Arkadij Babčenko pare un foglio bianco. E’ inespressivo come una statua. I ricordi a cui accenna lo trapassano come brevi note informative che non sembrano avere a che fare con la sua vita. Laddove il termine “sua” implica relazioni affettive, emozioni, dolore e felicità. E’ stato invitato a Palazzo Ducale, il 15 aprile, nell’ambito di La Storia in Piazza per presentare il libro La guerra di un soldato in Cecenia (ed. Mondadori)
L’incontro è stato fortemente voluto dal Comitato per la pace nel Caucaso e dall’associazione Mondo in cammino. Accanto a Babčenko, Lucio Caracciolo e la traduttrice del libro Maria Elena Murdaca.
L’autore racconta di esser partito di leva, in Siberia, a diciassette anni. Passati sei mesi, con altri compagni, viene convocato dai superiori: “Andrete a servire al Sud. Lì fa caldo, ci sono le mele. Vi piacerà” . Che il frutteto fosse la Cecenia è stato detto loro all’ultimo momento. Era il 1996. Arkadij Babčenko spiega ai presenti l’assenza di tempo, l’impossibilità di uno spazio per farsi domande sulle ragioni della guerra. “Ci sei e devi pensare solo a sopravvivere”. E guarda il pubblico “quando una persona è stata in guerra cambia la sua psicologia, la sua coscienza rimane in guerra, torna solo il corpo. Vai in giro per questo mondo, lo guardi e non capisci niente. Ci sono due ore di volo tra Mosca e la Cecenia. A due ore di distanza da Mosca ci sono montagne di cadaveri che bruciano”.
Ma Babčenko ci tornerà una seconda volta. Da volontario. “Siamo tornati a migliaia. Era come una droga. La guerra è come un virus. Siamo tutti portatori sani. E’ la cosa più bella che mi è capitata, ma anche la più brutta”. Racconta del nonnismo “che nella prima guerra Cecena aveva superato i limiti” e dei battaglioni penali. Della moralità e della spietatezza capaci di animare lo stesso individuo in una logica capovolta per la quale quello che da noi è inaccettabile in guerra diventa normale. Ci tornerà da corrispondente di guerra nel 2002 e nel 2003 . Babčenko parla di un conflitto che si è esteso ad altre repubbliche caucasiche e di una Cecenia dominata Kadyrov “personaggio singolare, fatto a modo suo, un tagliatore di teste, imposto dal Cremilino, uno che ha ucciso tutti i suoi oppositori”.
Il quadro che offre dell’opinione pubblica russa è desolante: “la maggior parte è convinta che abbiano fatto bene ad ammazzare la Anna Politkovskaja” e racconta del preoccupante aumento dei movimenti neofascisti, insieme all’integralismo islamico.
Oggi Babčenko è giornalista del Novaja Gazeta . Elenca sulle dita della mano i 6 colleghi uccisi negli ultimi 11 anni, ultima vittima una stagista del quotidiano, due anni fa.
L’autore si occupa della rivista letteraria Isskustvo Voynj – L’Arte della Guerra, uno spazio “dei veterani e per i veterani” in cui grazie alla scrittura ci si racconta, e si prova a guarire dalla guerra. (Giovanna Profumo)
Giovedì 14 aprile si apre a Genova, nel loggiato del cortile minore di Palazzo Ducale, una mostra fotografica (rimarrà fino a domenica 17, nell’ambito di La Storia in piazza) con il reportage che Giorgio Bergami effettuò nella capitale della Bosnia-Erzegovina e dintorni nei giorni 1 e 2 Gennaio del 1993, per conto dell’Arci su invito dell’Onu. In 51 pannelli riemergono memorie di una guerra che è bene non dimenticare. Nel cimitero militare, una accanto all’altra sotto la neve, croci e mezzelune, tombe cristiane e tombe musulmane. A manifestazione conclusa, l’autore donerà tutto il materiale alla Vijećnica, la Biblioteca Nazionale e Universitaria di Sarajevo, che ha perso ogni documentazione sul drammatico periodo dell’assedio.
