Categoria: crisi

  • OLI 381: INFORMAZIONE – Microcronache dalla Grecia, la ERT / 2

    Atene, striscione sulla sede della ERT: la ERT è e resterà aperta

    Chiamo Atene, sotto l’emozione della chiusura della rete televisiva pubblica ERT, per raccogliere le reazioni di un amico.
    Mi attendo preoccupazione e indignazione, invece trovo una presa d’atto disincantata.
    Guarda, mi dice, che la ERT è stata, come tutto il settore pubblico in Grecia, un grandissimo serbatoio clientelare. Ci lavora il triplo di quelli che lavorano per la BBC.
    Informazione vera e di qualità non ne ha mai fatta, è stata solo la voce dei partiti di volta in volta dominanti.
    A Tutta la città ne parla su Radio 3 questa mattina un esponente del Pasok dice che la ERT non andava certo chiusa con un colpo di mano, ma riformata, razionalizzata: era nell’agenda politica procedere in questo senso.
    Ma l’amico mi dice che sono anni che questo viene detto, e mai fatto, e che mai si sarebbe potuto fare senza forzature, perché le resistenze interne ed esterne erano invincibili.
    Skype mi permette di raggiungere un altro amico al Pireo, nei saloni di una mostra d’arte, dove ha esposto alcune sue opere. Mi dice che la ERT era una fonte incredibile di spreco e clientelismo, ma che chiuderla d’imperio con un colpo di mano è un fatto gravissimo, è fascismo. Aggiunge: è una prova generale di quel che si potrà fare anche in altri Paesi.
    In queste ore le trasmissioni, per iniziativa dei giornalisti, proseguono attraverso internet. O vengono ospitati da canali stranieri.
    Il mio amico manifesta la sua inquietudine. Dice che è stato un errore lo sciopero dichiarato da una parte dei giornalisti: per chi fa informazione ora è il momento di lavorare più che mai, in qualunque condizione.
    Con lui è un’altra mia grandissima amica. Mi dice: le trasmissioni non si sono interrotte nemmeno durante la guerra. In queste ore girano i documenti d’archivio: è anche una grande questione culturale. Un patrimonio custodito nell’archivio storico che rischia di andare perduto.
    Attraverso la web cam gli amici mi portano a visitare le opere esposte nei grandi, asettici, bianchi locali di questi spazi espositivi allestiti nei locali di una vecchia fabbrica dismessa. Questa è un’oasi, mi dicono, fuori c’è il caos. La cultura si sta frantumando. Ne trovi tracce sempre più deboli. Si perde ormai la qualità nella musica, nella danza, nel cinema. Ci sono solo isole di resistenza.
    La ERT on line si può seguire a questo indirizzo:
    http://www3.ebu.ch/cms/en/sites/ebu/contents/news/2013/06/monitor-ert-online.html
    Molto spesso viene offerta anche la traduzione in italiano di quel che viene detto.
    (Paola Pierantoni – Immagine da internet)


