Claudio Costantini – “Lettera ai compagni” (1990)

Claudio Costantini è morto a 75 anni nel pomeriggio di domenica 31 maggio 2009. Per ricordarlo l’Osservatorio Ligure sull’Informazione pubblica una lettera che lui stesso indirizzò ad un centinaio di amici – molti gli studenti dei suoi corsi più recenti – all’inizio dell’estate del 1990. Si intitolava “Lettera ai compagni”: un invito alla discussione, una proposta politica. La lettera piacque e ci si incontrò per parlarne. Oggi, a distanza di quasi 20 anni, si può dire con tranquillità che la maggior parte di noi non ne colse a fondo lo spessore o, come anche si dice, la valenza politica. Ma ci appassionò e sicuramente fu utile a tutti. Ci furono anche delle obiezioni di cui Claudio tenne conto nello stendere una ulteriore versione della “Lettera”. Passò qualche mese e della “Lettera” non si parlò più. In seguito, nel 1994, Claudio la pubblicò – col titolo di “Eguali” – insieme ad un’altra dozzina di lettere indirizzate a persone diverse nel primo numero di “Lettere di storia, politica e varia umanità”, una pubblicazione di cui era il solo redattore, legatore, editore, distributore e le cui copie erano destinate ai suoi amici. Uno dei tanti prodotti artigiani di cui era orgogliosissimo che, insieme ai “Quaderni di storia e letteratura” avrebbero poi trovato posto sul sito “www.quaderni.net. Nell’edizione del 1994, Claudio antepose alla “Lettera” – reintitolata “Uguali” – un breve corsivo. Ricordava come a suo tempo uno dei destinatari del documento (che ne aveva apprezzato il contenuto) gli avesse detto che la sua era davvero “una bella provocazione intellettuale”. Ma io, scriveva Claudio, “non volevo provocare nessuno, dicevo sul serio: mi pareva tutto molto ragionevole, molto fattibile, molto urgente. Avevo perfino steso un preventivo di spese e scritto un regolamento interno (principalmente diretto a escludere dall’associazione i matti e i perditempo che si intrufolano sempre in questo genere di iniziative). All’inizio pensavo che a Genova non convenisse essere più di venti o trenta. Ma le persone disposte a far qualcosa non sono mai state più di cinque o sei in tutta Italia”.


Uguali
1. Nel 1989 è finita la guerra fredda e forse si è chiusa per davvero l’epoca delle Grandi Guerre cominciata nella lontana estate del 1914. Per tre quarti di secolo la pace, una pace stabile, sempre promessa e sempre rinviata, è stata, per antonomasia, la Grande Illusione. Oggi, forse, è diventata realtà. Ma se le Grandi Guerre sono finite, non sono finiti i massacri. Lo sterminio per fame dei popoli del Sud del mondo continua e si estende. Il ritorno della pace libera grandi risorse che, opportunamente impiegate, potrebbero concedere agli emarginati della Terra almeno una tregua, un momento di respiro. Ma chi osa sperare nella saggezza dei governi? La follia del 1914 può ripetersi. Lo sviluppo del Sud e la fine dello sterminio per fame, da tutti ufficialmente promessi o almeno auspicati, possono diventare la Grande Illusione degli anni a venire.
2. La guerra fredda (e l’età delle Grandi Guerre) si è conclusa con la disfatta del comunismo (o di quello che si è inteso per comunismo negli ultimi settant’anni). La disfatta del comunismo non vuol dire però legittimazione del capitalismo, né va confusa con il trionfo della democrazia. Di democrazia ce n’è sempre meno nel mondo capitalistico, e di qualità sempre più scadente. I regimi “democratici”, abbandonate le vecchie sembianze liberali e smarrito il gusto della tolleranza, tendono un po’ dovunque, confortati da larghi consensi elettorali, ad assumere i tratti furbeschi o malavitosi di un sistema di potere placidamente corrotto e paternalisticamente autoritario, connivente con i forti e implacabile con i deboli, intimidatorio quanto basta a emarginare i diversi, i renitenti, i refrattari. Se il comunismo (che per decenni ha dato espressione, bene o male, alle speranze di una massa imponente di persone oneste) non è più neppure un’illusione, è assai improbabile che tocch i al capitalismo e ai suoi “democratici” paladini assicurare un futuro civile all’umanità.