Lo storico David Bidussa pubblicò Dopo l’ultimo testimone nel 2009. Due anni e qualche giorno dopo il 27 gennaio, domenica scorsa, il suo libro è stato ancora al centro di un incontro presso il Palazzo Ducale di Genova nell’ambito della commemorazioni del giorno della Memoria. L’appuntamento è stato organizzato dalla Fondazione Palazzo Ducale, dal Centro Primo Levi, dalla Comunità di Sant’Egidio e dall’Archivio di Stato di Genova. Quest’ultimo ha recentemente ricevuto in dono due importanti fondi storici, il primo dalla Prefettura di Genova che raccoglie documentazione della Repubblica di Salò, delle confische dei beni dei cittadini genovesi di origine ebraica dal ’43 in poi, il secondo dalla Corte Straordinaria d’Assise, riguardante i processi svoltisi sino al ’47, con qualche strascico l’anno successivo, per imputazione di collaborazionismo, chiusi nella quasi totalità con l’amnistia. Alcuni di questi documenti prendono voce grazie ad un gruppo di attori del Teatro Stabile di Genova. Anche il nome di Brenno Grandi, che campeggia alle spalle degli oratori, tra i quali anche Luca Borzani e Doriano Saracino oltre David Bidussa, si fa corpo e spazio in tutta la violenza e disprezzo gratuito che gli fecero mandare a morte famiglie di genovesi. Bastano poche parole e ci si accorge che passando per via Montallegro, alle spalle della famigerata Casa dello Studente, si è catapultati nell’odissea della famiglia Sonnino. Solo Piera sarà l’unica naufraga a tornar viva di tutti i componenti tradotti nei campi di concentramento, i due genitori e i sei figli. Le sue parole limpide, lucide, compite, scritte a macchina dieci anni dopo il ritorno a Genova, rimarranno chiuse per quasi mezzo secolo in una cartelletta rossa, sino a che sua figlia, Maria Luisa, non contatterà il periodico Diario, che le pubblicherà integralmente nello speciale della Memoria 2002. Nel 2004 il diario di Piera Sonnino diventerà un libro, dal titolo Questo è stato, una famiglia italiana nei lager. Il tono marziale e dolorosamente freddo della documentazione burocratica, che enuncia i beni sottratti, dal pianoforte Woodstock, alla macchina da cucire ritraibile Singer, è stemperato dalla malinconia della musica e della voce di Eyal Lerner che apre il cammino all’ascolto nell’uditorio. Tutti i partecipanti danno un contributo a focalizzare l’opera di Bidussa, chi per punti, come Borzani, mettendo in evidenza come le domande che lo storico si pose due anni fa non abbiano ancora oggi trovato una risposta esaustiva. Borzani evidenzia tre passaggi fondamentali in quest’opera, primo, il significato di “Giorno della Memoria”, non inteso come commemorazione delle vittime della Shoah, ma come riflessione dei vivi, come non appiattimento nella conciliazione delle memorie. In secondo luogo la difficoltà a riconoscere nuovamente una normalità e a riuscire ad esternare ciò che è stato sia da parte del fronte burocratico statale con le amnistie (tendenza di pacificazione apatica e acritica insita nell’animo italiano), che da quello emotivo dei sopravvissuti. Terzo punto, che guarda al futuro, quale possa essere un rapporto tra emozioni e ragione, memoria e storia, che non solo salvaguardi le testimonianze del passato, ma dia una loro ragion d’essere nel e al presente. La morte dell’ultimo dei testimoni non deve la vittoria di idee antistoriche sul nazismo, né tantomeno l’estensione della zona grigia, coltre nella quale non si intravedono più neanche i contorni di tragedie recenti o vicine come quelle dei Balcani, del Darfur, del Rwanda. (Alisia Poggio)
