Autore: Redazione

  • OLI 358: LETTERE – 28 novembre: Burlando, Doria e la rete delle donne

    Cara Oli,
    vi scrivo per informare che “La rete di donne per la politica” mercoledì 28 novembre in Provincia (Sala Consiliare, ore 17, Largo Lanfranco 1) incontra il presidente della Regione Liguria Claudio Burlando e il sindaco di Genova Marco Doria per parlare di violenza maschile sulle donne.
    Durante l’incontro, aperto al pubblico e a cui intervengono tra le altre Lidia Menapace e Rosangela Pesenti, la Rete, che raccoglie venti associazioni cittadine, chiederà al presidente e al sindaco di continuare a sovvenzionare i centri pubblici e privati operanti nella nostra Regione e di inserire nella loro agenda politica la Convenzione “No More” contro la violenza maschile sulle donne.

    La Convenzione No More – promossa da molte associazioni tra cui quelle impegnate nell’aiuto alle donne maltrattate e ai loro figli – chiede allo Stato italiano e a tutte le istituzioni di prevenire e combattere la violenza contro le donne, finanziando, prima di tutto, i molti Centri nei quali si sono già create competenze preziose. La Rete di Donne per la Politica si batte per l’applicazione di No More segnalando che sia le Nazioni Unite sia il Cedaw (Comitato internazionale per l’eliminazione di ogni discriminazione delle donne) hanno redarguito nel 2011 e 2012 lo Stato italiano per il suo scarso impegno nel contrastare la violenza contro le donne.
    In Liguria esistono centri pubblici (istituiti dalla Regione con la legge 12 del 2007) e centri privati. La Rete ha già incontrato il 19 novembre l’assessore regionale Lorena Rambaudi che si è impegnata a sostenere la legge 12 investendo risorse finanziarie e progettuali nei Centri antiviolenza. Nel 2012 in Italia oltre cento donne sono state uccise da un uomo che nel 70 per cento dei casi conoscevano e avevano anche amato: il marito o ex marito, l’ex fidanzato, l’ex compagno, il padre, un altro parente. Nel 2011 sono state 137, significa una donna uccisa ogni 2 giorni.
    La Rete di Donne per la Politica è punto di incrocio di molte associazioni o gruppi:  Laboratorio politico di donne, UDI Genova 25 novembre 2008, Generazioni di donne, Marea, UDI Genova Biblioteca Margherita Ferro, Società per Azioni Politiche di Donne, Coordinamento Donne CGIL Genova e Liguria, Coordinamento pari opportunità UIL di Genova e della Liguria, Asociazione Usciamo dal silenzio, Rete delle donne per la rivoluzione gentile, AIED, Archinaute, Laboratorio AG-AboutGender, Co.Li.Do.Lat, Legendaria, Gruppo Mafalda Sampierdarena, Il Cerchio delle Relazioni, Arcilesbica, Rete 194.
    Vi ringrazio dell’ospitalità, e mi auguro che le lettrici e i lettori di Oli  raccolgano l’invito.
    (Silvia NeonatoFoto di Paola Pierantoni)

  • OLI 357: INFORMAZIONE – Maschilisti di “Fatto”