  • OLI 380: ILVA – Genova, Bondi e la banda

    “Ilva. L’assemblea in fabbrica è stata tesa, per poco non si usciva in strada, aspettiamo mercoledì”, Rocco Genco, Fim, al Corriere Mercantile di Genova 2 giugno.
    Nel merito, impressioni dissonanti: a molti è parso che l’assemblea – indetta da Fim e Uilm il 31 maggio, durata poco meno di un’ora – fosse di carattere informativo con reazioni di pacata, affranta consapevolezza. Della serie: aggiornamento bollettino di guerra, alla voce perdite.
    Infatti il sindacalista ha toccato nervi storicamente scoperti dello stabilimento genovese a favore di un’analisi locale della partita ILVA, comunque nota a tutti i dipendenti del sito di Cornigliano (1742 di cui 1145 lavoratori in Contratto di Solidarietà)
    Fim e Uilm hanno incontrato Enrico Martino, capo del personale dell’azienda, nel momento più difficile – quando di fatto era acefala, dal 25 maggio al 4 giugno – per “incalzarla” e capire “se la crisi di lavoro che abbiamo è dovuta ad un mercato che non siamo in grado di aggredire oppure all’approvvigionamento tarantino…”. Non si vorrebbe che l’azienda “penalizzasse Genova e favorisse altri siti…”
    E’ stato confermato in assemblea che la crisi siderurgica genovese poco ha a che fare con le vicende dell’Ilva di Taranto. Deriva invece da scelte strategiche della famiglia Riva che sulla banda – stagnata s’intende – ha deciso di non investire affatto.
    Un mercato quello di latta, grette e tappi a corona che in Italia vede come unico produttore proprio lo stabilimento di Genova e che ad oggi colloca circa 400 addetti. La scelta di rinunciare a questo settore strategico si è concretizzata negli anni, investendo solo “nella monocultura dello zincato”, in crisi anche quella.
    Assemblee a parte, è noto da tempo che Riva ha rinunciato a un mercato nazionale di 700 – 800.000 tonnellate di banda, costringendo il potenziali clienti a rivolgersi a fornitori europei. Nel paese delle conserve alimentari siamo al miracolo della strategia industriale.
    Nel 2012 Cornigliano ha prodotto, con impianti vecchi, poco meno di 100.000 tonnellate di stagnato a fronte di una capacità produttiva di 300.000.
    La ragione? La svolta sull’Accordo di Programma con la rinuncia al nuovo impianto di stagnatura elettrolitica che aveva un obiettivo produttivo 710.000 tonnellate di latta.
    Tra commissariamenti, bonifiche, magistrati, ministri, a Genova nei sindacati si è tornati a discutere dei prodotti, con la scoperta recente che del milione e settecentomila tonnellate di materiale sequestrate a novembre dalla magistratura e poi dissequestrate nello stabilimento di Taranto solo “quattromila” erano destinate ad essere lavorate a Genova. E’ possibile?
    Quindi di cosa stiamo parlando?
    Il mantra rimane il solito: vocazione industriale, occasioni perse, tecnologia, investimenti, lavoro, salario, occupazione, ammortizzatori sociali. E forse, proprio da oggi, con Enrico Bondi commissario e la firma del  nuovo decreto siamo davanti ad uno scenario nuovo: la speranza di una vera bonifica a Taranto, accompagnata da uno sguardo d’insieme che consideri Ilva una filiera, e che non metta in competizione gli stabilimenti del gruppo l’uno contro l’altro.
    Che Bondi la mandi buona, a Genova per la produzione di banda, oggi, non rimangono che i Blues Brothers.
    (Giovanna Profumo)

  • OLI 380: GRECIA – Micro-cronache da una crisi / 1

    Ikaria. A mattina inoltrata i tavolini del piccolo caffè sono ancora vuoti. Parliamo con un giovane amico che vive di musica e del poco che gli dà, una volta pagato l’affitto, un esercizio commerciale, emporio di generi di prima necessità di un villaggio abbastanza isolato, e insieme caffè e punto di ritrovo dei pochi abitanti, e dei turisti di passaggio, d’estate.
    L’argomento è la crisi, tema su cui si cade immediatamente quando si parla con le persone di qui, e sfondo sonoro continuo, se per caso c’è un apparecchio televisivo acceso.
    Cerchiamo di sostenere con lui le ragioni del rimanere in Europa, ma l’unico altro avventore, un anziano signore seduto vicino a noi, interviene quietamente dicendo: “Avevo una pensione di 1300 euro, ora me ne danno 900. Ecco cosa mi è restato dopo 45 anni di lavoro”.
    Pochi giorni dopo, un’amica ateniese ci informerà che sono in arrivo altri tagli, che si sommeranno ai precedenti e colpiranno anche le pensioni minime, qui di 450 euro mensili, a cui verranno tolti 25 euro, e poi a crescere.
    A queste condizioni non c’è spazio per discutere. Ogni speranza, ogni ipotesi è stata tagliata. Notizie come un lieve miglioramento del rating, o promesse di ripresa nel 2015 non vengono nemmeno commentate.
    Ci dicono: aspettano di comprarci, che ci vendiamo tutto, per disperazione.