3. La fine della guerra fredda ha liberato una quantità di forze, ideali e materiali, imprigionate nei vecchi blocchi militari e ideologici. Ma il grande evento liberatorio, quello decisivo, è stato proprio il crollo del comunismo. E’ comprensibile che non tutti i comunisti siano in grado di rendersene conto e di giovarsene. E’ probabile anzi che molti di loro, a cominciare, forse, dai capi, abituati per un malinteso realismo politico a disprezzare le cosiddette “cause perse”, finiscano per aggrapparsi in qualche modo al carro dei vincitori e per perdere così anche quello che varrebbe la pena di salvare dal naufragio comunista. Resta il fatto che, dopo decenni di conformismo e di gesuitica fedeltà alla causa (“meglio aver torto in tanti che ragione da soli”), i comunisti si sono ritrovati davvero, volenti o nolenti, soli a decidere. E ciascuno di loro ha oggi l’opportunità di restituire un senso alla propria militanza, di riconoscere amici e avversari sulla base di affinità e di incompatibilità liberamente riscoperte, di tornare a fare politica senza furbizie e senza compromessi, con la semplice forza di convinzioni radicali.
4. Tornare a far politica vuoi dire prima di tutto ritrovare un’immagine convincente di se stessi: in questo sta il fondamento serio della questione, altrimenti futile, del nome da darsi. Una connotazione ideologica forte non è in contrasto con l’esigenza di mettersi (oggi e sempre) in discussione, né con quella ragionevole tendenza a convergere sugli stessi obbiettivi da posizioni diverse che si chiama “trasversalismo”; ha invece il vantaggio di opporre un qualche sbarramento all’attivismo senza principi dei mestieranti della politica. Il crollo del comunismo è spesso indicato come l’evento culminante di quel tramonto delle ideologie che è preconizzato ormai da trent’anni. Ma il termine “ideologia” ha molti significati. Marx chiamava ideologica (mistificatoria) ogni apologia dell’esistente. Oggi gli apologeti dell’esistente liquidano come ideologico (campato per aria) ogni progetto di cambiamento. Per costoro la fine delle ideologie dovrebbe coincidere con la fine delle sper anze e delle pratiche collettive di liberazione, una specie di morte della storia Ma che cosa c’è di più stupidamente “ideologico” (nel senso marxiano) di un così sinistro e improbabile auspicio?
5. C’è un vecchio principio radicale da tempo fuori moda in cui ci riconosciamo: l’egualitarismo. E’ un principio radicale nel senso che costituisce un’interpretazione estrema della democrazia, ma anche nel senso che sta alla radice di molte scelte politiche estremistiche, da quella bolscevica a quella anarchica: ne è infatti la matrice storica comune. Quasi tutte le parole della politica (a cominciare da “socialismo” e “comunismo”) si sono logorate con l’uso; molte subiscono tuttora indecenti manomissioni da parte dei soliti filibustieri del linguaggio (come i socialisti nostrani che, con incredibile improntitudine, tornano ogni tanto a dirsi “libertari” o “liberalsocialisti”). Più fortunato, per la paura e la ripugnanza che da sempre suscita in ogni sorta di filistei, il termine “egualitarismo” è rimasto quasi indenne da furti e sofisticazioni. Che oggi sia usato per lo più come un insulto lo rende ancor più adatto a far da insegna a chi, come noi, non condivide quasi nulla della cultura politica dominante e ha scelto di muoversi controcorrente.
6. “Io penso veramente che l’essere più povero che vi sia in Inghilterra abbia una vita da vivere tanto quanto il più grande e perciò, Signore, credo che sia chiaro che ogni uomo che ha da vivere sotto un governo debba prima col suo consenso accettare quel governo; e ritengo che l’uomo più povero in Inghilterra non sia affatto tenuto a rigore a obbedire a un governo che non ha avuto alcuna voce nel creare”.
Così nell’Inghilterra di metà Seicento. Sostituiamo l’Inghilterra con il mondo e avremo una buona approssimazione di quel che si può oggi intendere per egualitarismo: non livellamento o omologazione a un unico modello (come nel “comunismo della caserma” o nell’incubo tecnologico del “villaggio globale”), ma piuttosto il suo contrario, ossia il diritto di ciascuno a essere diverso e a essere rispettato nella e per la sua diversità.