Gran bella mostra, quella inaugurata venerdì scorso a Genova nell’Appartamento del Doge. Mediterraneo. Da Courbet a Monet a Matisse allinea circa ottanta opere provenienti da una quarantina di musei e collezioni private, con capolavori di Courbet, Cézanne, Monet, Renoir, Van Gogh, Munch, Braque, Matisse e molti altri, in un viaggio appassionante attraverso i diversi modi di sentire e rappresentare la Francia mediterranea, dalla metà del Settecento fino ai primi decenni del Novecento, con un solo sconfinamento in Liguria nella Bordighera di Claude Monet. Che non vi sia nulla di genovese poco importa. Anzi: si è finalmente superata quella trita concezione che per anni ha preteso eventi incentrati solo su realtà locali, come se Genova, prima ancora di essere dov’è e com’è, non appartenesse al mondo intero e come tale non potesse essere in grado di ospitare ciò che in varie parti del globo è stato prodotto nei secoli. Per informazioni e approfondimenti si vedano le pagine dedicate all’evento (e alla splendida mostra collaterale di Piero Guccione: una vera scoperta) sull’elegante sito di Palazzo Ducale:
Il tutto è stato curato da Marco Goldin, direttore di Linea d’ombra, la società da lui fondata nel 1996, con sede a Treviso. Una ben organizzata – e ben promossa – azienda che produce da anni mostre di successo – da Treviso a Brescia, da Torino a Rimini, da Passariano a San Marino e ora anche a Genova – con un abile marketing che attira folle di visitatori e rende i beni culturali risorsa innanzitutto economica.
Goldin, ottimo affabulatore, ha illustrato nell’affollato salone del Maggior Consiglio cosa aspettava di lì a poco il pubblico, insistendo in particolare sull’ultima stanza che offre tre meraviglie di Monet, Van Gogh e Cézanne a colpire e emozionare. Ma la visita in realtà non finisce lì: al termine del percorso espositivo si arriva come di consueto al breve angusto passaggio che immette nella cappella dogale, che si percorre sempre con la curiosità di scoprire come i responsabili dell’allestimento hanno trattato tale spazio straordinario: se lasciato sgombro a farsi ammirare nella sua sontuosità carica d’arte e di storia, o arricchito invece da altre opere che dialogano con esso in accordo o per contrasto. Niente di tutto ciò! Per la prima volta (e si spera sia l’ultima) la cappella è diventata la bottega della mostra. Tutta ingombra di vetrine, scaffali e banconi dove si espongono e vendono libri, tazze, borse e altri gadget di Linea d’ombra, con gli affreschi di Giambattista Carlone e Giulio Benso seminascosti e la Madonna Regina, di Francesco Schiaffino, che fa capolino soffocata sullo sfondo. Nella parete d’ingresso, la scena con Cristoforo Colombo che cristianizza l’America è scomparsa, occultata dalla struttura cui è appeso il campionario delle riproduzioni in vendita. Al centro del vano troneggia un espositore, quasi un moderno badalone sul quale, invece di antifonari per il canto dei religiosi, son poggiate copie del catalogo da sfogliare per invogliarne l’acquisto.
Un pugno nello stomaco. Un vero peccato che una positiva esperienza di visita debba concludersi per molti (anche se non per tutti: le sensibilità individuali variano da persona a persona) nello sconcerto e nell’irritazione.