    Il Fatto Quotidiano propone, tra i numerosi blog che ne fanno parte integrante, anche un gruppo di blog di donne riuniti sotto il titolo – intrigante – di “Donne di Fatto”. Le autrici sono giornaliste, scrittrici, registe, psicologhe, avvocate, attiviste politiche e sociali: insomma, donne vere, che vivono nel mondo reale e che parlano delle difficoltà che molte donne incontrano nel lavoro e nella società, della violenza e della mercificazione del corpo femminile, dell’assenza delle donne dai luoghi dove si prendono decisioni, della lontananza spesso stellare da una politica consumata da se stessa, della lista sempre più lunga di donne uccise “per amore” dai loro padri, fratelli, mariti, fidanzati.
    Articoli mai banali, che aprono una finestra di grande interesse su un universo femminile variegato e dinamico, capace di critica ma anche di proposta, mai settario, sempre disponibile all’interlocuzione e al confronto.
    Tutto bene, dunque? No, non proprio.
    Perché, quando dalle autrici si passa ai commenti, incominciano i dolori addominali acuti.
    I commentatori, in gran parte uomini, non ci fanno mancare alcuno dei peggiori stereotipi che si attribuiscono, di solito, ai maschi più reazionari e oscurantisti.
    Il peggio di sé, però, questi signori lo offrono quando si parla di femminicidio. La fantasia nel trovare giustificazioni per gli uomini che picchiano, maltrattano, violentano, uccidono le donne non ha limiti: si va dalle giustificazioni economiche (crisi, disoccupazione, Imu, protesti di cambiali) a quelle relazionali (donne fedifraghe, prepotenti, che non vogliono far loro vedere i figli, che li obbligano a convivere con la suocera, che vanno a lavorare e non fanno i lavori domestici), fino ad invocare la legittima difesa nei confronti di donne a loro volta manesche, violente e inclini al mattarello. Né mancano le invettive contro le femministe, definite di volta in volta arrabbiate, isteriche, pazze furiose, tese all’annichilimento del genere maschile senza se e senza ma.
    Il problema è generale, ed è da tempo al centro della attenzione e della analisi delle blogger femministe. La rete, avvertono, “non è neutra”. Conquistarvi il diritto di parola (con tematiche femministe) non è affatto scontato. Occorre “presidiare il web” e sapere come utilizzarlo per veicolare il proprio pensiero e contrastare il sistematico attacco di maschilisti e sessisti. “Femminismo a Sud”, che si definisce “un blog collettivo antisessista, antifascista, antirazzista, antispecista e non addomesticabile”, da tempo tratta a fondo il problema (*) che introduce dicendo: “Sin dai primi tempi in cui abbiamo iniziato a presidiare e monitorare la rete, ritenendo a ragione che non fosse uno spazio neutro, abbiamo sommato innumerevoli esempi di misoginia e sessismo, talvolta persino vera e propria istigazione alla violenza contro le donne”.
    Alla radice la pericolosa immaturità di uomini “che si rifugiano in un fragilissimo modello fatto di dogmi e di tradizioni che gli si sgretolano tutto attorno”. La contro-strategia delle blogger è stata: “Lasciavano commenti offensivi e minacciosi? Li abbiamo segati via senza lasciarci intimidire. Denunciavano censura? Rivendicavamo il diritto a veicolare contenuti utili e non insulti. Ricevevamo acide e velenose mail? Le abbiamo ignorate. Qualcun@ ci indicava al branco per istigare al linciaggio? Noi andavamo avanti e costruivamo un sapere alternativo che volevano nascosto, cancellato, defunto. Volevano impedirci di esistere? Noi abbiamo denunciato quanto avveniva e abbiamo studiato ed elaborato forme di autodifesa”.
    Tra queste il manuale: “L’Abc della femminista tecnologica”, che consigliamo non solo a tutte le blogger, ma anche al direttore e a giornalisti/e del Fatto Quotidiano.
    (*) http://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2009/10/07/sessismo-misoginia-e-maschilismo-in-rete/ 
    (Paola Repetto e Paola Pierantoni – immagine tratta dal sito “Femminismo a Sud”) 

  • OLI 357: LAVORO – Morire di lavoro non è una malattia rara

    La consuetudine annuale della diffusione dei numeri d’infortuni sul lavoro avvenuti, coinvolge poco o niente gli italiani, che vengono assaliti da una noia abissale, risentendone parlare e riparlare anno dopo anno, sempre nello stesso modo, dalle stesse istituzioni e le stesse persone, con gli stessi aggettivi e modalità.
    Nulla di nuovo. Lavorando con questa organizzazione del lavoro, questo insieme di regole, questo sistema di vigilanza, questa crisi e questo mercato in avanzato stato di decomposizione ci si infortuna, ci si ammala e, spesso, si muore.
    Se ne parla tutti gli anni e nello stesso modo. Quest’ultima tornata di dati, seppure dichiaratamente incompleti, è in effetti parte di una sfocata fotografia di un tempo di crisi, con code di cassaintegrati a sbrigare pratiche che si propongono per lavori in nero e sottopagati, assieme ai loro ex colleghi esodati, o disoccupati o inoccupati (brutti termini entrati nel nostro lessico giornaliero), travolti da disastri alluvionali e terremoti, stravolgimenti climatici e abbandono a se stesso di un territorio alienato da sciagurate politiche industriali.