    Conosciamo qui un anziano signore, è stato professore di letteratura francese al liceo e all’università di Atene. Conosce diverse lingue, tra cui l’italiano. Ha all’attivo traduzioni e diversi saggi. Gli argomenti variano dalla storia dell’occupazione italiana nell’isola di Ikaria durante la guerra, alle opere e biografie dei rappresentanti del filellenismo francese.
    Leggere, corrispondere con un’amica lontana sono da anni le sue risorse. Ora sta perdendo la vista, ma l’intervento chirurgico di cui avrebbe bisogno è impossibile ottenerlo da una struttura pubblica, e farlo privatamente costa duemila euro, cosa che la sua pensione, tagliata come sopra, non permette.
    Tutte le volte che lo incontriamo in paese il discorso torna sempre lì.

    “Qui, nell’isola, le cose vanno un po’ meglio. Qui non c’è la fame”. Te lo dicono tutti, qui, e va inteso in senso letterale. Ci sono gli orti, che danno patate, pomodori, zucchini, melanzane, fagioli, zucche, peperoni, cipolle. Ci sono il maiale e l’agnello, al singolare, che fatti a pezzi e surgelati forniscono la carne per tutto l’anno. Ci sono le galline con le uova, e i conigli, che danno anche il letame per l’orto. Ma stipendi e pensioni fatti a pezzi non permettono altro. Anche un impiego apparentemente sicuro, come un posto d’insegnante nella scuola professionale dell’isola, è diventato incerto: non si sa cosa vorranno fare di questa scuola. Forse toccherà andar via. L’ospedale, unico dell’isola, lo vogliono chiudere, e si infittiscono manifestazioni per tentare di difenderlo. La sanità, l’università per i figli, finire di sistemare la casa sono diventati obiettivi al di là del confine. C’è chi per avere una diagnosi dovrebbe fare una biopsia. Aspetterà un anno. Per farla privatamente i soldi non ci sono. Tutto è fermo. Anche andare e venire da Atene all’isola è diventata questione di calcoli attenti: i 35 euro del biglietto, il doppio almeno per l’automobile, sono costi che non ci si può più permettere con leggerezza.
    Ci dicono: meno male che questo inverno è stato mite, abbiamo acceso il riscaldamento solo due volte, altrimenti con quel che è aumentato il petrolio come potevamo fare?
    (Le cronache continueranno nei prossimi Oli)

    Informazione: un documentario sull’isola di Ikaria verrà proiettato sabato 8 giugno alle 18.30 al Cinema Sivori, nell’ambito della rassegna “CINEA – Il filo di Gaia – Cinema ed educazione alla sostenibilità ambientale”. Dal programma di sala leggiamo che narra la storia di  un giovane disoccupato ateniese che ha lasciato la città per trasferirsi a Ikaria, per lavorare nell’apicultura, scoprendovi una comunità che sopravvive grazie a una particolare cultura incentrata sull’autonomia e la cooperazione.
    (Paola Pierantoni –  Foto dell’autrice)

  • OLI 376: TEATROGIORNALE – Un postino sull’orlo di una crisi di nervi

    X IL POSTINO:
    NON CIO UN EURO
    RIPRENDILA, SE TI CHIEDONO
    QUALCOSA, NON MI HAI VISTO!

