratore ogni 15 che si infortuna informandolo che “la sicurezza non è più vista dalle imprese come un mero onere, una mera incombenza, un gravame burocratico, ma è percepito ormai come un incentivo al lavoro e, dunque, un fattore essenziale di crescita, e che tutto questo necessita di una normativa aggiornata e coerente come lo è il Testo unico 2008, punto di riferimento essenziale per il Paese, che rende evidente come l’Italia, sotto il profilo normativo, non è in ritardo”.
Ma, ammette il ministro, “resta, tuttavia, la necessità di una effettiva applicazione e un costante monitoraggio grazie al continuo coinvolgimento dei soggetti coinvolti, soprattutto davanti a un mondo del lavoro in continuo cambiamento: realtà che cambia, di conseguenza, anche la natura del rischio”.
Ma guarda, potrebbero pensare quel poco meno di un migliaio di famiglie orfane che si sono aggiunte a quelle altrettante dell’anno prima, ma allora è proprio sfortuna, la sicurezza è incentivo alla crescita, le regole sono uno splendore, ma proprio da noi non sono state applicate e ne è mancato il controllo.
Nessuno alla presentazione di lettura dei dati ha detto cosa stessero facendo i controllori invece di controllare o, molto più probabile, se fossero in condizione di farlo, sia per numero che per strumenti. Od ancora se questo passaggio del Ministro avesse come obiettivo il rafforzare un progetto nemmeno tanto occulto teso a ridurli ulteriormente e passarne all’INAIL competenze e finanziamenti di scopo.
Il dato più tragico è però quello riguardante le malattie professionali, poco rare anche queste. E’ evidente come per i media buchi la pagina più un lavoratore che cada da un ponteggio e muoia, o rimanga schiacciato da un mezzo operativo o bruci in un incendio in azienda, piuttosto di un altro al quale lentamente una sostanza corroda i polmoni, gli avveleni il sangue o gli riempia di metastasi il corpo. Non c’è l’evento traumatico, muore in casa od in ospedale, con terribile agonia. Non fa notizia, fra la causa, la malattia e la morte passa tempo, a volte anni. Spesso non si riesce nemmeno a capire, a ricostruire per i famigliari il periodo di esposizione, il posto di lavoro incriminato o l’evento di esposizione scatenante. Non fa notizia, ma i morti da malattie professionali sono tantissimi, svariate volte più di quelli che muoiono di infortunio. E questi numeri sono tragicamente in aumento, secondo il Capo dello Stato si tratta di “un fenomeno che sta emergendo anche in virtù di una migliore sensibilizzazione sul tema e che merita la più attenta vigilanza considerata la natura spesso silente di patologie fatali”.
E poi ancora: tutti sappiamo, anche senza citare numeri o statistiche, che la base dai quali questi dati sono estrapolati è irrimediabilmente falsata dal mondo reale, quello che gira là fuori è un mercato del lavoro stravolto dalla cassa integrazione, dal lavoro nero, dalla sottodenuncia degli infortuni da parte di tutti quei lavoratori di piccole imprese nelle quali non esiste prevenzione, dove non viene svolta alcuna valutazione dei rischi, dove la scelta è lavorare così o non lavorare, dove denunciare un infortunio od essere iscritti alla CGIL può voler dire non essere riconfermati al termine di un contratto atipico, dove spesso l`infortunio viene trasformato dal padrone in malattia, aziende nelle quali un lavoratore, peggio se extracomunitario, è oggetto di ricatto, sicuramente di tipo contrattuale e salariale, ma altrettanto certamente è costretto ad accettare una riduzione dei suoi diritti, fra i quali quello alla salute.
Quindi questi trionfalismi, queste affermazioni roboanti basate su presupposti incompleti, anche quest’anno, ci lasciano la solita ed ineluttabile certezza che nulla è cambiato, che con questa organizzazione del lavoro ci si infortuna, ci si ammala, si muore. Dati noiosi, nè più nè meno che lo scorso anno.
(Aris Capra – disegno di Guido Rosato)
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