    È terribile pensare che chi legge i dati o chi ne senta semplicemente parlare li affronti come ineluttabili, e che tutto sommato si aspetti semplicemente ed inevitabilmente una lista di numeri.
    Non c’è sorpresa o indignazione, bensì una sorta di rassegnazione, una presa d’atto che di lavoro si muore, si deve morire, perché è così che vanno le cose, è il costo del lavoro e a qualcuno spetta ed è toccato anche quest’anno. Poi leggendo meglio i dati locali, sovviene di un evento particolare, quello vicino o quell’altro particolarmente eclatante, finito in prima pagina, con funerale in pompa magna e parole contrite di figure meste ed ufficiali.
    Si viene maggiormente coinvolti dalle disgrazie di altri sfortunati, sorteggiati senza colpa alcuna da qualche malattia rara, una di quelle dal nome strano e terribile, quelle per le quali non esiste cura.
    Una malattia è considerata rara quando ha una prevalenza nella popolazione generale inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea definisce tale soglia 1 caso su 2000 abitanti e l’Italia si attiene a tale definizione.
    L’attenzione per le malattie rare a livello legislativo e amministrativo è relativamente recente. Questo perché il trattamento di una malattia rara, quando possibile, ha un costo per paziente molto più elevato di quello di una malattia comune e tende quindi a non essere mai inserito tra le priorità, a meno che la gravità della patologia o l’attivismo dei pazienti non la imponga all’attenzione.

    In pochi casi e per patologie particolarmente gravi solo la pressante attività di sensibilizzazione da parte dei pazienti e dei loro familiari ha prodotto grandi risultati. 
    Secondo tale arida interpretazione numerica, infortunarsi sul lavoro non è poi così raro, anzi vengono denunciati infortuni sul lavoro per un valore estremamente più elevato, i dati INAIL, pur parziali e non riferiti alla totalità dei lavoratori, indicano come l’infortunarsi sul lavoro sia non solo non raro, ma certo per un lavoratore ogni 15 o poco più della popolazione di addetti analizzata, ma anche uno ogni 2000 o 200 sarebbe un dramma. 
    Ma è un ragionamento diverso, nell’immaginario collettivo ha meno presa di quello delle malattie rare, questi infatti, se lo sono andati a cercare, lavorano e sanno che lavorando ci si fa male, o si muore. 
    È talmente certo che ciò sicuramente avvenga che una consistente fetta dello Stato se ne occupa, dodici mila addetti, tanti sono i dipendenti INAIL, con un Presidente, un Direttore Generale, direzioni centrali, venti direzioni regionali, duecentottantaquattro unità operative territoriali, un consiglio di amministrazione, un consiglio di indirizzo e vigilanza, un collegio sindacale, dodici miliardi di incassi e attivi a chiusura di bilancio da manovra finanziaria.
    Quindi tutto bene, è così che funziona.
    Il ministro del Lavoro e della politiche sociali, Elsa Fornero, nel corso del suo intervento in occasione della presentazione del Rapporto annuale INAIL 2011, ci ha spiegato che “sulla sicurezza non siamo in ritardo nel nostro paese”, sottolineando che questi principi richiedono “un radicamento diffuso della cultura della prevenzione”. Poi ha rassicurato quel lavoratore ogni 15 che si infortuna informandolo che “la sicurezza non è più vista dalle imprese come un mero onere, una mera incombenza, un gravame burocratico, ma è percepito ormai come un incentivo al lavoro e, dunque, un fattore essenziale di crescita, e che tutto questo necessita di una normativa aggiornata e coerente come lo è il Testo unico 2008, punto di riferimento essenziale per il Paese, che rende evidente come l’Italia, sotto il profilo normativo, non è in ritardo”. 
    Ma, ammette il ministro, “resta, tuttavia, la necessità di una effettiva applicazione e un costante monitoraggio grazie al continuo coinvolgimento dei soggetti coinvolti, soprattutto davanti a un mondo del lavoro in continuo cambiamento: realtà che cambia, di conseguenza, anche la natura del rischio”. 
    Ma guarda, potrebbero pensare quel poco meno di un migliaio di famiglie orfane che si sono aggiunte a quelle altrettante dell’anno prima, ma allora è proprio sfortuna, la sicurezza è incentivo alla crescita, le regole sono uno splendore, ma proprio da noi non sono state applicate e ne è mancato il controllo. 
    Nessuno alla presentazione di lettura dei dati ha detto cosa stessero facendo i controllori invece di controllare o, molto più probabile, se fossero in condizione di farlo, sia per numero che per strumenti. Od ancora se questo passaggio del Ministro avesse come obiettivo il rafforzare un progetto nemmeno tanto occulto teso a ridurli ulteriormente e passarne all’INAIL competenze e finanziamenti di scopo. 
    Il dato più tragico è però quello riguardante le malattie professionali, poco rare anche queste. E’ evidente come per i media buchi la pagina più un lavoratore che cada da un ponteggio e muoia, o rimanga schiacciato da un mezzo operativo o bruci in un incendio in azienda, piuttosto di un altro al quale lentamente una sostanza corroda i polmoni, gli avveleni il sangue o gli riempia di metastasi il corpo. Non c’è l’evento traumatico, muore in casa od in ospedale, con terribile agonia. Non fa notizia, fra la causa, la malattia e la morte passa tempo, a volte anni. Spesso non si riesce nemmeno a capire, a ricostruire per i famigliari il periodo di esposizione, il posto di lavoro incriminato o l’evento di esposizione scatenante. Non fa notizia, ma i morti da malattie professionali sono tantissimi, svariate volte più di quelli che muoiono di infortunio. E questi numeri sono tragicamente in aumento, secondo il Capo dello Stato si tratta di “un fenomeno che sta emergendo anche in virtù di una migliore sensibilizzazione sul tema e che merita la più attenta vigilanza considerata la natura spesso silente di patologie fatali”. 
    E poi ancora: tutti sappiamo, anche senza citare numeri o statistiche, che la base dai quali questi dati sono estrapolati è irrimediabilmente falsata dal mondo reale, quello che gira là fuori è un mercato del lavoro stravolto dalla cassa integrazione, dal lavoro nero, dalla sottodenuncia degli infortuni da parte di tutti quei lavoratori di piccole imprese nelle quali non esiste prevenzione, dove non viene svolta alcuna valutazione dei rischi, dove la scelta è lavorare così o non lavorare, dove denunciare un infortunio od essere iscritti alla CGIL può voler dire non essere riconfermati al termine di un contratto atipico, dove spesso l`infortunio viene trasformato dal padrone in malattia, aziende nelle quali un lavoratore, peggio se extracomunitario, è oggetto di ricatto, sicuramente di tipo contrattuale e salariale, ma altrettanto certamente è costretto ad accettare una riduzione dei suoi diritti, fra i quali quello alla salute. 
    Quindi questi trionfalismi, queste affermazioni roboanti basate su presupposti incompleti, anche quest’anno, ci lasciano la solita ed ineluttabile certezza che nulla è cambiato, che con questa organizzazione del lavoro ci si infortuna, ci si ammala, si muore. Dati noiosi, nè più nè meno che lo scorso anno. 
    (Aris Capra disegno di Guido Rosato)
  • OLI 357: SCUOLA – Un albero per la speranza