    Da blizquotidiano.it: Caro bollette: i prelievi “parafiscali” valgono tre Imu

    Giovedì mattina, Via San Luca, Genova. Arrivo con il mio motorino bianco, la mia giacca gialla, il mio casco, la mia borsa. Sento il peso degli sguardi oltre le vetrine, le preghiere che mormorano a labbra strette. Sento il silenzio che si crea quando mi fermo. Le occhiate furtive dietro il bancone o un paio d’occhi persi nel vuoto. Quando ero al liceo anch’io facevo così durante le interrogazioni: per paura di sentire il mio nome facevo finta di non esistere, smettevo di respirare.
    Cosa sono diventato? Un avvoltoio, no, io non mi cibo dei cadaveri. Alcuni non lo sanno cosa vuol dire il mio arrivo, credono che io sia il piccione viaggiatore e mi accolgono sorridendo:
    – Ehi Gianni, come va oggi? Tutto bene?
    E io non voglio deluderli e quindi sorrido e con non-chalance gli porgo la raccomandata da firmare. E’ la prima, poi ci sarà una seconda, una terza, infine arriverò con mazzette da cinque, sette raccomandate per volta. E smetteranno di sorridermi e io entrerò scusandomi perché ormai mi avranno riconosciuto per quello che realmente sono: un messaggero di sventura.
    Dovrei arrivare su una Harley nera, coi teschi sul giubbino, dovrei avere una falce disegnata sull’elmo, non una PT.
    – Ancora qui?
    Mi chiede sarcastica una ragazza bionda, sarà lei la prossima a tirare giù la saracinesca.
    Quando saranno abbassate tutte le serrande da chi andrò?
    Voglio tornare ad essere una colomba: voglio portare lettere profumate, auguri in carte decorate.
    Le donne sono sempre le più toste, fino all’ultimo cercano una soluzione:
    – Se rateizzo la bolletta del gas magari ce la faccio, se licenzio tutti i miei collaboratori magari ce la faccio, se Equitalia non si fa sentire il prossimo mese magari ce la faccio, se mi pagano i crediti due o tre clienti magari ce la faccio, se tolgono l’IMU magari ce la faccio…
    Come se l’Imu fosse il problema, come se la rateizzazione fosse la soluzione e come se Equitalia potesse sparire chiudendo gli occhi.
    Le donne stringono i denti credendo di poter affrontare quel mostro senza nome che le porta via tutto, gli uomini si rassegnano prima e vanno al bar a giocare alle macchinette.
    Io vi ho visto nascere, crescere e morire. Conosco tutto di voi, chi siete, chi amate, i vostri bambini, i vostri peccati ma una volta chiusi non vi potrò più ritrovare. Molti stanno partendo, ritornano in Senegal, Brasile, Marocco, Egitto. Dove andrete non ci sarà più il Gianni, con la sua motoretta bianca, il suo casco, la giacchetta e ne sarete felici. Un incubo lui nonostante.
    Forse non dovrei fermarmi, forse dovrei andare avanti. Forse non dovrei rendermi complice anch’io di questo suicidio di stato. Scusate, l’angelo della morte dà le dimissioni, trovatevi un altro gufo.
    Il postino Gianni non si fermò davanti alla libreria, non si fermò davanti al rivenditore di sigarette elettroniche, non si fermò davanti al rivenditore di caffè di via del Campo, andò dritto fino a porta dei Vacca e lì non vide il semaforo rosso.
    (Arianna Musso – foto da internet)

  • OLI 375: SOCIETA’ – Crimini, suicidi e anomia ai tempi della crisi

    Capita di essere sommersi da sensazioni, profumi o ricordi; oggi mi è capitato con un parola: anomia.
    Mi ha rimbombato nella testa come soluzione o spiegazione, non saprei, della condizione di questo momento.
    Anomia come insoddisfazione e ricerca di “alternative” (anche criminose/illecite?) per porre fine alla mancanza di obiettivi raggiunti. O irraggiungibili.
    Ma se la riuscita sociale è così in crisi, cosa si può fare affinché la riuscita personale ne esca in qualche modo soddisfatta?
    Durkheim parlava di anomia prodotta da indeterminatezza degli obiettivi; ma questo vortice di orizzonti possibili si è schiantato lontano da qui, producendo un unico orizzonte, finito, limitato e paurosamente sovraffollato.
    La prospettiva che immaginava Durkheim era una crescita dei suicidi nei momenti di crisi: l’Istat arriva in aiuto sottolineando che: “nel 2012 sono stati registrati 3048 suicidi, di cui 1412 per malattia, 324 per cause affettive e solo (aggiungo io) 187 per motivi economici. Cifre inferiori rispetto all’anno precedente, quando su 2986 casi, 198 erano dovuti a ragioni finanziarie”, e che quindi no, non è la crisi economica a spingere al suicidio. E che il suicidio non è, in ogni modo, la soluzione alla crisi. Sociale, personale o economica.
    Mi rimane entrare nella prima prospettiva e perseguire con fini illeciti la scalata al successo? Sebbene comportamenti di questo tipo dovrebbero essere riconducibili a individui degli strati sociali più bassi, senza cultura e senza mezzi per conquistare un posto al sole. Un tempo una famiglia economicamente stabile, una laurea ed essere nati nell’emisfero ricco del mondo erano condizioni vantaggiose.
    Sembra che ci si sia appiattiti verso il basso, e che anche i mezzi illeciti scarseggino, o che siano prerogativa di chi ha già molto e voglia semplicemente di più.
    (Bice Pollastri)
  • OLI 352: LAVORO – Al circolo Zenzero, se gli operai diventano fantasmi