Prima ancora l’egualitarismo è il diritto di ciascuno a esistere, perché anche il più umile e il più disperato degli esseri umani ha una vita da vivere come chiunque altro e ha il diritto di viverla con la stessa dignità e con le stesse, opportunità di chiunque altro. Egualitarismo, infine, è il diritto alla disobbedienza, ossia il diritto di ciascuno a resistere a qualsiasi autorità che non voglia o non sappia riconoscere e preservare, in via di principio e in via di fatto, il diritto di ciascuno a esistere.
7. Tornare a far politica in Italia non è solo possibile: è urgente. Perché la nostra sbilenca democrazia va, come ha detto Stefano Rodotà a proposito della nuova legge sulla droga, alla deriva. In relazione alla sconfitta, che pare definitiva, del terrorismo, si è fatto un gran parlare dell’opportunità di uscire dall’emergenza. Ma l’emergenza è indispensabile a una democrazia sbilenca come la nostra, ed ecco che, chiusa (o quasi) un’emergenza, il Parlamento italiano, con due tratti di penna, ne inventa un’altra. La legge sulla droga e quella sull’immigrazione creeranno entro qualche mese almeno due milioni di clandestini stretti tra le minacce della polizia (che avrà il compito di perseguitarli) e il ricatto delle organizzazioni criminali (a cui il legislatore li affida).
Due milioni di nostri uguali, per i quali il fatto stesso di esistere sarà considerato un illecito, punibile con una varietà praticamente indefinita di pene, dal rabbuffo prefettizio al ritiro della patente, da quel presagio di future lobotomizzazioni che è il ricovero coatto dei tossicodipendenti alla condanna a morte per fame o per disperazione a cui in molti casi equivale il rimpatrio forzato dei lavoratori asiatici o africani. E su tutto prevarrà l’arbitrio delle autorità preposte, in una gran confusione di moli amministrativi e giudiziari, nel peggiore stile ancien régime, alla repressione.
8. A proposito della legge sulla droga Stefano Rodotà ha parlato di “grande” e “inquietante” regressione culturale. “Uno Stato che usa la legge come veicolo di precetti morali, che vede le norme in funzione simbolica – ha detto nel suo intervento alla Camera – non è solo uno Stato che vede rinascere in sé una inammissibile propensione etica. E’ uno Stato che cede a tentazioni autoritarie, che pensa che la faticosa costruzione di valori comuni, di una morale condivisa, possa essere sostituita dall’imposizione legislativa, che la legge possa essere il surrogato del sentire maturo e consapevole di una comunità”. Come la legge sull’immigrazione, così quella sulla droga, per la diffusione stessa dei comportamenti che esse rendono illeciti, sarà inapplicabile, o, per meglio dire, sarà applicata selettivamente, ossia ad arbitrio degli organi di polizia, che verranno così dotati di nuovi strumenti di discriminazione e di ricatto nei confronti dei cittadini più deboli. “E’ cieco o ipo crita – si domanda Rodotà – un legislatore che agisce così?”. Ma il peggio è forse che questa legge, mentre stravolge principi giuridici che sembravano indiscutibili, “rompe la cultura dell’accoglienza e della solidarietà, che richiede di riconoscere nell’altro non il portatore di un disvalore, ma, dicono i Cristiani, un fratello: più semplicemente, o banalmente, io dico un mio uguale, un pari nei diritti.”
9. La legge sull’immigrazione è frutto della stessa regressione culturale. La Corte Costituzionale aveva invitato il Parlamento a regolare la materia tenendo conto delle fondamentali libertà umane. Il Parlamento ha risposto con una legge che, come ha scritto Gabriele Cerminara, “a parte le norme di sanatoria, quelle di autorizzazione del lavoro autonomo e alcune limitate aperture alla concessione di asilo politico, non fa altro che correggere in peggio la legislazione fascista”. Oltre al numero chiuso (una vergogna) e all’obbligo del visto per i neri (altra vergogna), la legge prevede che, alla fine, l’ingresso in Italia sia concesso davvero solo a chi appaia (a giudizio della polizia di frontiera) provvisto di mezzi di sostentamento: è, come osserva ancora Cerminara, “una beffa a danno dei più bisognosi”, che vengono in Italia proprio perché sperano di trovarvi quei mezzi di sostentamento che non hanno e che in questa speranza investono le loro ultime sostanze. Infine la leg ge affida alle autorità di polizia il potere (non previsto neppure dalle leggi fasciste) di escludere chiunque e in qualsiasi momento dal privilegio di soggiornare in Italia (ma non è un diritto radicato nelle fondamentali libertà umane?) facendo semplicemente e genericamente richiamo, come recita la legge, a “ragioni attinenti alla sicurezza dello Stato e all’ordine pubblico o di carattere sanitario”. La legge dà vita così a una sorta di caporalato statale dei lavoratori di colore, a cui i funzionari di polizia, par di capire, non sono affatto lieti di partecipare.