    Tra il malessere e il disastro la scuola va avanti e tanti sono gli insegnanti, la stragrande maggioranza, che operano con serietà, rigore ed entusiasmo. Così accade nella scuola elementare Govi, dove si è aderito ad una felice iniziativa di Legambiente “Per cambiare aria in città pianta un albero!”: piantare un albero è un gesto d’amore e di fiducia nel futuro, un’azione generosa che porterà benefici a tutti, recita lo slogan.

    Bisogna sapere che la scuola in questione, pur essendo in uno stabile moderno e decoroso, è situata in una delle vie a più alto traffico ed inquinamento della città ed ha un cortile per giocare proprio sulla strada. Fu costruita negli anni settanta nel terreno di un ex convento, abitato da poche suore e poi abbandonato per anni. In seguito gli edifici religiosi sono stati recuperati e nell’ultimo decennio persino la cappella è divenuta residenza, ma siccome alcune abitazioni non avevano “sfogo” esterno (e quindi meno appetibili immobiliarmente) si è rilasciata una concessione sessantennale per fare terrazzi-giardino sul tetto della scuola, espropriando di fatto la copertura che un tempo la si definiva addirittura non calpestabile.
    Ora vi svettano palme, aiuole, grandiose fioriere.
    Si è costruita anche una piscina che ha interessato il muro del modestissimo spazio di cespugli e rovi sul retro, tutto al sole, l’unico rimasto alla scuola, dieci metri per cinque circa, mentre intorno l’edificio scolastico è circondato da prati alla moda. Su richiesta delle maestre lo spazio incolto è stato rimesso in ordine, bontà loro, dai “piscinanti”, in cambio della servitù di confine.
    È qui che verranno messe a dimora un ulivo, alcune piante aromatiche caratteristiche della Liguria e i bambini armati di zappa e guanti potranno lavorare al loro minuscolo “orto”, supportati dalle loro meravigliose insegnanti e da qualche esperto volontario dell’Associazione o dell’istituto agrario Marsano di Sant’Ilario, che suggerirà loro che cosa coltivare.
    Ecco, la scuola è anche questo: rispetto e amore per il verde, lavoro di gruppo per imparare a stare insieme, cercando di rendere più accoglienti anche i modesti spazi che abitiamo perché non resti un’utopia il tentativo di migliorare la qualità della vita anche in città. Bisogna imparare a sognare da piccoli.
    (Bianca Vergati – immagini dell’autrice) 