    A Genova le uniche attività in crescita sono le palestre e gli esercizi che vendono bevande e tramezzini. Le grandi aziende cittadine – il porto da tempo fa storia a sé – sono la sanità (ospedali e ambulatori), Comune, Regione e quel che resta della Provincia. Quando si parla di fabbriche, Ilva, Fincantieri, Latte Oro e simili, la parola d’ordine è “salvare” che vuol dire che stanno annegando. I loro dipendenti, operai e impiegati, non hanno voglia di finire sott’acqua e per questo manifestano in modo più o meno clamoroso ma basta vederli sfilare per capire che non sanno a che santo votarsi. Il “padrone” pubblico o privato, carte alla mano invoca “l’oggettività” della sua crisi che – sostiene – trarrebbe origine da vicende che si svolgono sempre più lontano dal luogo dove sorge la fabbrica. Altri paesi e altri operai che si trovano a migliaia di km, gruppi finanziari con nomi esotici, irriconoscibili. I protagonisti di questa penosa vicenda, in particolare gli operai, non sono degli ingenui. Sanno benissimo che il mondo globale, trasformato in unico grande mercato, produce fatalmente il genere di congiuntura che oggi li travolge. Pensano anche che sarebbe necessario fare qualcosa: che le banche, le aziende e, perché no, i sindacati, i centri di cultura dovrebbero interrogarsi su quello che sta succedendo, fronteggiarlo o almeno cercare di porre le basi per risolvere domani quello che oggi costringe alla difensiva, a pensare a “salvarsi”. Invece di tutto questo non succede niente. E se qualcuno cerca di parlarne, di approfondire, gli occhi si alzano al cielo, come se solo lassù potesse trovarsi la soluzione. In controtendenza va il libro di Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari, 2012. Gallino, professore universitario, studioso di profilo internazionale e protagonista della sociologia industriale italiana fin dagli anni Cinquanta, a partire dal 2000 ha dedicato almeno una decina di titoli al tema della globalizzazione e ai suoi effetti sull’organizzazione del lavoro. Titoli importanti che mostrano come siamo in un grande pasticcio e come sarebbe necessario che la politica – a cominciare dalle rappresentanze dei lavoratori – imparassero a fare il loro mestiere misurandosi con la complessità del problema, tecnico, economico finanziario ma specialmente umano. E’ quello che ha tentato di fare con il suo La lotta di classe dopo la lotta di classe. Nel giro di meno di una quindicina d’anni il mondo ha visto un concentramento di ricchezza d’un livello mai conosciuto in precedenza; un fatto che ha polverizzato processi culturali, organizzativi, sistemi di valore fino a ieri giudicati imprescindibili. Interrogarsi sul “che fare”, scrive Gallino, è necessario, irrinviabile. E’ sicuramente un buon motivo per andare Giovedì 18 ottobre alle ore 20.30 allo Zenzero Circolo ARCI, via Torti 35, Genova dove a introdurre la riflessione sul libro sarà Nando Fasce docente di Storia contemporanea della nostra Università.
     (Martina Buch – immagine da Internet)

  • OLI 329: ECONOMIA – L’aspetto tangibile della recessione

    Girando per Genova si vedono sempre più spesso spazi destinati alla pubblicità che restano inutilizzati. Il Comune usa l’arma della “pubblicità alla pubblicità”, residuo di un passato opulento, dove uno spazio libero veniva segnalato per essere, presumibilmente, subito conquistato dal più rapido a chiamare l’ufficio affissioni.
    Oggi, invece, il cartello resta lì per settimane, nessuno reclama quello spazio fatto per pubblicizzare esercizi commerciali che oggi non esistono più, che continuano a chiudere con effetti devastanti per l’economia locale. Farebbe meglio il Comune a mettere la foto di un prato, di una prateria “celeste”, una di quelle nella quali Tex Willer mandava a galoppare coloro che abbandonavano questa “valle di lacrime”. Oggi, in quelle praterie troveremmo i negozi morti anche per colpa della politica dissennata di Tursi, che insiste nel procreare centri commerciali a discapito del piccolo artigianato e del commercio locale. Il nuovo Puc ne prevede 5 in più.