10. Se l’egualitarismo ha un senso, questi nostri uguali perseguitati dallo Stato italiano hanno diritto alla nostra solidarietà. Si tratta di difendere per loro e per noi quella libertà di scegliersi in qualunque parte del mondo un domicilio e un lavoro e, nella sfera privata, quel diritto alla riservatezza delle proprie decisioni e all’assoluto possesso della propria persona, che la tradizione liberale e la costituzione repubblicana promettono a tutti, ma che la maggioranza del nostro Parlamento ha sepolto, per intollerante demagogia, sotto una nuova ondata dileggi eccezionali. Occorrerebbe assicurare a ciascuno di questi nostri uguali una possibilità di vita. Ma non sarà facile. Nelle condizioni determinate dalla persecuzione legale sarà già difficile recuperare e mantenere con immigrati e tossicodipendenti quel rapporto di fiducia, che è la condizione di qualsiasi dialogo; e sarà difficilissimo costruire con loro e per loro, a partire da alcune esperienze esemplari già op eranti (scuole popolari e comunità di accoglienza), un sistema di assistenza medico-sanitaria e legale capace di sostituire in qualche modo il servizio pubblico, che la legislazione eccezionale ha degradato di colpo a organizzazione ufficiale per la caccia al diseredato e al sofferente.
11. Sollecitare la resistenza degli operatori pubblici contro il degrado dei servizi di assistenza; organizzare la solidarietà verso i nostri uguali, immigrati e tossicodipendenti, nel tentativo di neutralizzare almeno in parte gli effetti devastanti e criminogeni dell’esclusione e della clandestinità; proporsi nei confronti di questi nostri uguali come struttura di assistenza alternativa alla “protezione” offerta dalle organizzazioni criminali: ecco degli obbiettivi su cui misurare la capacità di tutti a far politica. Se i militanti del PCI, invece di baloccarsi con le avvizzite ragioni del sì e del no (1), si dividessero (alla buon’ora!) tra quanti sono disposti a sfidare le leggi eccezionali sulla droga e sull’immigrazione e quanti non lo sono, la Cosa, o, più esattamente, le Cose (le due o tre Cose diverse e incompatibili che stanno nel PCI) comincerebbero finalmente a prender forma, con grande vantaggio della democrazia italiana. Nel rifondare la Sinistra è essenziale, contro il mito aberrante dell’unità a tutti i costi, saper separare quella vera Destra (non importa se impolverata di socialismo e magari di marxismo) che è responsabile della legislazione eccezionale o che è disposta a tollerarla, dalla vera Sinistra (qualunque sia la sua ispirazione ideologica) che vi si oppone ostinatamente.
12. La cultura dell’esclusione che ha prodotto in Italia la legge sull’immigrazione e la legge sulla droga, è, almeno in apparenza, merce di importazione. Viene dall’America irresponsabile e sbruffona di Reagan e dall’Inghilterra cialtrona e bottegaia della Thatcher. In entrambi i paesi ha creato in pochi anni decine di milioni di miserabili, di barboni, di vagabondi, di disperati. In Italia quella cultura è stata “telefonata” da Craxi durante un viaggio americano. Di nazionale c’è, tuttavia, quanto meno, l’antico abito della miscredenza italiota riconoscibile nell’impressionante imperturbabilità con la quale i socialisti hanno accolto il voltafaccia craxiano e nel cinismo dei democristiani che, nonostante i preoccupati moniti di un clero generalmente attento al disagio sociale, hanno concesso, sulla pelle degli immigrati e dei tossicodipendenti, una soddisfazione “morale” all’alleato di governo.