  • OLI 357: MOBILITA’ – Un tocco di Zenzero per il trasporto pubblico

    Premetto che io sono una cittadina
    La Signora bionda si precisa così, e non è la sola. Con un gessetto e una lavagna forse disegnerebbe un fosso: dentro la politica, fuori i cittadini come lei.
    L’8 novembre, al Circolo Zenzero , si è discusso di mobilità genovese, tema difficile da masticare, ma con un assessore, tre consiglieri comunali, sindacato, WWF, e un revisore dei conti, la storia del trasporto pubblico e di AMT assume contorni più definiti pur nella tradizionale contraddizione. Una situazione – spiega Andrea Gamba, FILT-CGIL – generata dai tagli governativi che, insieme alla scelta di privatizzare, hanno prodotto l’estrema sofferenza dell’azienda con la creazione della bad company Ami per svuotare del debito AMT e la vendita del 41% della parte sana per 23 milioni di euro a Transdev che stipulò un contratto per importare consulenze tecniche da Parigi: costo per AMT 20 milioni di euro. Ma a Genova vennero solo studenti. Prima della privatizzazione, ha detto Gamba, AMT forniva un servizio di 31 milioni di chilometri con un costo di 1 euro a biglietto. A fine percorso, nel 2011, AMT perde 7 milioni di euro con un servizio di circa 28 milioni di chilometri e tariffe a 1,50 euro, al quale aggiungere il prezzo pagato dai dipendenti, da quali è più facile recuperare risorse.
    Sotto la lente finiscono amministrazioni comunali precedenti e Regione Liguria che non ha svolto quello che era il suo ruolo di regia così come la legge le attribuisce, che ha affrontato il problema in modo non lucido, non chiaro. Perché il servizio di trasporto – ha spiegato l’assessore Anna Maria Dagnino – va gestito e pianificato dalle regioni.

    Vincenzo Cenzuales ,WWF spiega che la Liguria è una delle regioni che investe di meno nel trasporto pubblico, i soldi li spende per costruire strade: 25 milioni per un pezzetino di tunnel della Fontanabuona, 250 milioni a Spezia, 250 milioni a Savona e 75 milioni di euro per altre strade. E’ la stessa Regione che avrebbe dato due milioni e otto per il parcheggio dell’Acquasola chiamandolo di interscambio, ricorda Cenzuales. Che, però, propone una serie di soluzioni possibili: corridoio di qualità per dimezzare i tempi di percorrenza e risparmiare soldi, piano del traffico, onda verde – semafori sincronizzati sui tempi degli autobus – corsie gialle, marciapiedi, il tutto arricchito dai proventi delle blu area che dovrebbero servire esclusivamente per finanziare il trasporto pubblico.
    Clizia Nicolella, Lista Doria, punta, da medico, sulla salute, togliere traffico privato significa prevenire malattie. Paolo Putti, M5S, invece porta i presenti ad Aubagne, cittadina francese dove il trasporto pubblico è gratuito grazie ad una tassazione per le imprese che hanno più di 10 dipendenti. L’Europa chiede all’Italia di incentivare la mobilità pubblica entro il 2020, pena il pagamento di forti sanzioni, quindi per il M5S il traffico privato va fortemente limitato, tassando i parcheggi dei centri commerciali, multando in base al reddito i cittadini.
    In luglio AMT aveva un bilancio che viaggiava a meno 35 milioni di euro e la rottura di ogni rapporto sindacale – spiega Dagnino – quindi prima di immaginare politiche diverse bisognava avere un’azienda viva e la nuova giunta l’aveva morta. La prima contraddizione del sistema è che in Italia non si è deciso se il trasporto pubblico è un servizio sociale oppure no, ma viene affidato a società per azioni che seguono la logica del codice civile. E’ su questa base che AMT rischiava liquidazione e il fallimento.
    Pare un giostra che riporta i presenti sempre allo stesso punto di partenza. Ma allo Zenzero c’è chi chiede di fare scelte impopolari sulla mobilità, per il futuro e la salute dei figli, per i pedoni. La Signora Bionda chiede il perché della dissennata scelta di fare le strisce gialle in via Barrili, la ragazza propone di esporre il biglietto all’autista o di farlo direttamente davanti a lui, c’è chi cita Gallino e chiede che la politica rompa la spirale dei tagli. Ma il tempo non basta. A breve, in agenda, un altro incontro.
    (Giovanna Profumo – Foto dell’autrice)