    Genova – Un cartello del Comune in assenza di pubblicità pagante.

    (Stefano De Pietro)

  • OLI 329: GRECIA – Ragazzi e ragazze ottimisti sulla linea del fuoco

    Se c’è una cosa che irrita profondamente i miei giovani amici ateniesi che lottano duramente sul fronte della crisi, è l’immagine della Grecia che circola sui nostri mezzi di informazione: “Per favore! Non trasmettere anche tu un messaggio di lagna e melanconia! Non cadere nella trappola dei mafiosi che perdono il loro potere e fanno credere che arriva il disastro se osiamo toccare il sistema corrotto che ha funzionato fino ad adesso!”.
    Sono persone tra i trenta e i quaranta anni, che lavorano come dannate per un reddito molto basso. O che perdono il lavoro, come un’amica che si è sentita dire: qui c’è il nuovo contratto, 750 euro al posto dei precedenti 1200. O accetta, o quella è la porta.

    Eppure … eppure non si lamentano, e considerano questo sconquasso da un punto di vista molto interessante. L’amica che ha perso il posto, ad esempio, ha reagito dicendo “Finora mi ero fatta sfruttare stupidamente. Avevo dato a quel lavoro tutte le mie energie, prendendomi responsabilità che non mi sono mai state pagate. Ora vedo chiaro nel rapporto che c’era davvero tra me e la ditta. Meglio così”.
    T., architetto mi scrive “Io comincio nuovi lavori, gente giovane apre nuove attività, se ne tornano nei loro paesini a portare intelligenza e produttività nei campi lasciati a seccare … io parlo ogni giorno con gente che ha sempre prodotto, e si è fatta il culo, e ora ha la possibilità di prendere più potere, perché i mafiosi del sistema sono stati bacchettati dalla crisi, e non possono più fare le loro porcherie! Positività!”.

    Un altro amico, splendido disegnatore, per poter vivere affianca più lavori: grafico pubblicitario, d’estate un chiosco di cocomeri, e se capita anche caricature per strada. Vita faticosa, ma ora, mi dice, si stanno aprendo inedite occasioni di lavoro: le grandi aziende pubblicitarie sono in crisi, e i committenti saltano un anello, rivolgendosi direttamente ai disegnatori free lance.
    M., anche lei architetto, sonda ogni piega del mercato, intraprende una nuova formazione, nonostante il rigido inverno ateniese di quest’anno non accende il riscaldamento e mi dice: è dura, ma sono ottimista.
    Gli amici non negano la crisi, anzi, ci sono proprio immersi, ma ne rifiutano l’uso strumentale. Come la questione dei bambini svenuti d’inedia mentre erano a scuola: “E’ una storia partita dai giornalisti populisti perché in una (sottolineo UNA) città i genitori hanno fatto una colletta di soldi e cibo per una famiglia numerosa di zingari … Lo stesso vale anche per i bambini abbandonati. Ma gli zingari sono sempre stati in queste condizioni e la società greca non li ha mai voluti inserire. Ora li stanno usando come “greci” per creare un’idea della disfatta globale!”.