Nulla da eccepire sulle attività commerciali a integrazione e contorno di eventi culturali, ma fa specie che chi fa professione di cultura – e chi dovrebbe presiedere e chi dovrebbe sovrintendere – non colga la barbarie di un liberismo sempre più spinto che consente di far tutto dappertutto nella massima naturalezza, quando vi sono invece posti che per i loro caratteri non lo consentono. La cappella del Ducale è uno di questi ed è davvero indecente organizzarvi un mercato che si potrebbe tenere altrove (nel senso etimologico del termine: in decens, non decente, che offende il decoro del luogo). E sarà anche il caso, più in generale, di avviare una riflessione pubblica sull’ineluttabilità o meno degli attuali modi di fruizione di Palazzo Ducale a fini espositivi: in particolare, sul tamponamento “provvisorio” del loggiato che da ormai troppi anni ne preclude la godibilità e sulle invadenti pannellature che nascondono le ricche pareti dell’appartamento dogale, mortificandone la dignità. Per ora rassegniamoci (e indigniamoci): fino a maggio, per contemplare la cappella non ci resta che la realtà virtuale…
Nove operai stranieri linciati, decine e decine di feriti, durante agitazioni popolari a sfondo razziale finite in un bagno di sangue. Ad accanirsi contro i migranti, la popolazione locale, soprattutto le fasce sociali più deboli. Il torto delle vittime, accettare, per disperazione, di svolgere i lavori più umili e faticosi, accontentandosi di salari ridotti e sottoponendosi turni massacranti. Scegliere di sfinirsi a cottimo, fino allo stremo delle forze, pur di racimolare qualche spicciolo in più. Essere quindi, diventati più appetibili per l’economia locale. Non si tratta di cronaca recente (sembrerebbe?), ma dell’analisi storica di un massacro avvenuto a fine Ottocento nelle saline francesi di Aigues Mortes, in Camargue, ai danni degli operai italiani. Morte agli italiani (di Enzo Barnabà, Ed. Infinito, 120 pp.) racconta i fatti del 17 agosto 1893, inquadrandoli nel contesto storico ed esaminando gli errori dei partiti politici e le omissioni dei governi. Si delinea il prototipo dell’emigrante italiano: giovane, proveniente da vallate e paesi in cui l’unico sostentamento era l’agricoltura montana, disposto a svolgere i lavori più umili, anche a condizioni di vita e di lavoro durissime. La crisi aveva portato i lavoratori francesi a guardare con diffidenza questi “mansueti e laboriosi” italiani. All’insicurezza economica si era aggiunta la campagna battente della stampa nazionalista, che diffondeva la psicosi dell’invasione italiana, per difendersi dalla quale era necessario che i francesi salvaguardassero “i concetti di famiglia, nazione e razza”. L’autore esamina a fondo le colpe dei socialisti francesi. Essi, di fronte al problema reale della crisi e di una massiccia presenza diitalianinelle zone più disagiate della Francia, avevano dato soluzioni meramente ideologiche, tirando in ballo “la fratellanza fra i popoli”, senza superare il rituale dei comunicati e facendosi sedurre di quando in quando da derive xenofobe. Questi fattori deflagrarono ad Aigues Mortes, fino al parossismo del 17 agosto. Nove italiani, che lavorarono alle saline, furono linciati dalla folla mentre venivano scortati dalle forze dell’ordine, per essere estradati dopo i primi scontri. Il processo che seguì – durato quattro giorni in tutto – fu farsesco: ai governi di Italia e Francia interessava lasciarsi alle spalle la vicenda il prima possibile. Pochi i capri espiatori: un italiano, clandestino, fu condannato per aver innescato le violenze, l’agente consolare di Aigues Mortes fu deposto. Il resto degli imputati francesi ottennero l’assoluzione. I rapporti successivi tra le due nazioni andarono migliorando. “L’Italia ha dimenticato”, scrive Gian Antonio Stella nella prefazione. Un libro da possedere e diffondere: breve e conciso, si legge più o meno nel tempo di un quotidiano. E, forse, aiuta un po’ di più a leggere il presente. (Eleana Marullo)
S’è già detto e scritto abbastanza sull’infelicissima idea di proporre insieme, nella prossima edizione del Festival di Sanremo, il canto partigiano Bella ciao e l’inno fascista Giovinezza, avanzata dal direttore artistico Gianmarco Mazzi insieme al conduttore Gianni Morandi per la serata dedicata al 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, suscitando perplessità a destra e soprattutto ferma indignazione a sinistra, per questo ennesimo tentativo di equiparare Fascismo e Resistenza mescolandoli in un calderone buonista in cui tutto si confonde, si banalizza e perde quel senso che è bene rimanga vivo e presente.
Il Consiglio d’amministrazione della Rai, a fronte della polemica, ha tagliato la testa al toro stigmatizzando tale scelta e revocandola (peraltro in modo assai pilatesco, senza distinguo tra i due brani).