  • OLI 357: ESTERI – I fiori di gelsomino sono ormai secchi

    C’è stata una rivoluzione e ora stanno tutti peggio di prima: insomma, la “solita storia”. A Biserta si può tastare il polso della situazione prendendo un taxi: una delle arterie principali della città era chiamata «Avenue 7 novembre» in “onore” dell’ascesa al potere del dittatore Ben Ali (che succedeva all’ottimo ma anziano Habib Bourguiba). Dopo la rivoluzione, peste au diable se la si poteva più chiamare in questo modo! Ogni riferimento al cleptocrate e dalla sua famiglia in fuga (con l’ultima tonnellata e mezza d’oro delle casse tunisine in valigia) era bandito con orgoglio. Dopo un breve sbandamento toponomastico, durante il quale si voleva dare alla strada il nome di un martire locale della Rivoluzione, ci si attestò sul più facile e omogeneo «Avenue 14janvier», la data d’inizio della Revolution du Jasmin. Ciò dava ampio margine ai francesi di fare un lapsus con il loro 14 juillet . Ma la delusione è grande: la Libertà non è quello che sembrava, la disoccupazione è in aumento e i ladri anche; i turisti, stanchi di sentire discussioni sui capelli delle donne e spaventati da pericoli immaginari, non vengono più. Il cibo aumenta orribilmente di prezzo. Un dittatore, ladro sì, ma capace di tenere più o meno in ordine il paese (che ora rigurgita di spazzatura), non era forse un miglior compromesso? Si chiedono in molti. E così, triste a dirsi, è di nuovo possibile chiedere al tassista di accompagnarci alla ‘7 novembre’ : non reagirà. Se ne può fare una simpatica occasione di discussione politica – “Ci porti per favore alla «7 novembre, o alla 14 gennaio»: a lei la scelta !” – oppure fare come faccio io quando mi sento poco ciarliera : “andiamo alla «Ex 7 novembre», s’il vous plait…”
    (Monica Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 357: LIBRI – L’altra metà del libro

    L’altra metà del libro, il festival di quelli che leggono“: questo è stato il titolo, suggestivo, della serie di eventi organizzati da Genova Palazzo Ducale e dal Centro Culturale Primo Levi, svoltisi tra venerdi 16 e domenica 18 novembre scorsi: incontri con scrittori (Daniel Pennac, Alberto Manguel, Ian McEwan per citarne solo alcuni), laboratori per le scuole, appuntamenti dedicati a bambini da 8 a 12 anni, concerti e proiezioni.
    L’idea di fondo, recita il programma del festival, è “la partecipazione del lettore, nel dialogo con grandi autori”: proprio da questo spunto è partito l’incontro con lo scrittore spagnolo Javier Cercas (Soldati di Salamina, Il nuovo inquilino, Anatomia di un istante alcuni dei suoi romanzi pubblicati in Italia), per il quale “un libro è un mucchio di carta senza un lettore, è come una partitura che va interpretata, esistono tante Divine Commedie quanto ne sono i lettori”.

    Javier Cercas con Bruno Arpaia

    Si definisce uno scrittore con la bussola, non ha l’intero romanzo ben definito prima di iniziarne la scrittura, perché, dice citando Orhan Pamuk, “scrivere un libro è come scavare un pozzo con un ago”, in ogni romanzo sta nascosta una domanda, di cui viene cercata la risposta dall’inizio alla fine, ma l’essenza del romanzo consiste nel non dare una risposta precisa, qui sta il contributo di ogni lettore. Da questo la dimensione morale e politica della letteratura, un libro non è solo belle parole, non è solo un gioco ma, come disse Kafka, “un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”.
    Felice interludio tra gli incontri con gli autori, sullo schermo posto nella Sala del Maggior Consiglio, scorrono le splendide, poetiche immagini di The Fantastic Flying Books of Mr. Morris Lessmore, cortometraggio di animazione vincitore del premio Oscar 2012. Se il programma del festival si concludeva con la frase: “Tre giorni che ricorderemo. E sarà bello esserci”, ora, con le immagini, le parole, i volti degli autori incontrati nella memoria, possiamo confermare: è stato bello esserci, speriamo di esserci anche i prossimi anni.
    (Ivo Ruello – foto dell’autore)