    Interessante anche il punto di vista sui suicidi: “La gente si suicida perché ha tutto! Il “tutto” per loro si era creato con un stipendio di 1200 € al mese: Lui è andato a comprare una casa di 350.000, una macchina di 30.000, elettrodomestici, vestiti e vita da ricco con vacanze costose che ora non può piu sostenere. E’ andato dalle banche a prendere prestiti che servono 3 vite per sdebitarsi. Il sogno americano è diventato un incubo!
    La famosa questione della parola crisi che significa anche opportunità qui non te la senti propinare da gente al caldo, lontana dai problemi, ma da ragazze e ragazzi sulla linea del fuoco.
    (Paola Pierantoni – foto dell’autrice)

  • OLI 328: GRECIA – Cronache di vita vissuta: l’isola

    Moschoùla, insegnante e dirigente di scuola superiore nell’isola di Ikaria, mi scrive: “Sì, le notizie che girano in televisione sono queste (Ndr: episodi di carenza di farmaci essenziali e di inedia; aumento dei suicidi e delle rapine …), ma soprattutto riguardano le grandi città. A Ikaria, il cibo non dipende solo dal nostro stipendio, ma anche da quello che coltiviamo (orti, animali, olive, vino): non credo che qui potranno verificarsi situazioni d’inedia. Quello che probabilmente succederà qui è che si perderanno case e proprietà, perché non c’è denaro liquido. Nelle città invece penso che ci siano veri e propri problemi di fame, perché i salari sono scesi tantissimo, e le persone si sono caricate di rate per la casa, per l’automobile … Per cui, se cercano di pagare tutte queste rate, non avranno i soldi per le loro necessità immediate. E se spendono i loro soldi per le spese necessarie non pagheranno le rate e perciò perderanno la casa, l’automobile … “.
    In Grecia infatti l’entità di stipendi e pensioni è stata “ridefinita”, con una riduzione secca del 25 – 35%. Salve solo le pensioni minime, che non superano i 450 euro mensili.
    Continua Moschoùla: “Non so verso dove ci porterà tutto questo; se si apriranno occasioni di lavoro per i disoccupati, in qualche modo la situazione potrà aggiustarsi. La verità è che siamo tornati agli anni tra il 1950 e il 1960, quando tutti cercavano di andare via per trovare migliore fortuna, solo che allora il mondo era molto diverso, e la maggior parte di quelli che se andavano era gente non qualificata. Ora se ne va chi ha una laurea e un dottorato. E questo è un fenomeno che indebolisce tutto il Paese”.
    In un’isola un pò selvatica come questa i redditi falciati dalle misure governative sono sostenuti non solo dalla micro economia dell’orto, del piccolo allevamento, delle manutenzioni auto gestite, ma anche dal fatto che è davvero difficile inventarsi modi per spendere soldi. Ma la crisi sta colpendo duramente anche qui. Durante queste vacanze di capodanno, rispetto a un anno fa, la differenza salta agli occhi: quasi introvabili le trattorie aperte. Pochissima la gente in giro.

    La bella nave moderna (anno di costruzione 2005) che in poco più di sei ore faceva servizio col Pireo, è sparita. Girano voci che sia stata venduta agli spagnoli. La sostituta Ierapetra di anni ne ha 36, e capita anche l’episodio eccessivo: cinquanta persone per protesta le impediscono di attraccare, coi passeggeri portati in giro per un giorno intero, inclusa una bara inutilmente attesa dai parenti che dovevano celebrare il funerale.

    Il primo gennaio, in quest’isola, c’è il rito di andare a salutare tutte le case, per portare il buon anno. Si inizia al pomeriggio, e spesso si finisce la mattina dopo. Quest’anno la compagnia di giro arriva a casa di Moschoula alle due di notte. Come in tutte le case la tavola è imbandita, e tra i canti e le chiacchiere uno degli ospiti dice: “Amici, fotografiamo questa bella tavola, tutti i cibi, uno per uno. Così l’anno prossimo quando ci ritroviamo a cantare, sul tavolo, invece del mangiare, ci mettiamo le fotografie”.
    Vedi Oli 327: “Grecia, una nazione a perdere?” – Nel prossimo Oli le cronache da Atene.
    (Paola Pierantoni – foto dell’autriceManifestazione contro la nave Ierapetra da Internet)

  • OLI 328: PAROLE DEGLI OCCHI – Arrangiarsi

    Foto di Giorgio Bergami ©

    In tempi di vacche magre, anche offrire vecchie targhe degli autobus e dei tram di una volta, recuperate dall’abbandono di qualche deposito e divenute decorative testimonianze del passato, può aiutare a tirare avanti.