Se non si avrà modo di ascoltare Giovinezza a Sanremo – e non se ne sentirà certo la mancanza – val comunque la pena di dedicare un po’ di tempo a questa composizione nata come canto goliardico nel 1909, poi fatta propria dagli Alpini e quindi dagli Arditi nella Grande Guerra, per approdare infine al Ventennio di cui divenne il tema più popolare e rappresentativo, approvato ufficialmente come “Inno Trionfale del Partito Nazionale Fascista”.
Per limitarsi a quanto offre la rete, una voce di Wikipedia ne traccia la storia, seguendone le vicende e i progressivi adattamenti del testo, in cui si rispecchia l’evoluzione sociale che condusse al regime fascista.
Spostandosi su Youtube, è inquietante scoprire quanti siano i video confezionati per supportarne diverse esecuzioni, con montaggi di immagini fisse, filmati e anche varie versioni col solo testo, per impararne le parole grondanti retorica e poterle cantare tutti insieme in un bel karaoke del littorio.
Particolarmente agghiacciante è una sequenza di spezzoni di cinegiornali Luce in cui le esercitazioni e le parate di balilla e avanguardisti, di piccole e giovani italiane hanno Giovinezza come colonna sonora, in una ben ordinata e fiera Italia inconsapevolmente proiettata verso la catastrofe. Ancor più raccapriccianti sono qua e là i commenti di coloro che rimpiangono quell’Italia e la vorrebbero ancora.
Se Arturo Toscanini si rifiutava di dirigerla, sostenendo che le sue orchestre non si abbassavano a suonare il vaudeville e ricevendo per questo gli schiaffi delle camicie nere (Teatro Comunale di Bologna, 14 maggio 1931), fino a dover lasciare l’Italia per l’America, un’altra gloria nazionale non si faceva invece scrupoli a cantarla: Beniamino Gigli la interpretò con enfasi, accompagnato da orchestra e coro.
Tra gli elaborati che lo utilizzano, è sconcertante l’instant-video appena ideato il 4 novembre scorso da tale Carlo, per celebrare “uno degli inni del periodo fascista, censurato dalla Rai”. Vi si susseguono immagini d’ogni tipo, evidentemente per esemplificare e magnificare la giovinezza, la primavera di bellezza, il popolo d’eroi e la patria immortale, mescolando foto d’epoca e d’attualità, comprese procaci fanciulle semisvestite oltre i limiti della pornografia (del resto, non è forse “meglio essere appassionati delle belle ragazze che gay”?), in un grottesco guazzabuglio di cui si fatica a seguire il senso ma in cui è chiarissima la cultura che ne è alla base.
Sarà anche una canzone che ha 100 anni, ma non ha certo perso la sua carica e il suo appeal in una buona fetta di italiani. Sarà opportuno che tutti gli altri continuino (o riprendano) a non abbassare la guardia.
Il 25 giugno 1960 cominciavano le giornate di Genova.
“storiAmestre”, Associazione per la storia di Mestre e del territorio, ricorda l’anniversario con un saggio inedito di Manlio Calegari e Gianfranco Quiligotti.
Ad ogni popolo la sua nazione e ad ogni nazione il suo popolo! Assunto che sembra appartenere a La Repubblica di Platone, logico quanto la geometria euclidea. Connubio fondato sull’epica narrazione della storia dei popoli. In realtà idea che risale all’epoca moderna e vede nel XX° secolo, con la conclusione dei due conflitti mondiali, la definizione in strutture statali dai confini geopolitici ridisegnati o assegnati ex-novo.
Il 17 aprile scorso per La Storia in Piazza, dinnanzi ad una gremita sala del Gran Consiglio del Palazzo Ducale di Genova, Beshara Doumani, professore di storia all’Università della California di Berkley, e Shlomo Sand, professore dell’Università di Tel Aviv, hanno provato a scardinare l’equivalenza popolo-nazione partendo dalla più emblematica situazione internazionale, Israele, Palestina e i rispettivi abitanti.