13. Ma le radici profonde di quella cultura sono comuni a tutto l’Occidente. Stanno nel carattere neocorporativo della nostra società, dove, a due secoli esatti dalla Rivoluzione francese, è tornata a crescere (non di rado dietro il paravento di una legislazione detta “sociale”) una fitta giungla di monopoli, licenze, privilegi, riserve, numeri chiusi. In questa giungla il capitalismo, un tempo, almeno a parole, liberista e concorrenziale, prospera senza problemi. Il capitalismo si finge ancora antistatalista, ma solo quando vuole sbarazzarsi di quei pochi vincoli che la legge pone ai suoi capricci; per il resto sembra incapace di realizzare profitti se non, appunto, utilizzando la grande macchina dello Stato, da cui sempre più spesso prende moto, direzione e coordinamento e da cui, in ogni caso, pretende favori, finanziamenti, servizi, spazi d’azione riservati e protetti, interventi d’ordine. Qui sta l’intreccio tra potere economico e potere politico che minaccia di strangol are la democrazia e di qui nasce l’interesse di entrambi i poteri a crearsi un solido consenso d’opinione mediante l’estensione del sistema dei privilegi alla maggioranza dei cittadini.
14. Nella vecchia società borghese, quella nata dalla Rivoluzione francese, i più erano poveri, ma, in linea di principio, nulla ostava al fatto che il povero diventasse ricco e il ricco povero o che la povertà scomparisse come condizione sociale: tutto ciò rientrava nelle regole e nelle ambizioni della civiltà liberale. Nella società attuale i più (almeno così si dice) sono ricchi, ma, nella logica neocorporativa del privilegio e della discriminazione, le minoranze sono isolate e chi non partecipa all’abboffo è passibile di persecuzione. E’ la stessa volontà dello Stato che attiva i meccanismi di esclusione (con la criminalizzazione e la segregazione del diverso) o disattiva i circuiti della solidarietà (con lo smantellamento o con l’inefficienza programmata dei servizi sociali, con la riduzione o con la dissipazione intenzionale delle risorse destinate all’assistenza, ecc.). Così, però, la diseguaglianza, come nell’ancien régime, torna ad essere figlia della legge, nel che propriamente consiste il carattere neocorporativo del sistema in cui viviamo.
15. Ma là dove la diseguaglianza è figlia della legge non è facile mantenere a lungo la finzione di una legge uguale per tutti (come recita l’iscrizione che sovrasta malinconicamente le aule di giustizia). E in effetti ci si preoccupa sempre meno di mantenerla. Un po’ in tutto l’Occidente (in rapporto anche al trionfo della politica-spettacolo, più attenta ai sondaggi d’opinione che alla qualità delle opinioni che vi si esprimono) è in atto una sorta di degenerazione maggioritaria e decisionista della democrazia, che assume l’applauso degli spettatori come argomento per legittimare la violazione dei principi di libertà e di uguaglianza. Questa demagogia brutale e decisionista è costituzionalmente incompatibile con il garantismo e con la cultura della solidarietà, produce ininterrottamente espropriazione, ossia perdita o violazione di diritti, e alla lunga genera barbarie. Ne fa testimonianza, tra l’altro, la rinnovata voga della pena di morte in Occidente: quando i principi d i libertà e di uguaglianza vengono messi ai voti o affidati alla buona volontà delle folle spettatrici, è la legge di Lynch che finisce per prevalere.
16. A questa inquietante regressione culturale (per adoperare ancora una volta l’espressione di Stefano Rodotà), il cui aspetto più avvilente sta nell’insensibilità per la sofferenza altrui, bisogna opporsi con fermezza, ben sapendo che attaccare, in nome dei fondamentali diritti umani e civili, il sistema dei privilegi che corrompe e imprigiona gran parte del corpo sociale può costare l’impopolarità. L’egualitarismo è il nemico storico della cultura dell’esclusione e dell’indifferenza: per il bene di tutti, contro le varianti decisioniste e forcaiole della democrazia che sono oggi di moda, bisogna rimetterlo in circolazione. La mia proposta è di fondare una Società Egualitaria diretta da un lato a organizzare la solidarietà verso gli emarginati e i perseguitati e dall’altro a contrastare sul piano della produzione e della diffusione delle idee l’imbarbarimento che minaccia di stravolgere la comune percezione delle libertà e dei diritti umani.
(1) Ossia pro o contro la proposta del segretario di cambiare nome e simbolo del Partito. Miserevole diatriba, che però ha appassionato il Popolo Comunista e lo ha diviso come non era riuscito né al terrorismo di Stalin né al consociativismo di Berlinguer.
Genova, maggio 1990