Doumani ha focalizzato il suo intervento “The Ironies and Iron Law of Palestine and Palestinians”, sulla situazione paradossale (Ironies) vissuta dal popolo palestinese, che ha subito la sua prima sconfitta in coincidenza della dichiarazione dello stato palestinese. I palestinesi si sono scoperti popolo nell’accezione moderna del termine solo nel 1948, dopo l’ufficializzazione della nascita della Palestina. Da allora sino ad oggi i suoi confini murati si sono chiusi progressivamente nell’assurdo di uno stato non governato dai suoi abitanti, sui quali vigono leggi inflessibili (Iron Law), senza che venga loro riconosciuto alcun diritto. Un’esposizione chiara, accompagnata dall’evidenza di una serie di diapositive. L’uditorio poteva facilmente presagire una chiusura nei confronti dell’altro interlocutore.
Shlomo Sand esordisce dichiarando I’m from Israel. Rafforza, I’m Israeli. E da lì, sorprendentemente, muove nella direzione di Doumani. Il punto di partenza, illustrato nel suo The Invention of the Jewish People, è diverso: l’invenzione del popolo ebraico e, come alterità, quella del popolo palestinese. Ritiene che attribuire l’appellativo popolo agli ebrei sia un falso storico, emanazione del pensiero sionista, sorretto sull’evidenza non scientifica della Bibbia. Parte dal principio che un popolo si possa definire tale su comuni basi linguistiche, religiose, di tradizione e di sangue. Solo la religione poteva accomunare ebrei nordafricani ad ebrei ucraini. Fondandosi su una particolare interpretazione della diaspora e della storia dei popoli fuoriusciti, sostiene che sarebbe più facile rintracciare origini ebree nei palestinesi. La religione è l’identità di popolo che rende Israele nazione degli ebrei del mondo e di Woody Allen, più che degli israeliani stessi. Dunque una democrazia negata. Tesi molto dibattute quelle di Sand, volte a sostenere l’idea di Israele stato di tutti i suoi cittadini, ebrei ed arabi. Contestate, non nella positiva conclusione, da alcuni studiosi, tra i quali Anita Shapira, come artificiale riscrittura della storia. Salutate positivamente da altri, tra i quali Eric J. Hosbawn.
Forse la retorica storica sulla quale si sostiene una nazione è una delle tante possibili. Sicuramente il suo vuoto è rischiosamente sostituibile con altre ancor più negative. La storia ce l’ha dimostrato. Quale antidoto per il futuro? Doumani e Sand sono d’accordo nel partire dalla critica dell’identità nazionale. Doumani ricorda che i palestinesi si trovano nella condizione più difficile e simbolicamente globale: l’assenza totale di diritti. Il linguaggio politico attuale non coglie che superficialmente la situazione. Solo un orizzonte transnazionale, forse tra qualche generazione, potrà comprenderla e superarla. Sand conclude con un’immagine proposta ai suoi studenti. Siamo su una macchina che corre all’impazzata senza modo di fermarsi. I vetri sono sporchi delle lordure della storia, Pol Pot, Stalin etc. ad impedire la vista. Il tergicristalli non funziona. Per andare avanti possiamo solo guardare nello specchietto posteriore. Ci dirigiamo verso la catastrofe.
È possibile che le future generazioni inventino qualcosa per fermare la corsa? Uno studente risponde di no, ma aggiunge, possiamo spaccare un finestrino…
Ad ogni popolo la sua nazione e ad ogni nazione il suo popolo! Assunto che sembra appartenere a La Repubblica di Platone, logico quanto la geometria euclidea. Connubio fondato sull’epica narrazione della storia dei popoli. In realtà idea che risale all’epoca moderna e vede nel XX° secolo, con la conclusione dei due conflitti mondiali, la definizione in strutture statali dai confini geopolitici ridisegnati o assegnati ex-novo.
Il 17 aprile scorso per La Storia in Piazza, dinnanzi ad una gremita sala del Gran Consiglio del Palazzo Ducale di Genova, Beshara Doumani, professore di storia all’Università della California di Berkley, e Shlomo Sand, professore dell’Università di Tel Aviv, hanno provato a scardinare l’equivalenza popolo-nazione partendo dalla più emblematica situazione internazionale, Israele, Palestina e i rispettivi abitanti.