Categoria: Informazione

  • OLI 278: INFORMAZIONE – Il consumatore etico tra inganni, seduzioni e scommesse

    Annibale Carracci, La bottega del macellaio, 1583 – 1585

    Il tema del consumo di carne (bovina) si è conquistato un richiamo sulla prima pagina di Repubblica del 10 novembre. Il titolo è rassicurante: “Bistecca, la seconda vita. Chi mangia carne non rovina l’ambiente – cibo e gas serra, un ecologista smonta le accuse”. L’occasione viene dal libro Meat. A benign extravagance, il cui autore, Simon Fairlie, ridimensiona l’entità dei danni ambientali (emissioni di gas serra e deforestazione) che “grandi organizzazioni internazionali”, tra cui la FAO, imputano alla zootecnia. L’articolo è corredato da una tabella secondo cui l’Italia, per consumo di carne bovina, è ottava tra undici nazioni, e da due incisi in grassetto: “Simon Fairlie invita a prendere con cautela le tabelle fornite da enti internazionali”, e “Il bestiame contribuisce all’inquinamento nella misura del nove per cento”.
    Il tutto trasmette al lettore un messaggio di sereno via libera.
    Per trovare qualche frase che segnali l’esistenza di punti critici bisogna spulciare tutto il lungo articolo: “Due terzi di quei 600 milioni di tonnellate di cereali vengono utilizzati negli allevamenti dei paesi industrializzati, a beneficio del 20 per cento della popolazione mondiale” … “Se un colpevole c’è, non è l’allevamento in genere, ma sono i metodi industriali ed intensivi”.
    Peccato però che la tranquillizzante tabella sia costruita in modo opinabile, perché l’Italia è confrontata con nazioni scelte “ad hoc” tra le più carnivore del pianeta, e si limita al consumo di carne bovina che costituisce meno di un terzo del consumo italiano di carne pro capite, il 42,3 % del consumo è carne suina – dati Eurostat 2006 (*). Così i dati europei ci vedono sì al nono posto, ma tra 39 nazioni (**).
    Peccato anche che non si dica che l’allevamento intensivo domina quasi totalmente il mercato della carne, in primissimo luogo quella suina.
    Tra disinformazione e un mercato che ti seduce con prezzi che Safran Foer definisce “artificialmente bassi” (aggiungendo: “quello che non compare sullo scontrino lo pagheremo per anni tutti quanti”) cosa può fare il consumatore “etico” che pure non intende rinunciare a carne, uova, latte, formaggi? Quanta fatica spende per trovare quello che cerca? E poi a cosa può servire la sua piccola goccia nell’oceano degli interessi di mercato?
    Foer osserva che “la carne etica è una cambiale, non una realtà”, e che “chiunque sostenga con serietà l’opzione della carne etica dovrà mangiare parecchi piatti vegetariani”. Ma dice anche che “mangiare con una tale intenzionalità esplicita” è una forza dal potenziale enorme, e che le nostre scelte quotidiane possono “plasmare il mondo”.
    Se ci guardiamo intorno, possiamo cogliere dei segnali: mercatini agricoli in città con banchetti di uova che espongono fotografie di galline libere, e banchi di salumi istantanee di maiali che grufolano all’aperto; il macellaio abituale che va a controllare che i bovini che compra vivano effettivamente all’aperto; Luciana Littizzetto che ringrazia a nome di galline ovaiole allevate a terra; il volantino della stessa catena distributiva che sottolinea l’adozione di “un codice etico teso a garantire il benessere animale” …
    Una clientela inizia ad esistere e il mercato tenta di rispondere.
    (*) http://www.saluteanimale.novartis.it/salute-benessere/suini/consumi-procapite.shtml
    (**) http://it.answers.yahoo.com/question/index?qid=20090806101552AA8d3wt
    (Paola Pierantoni)

  • OLI 278 – INFORMAZIONE – Analisi della diffusione dei quotidiani

    Prima comunicazione (primaonline.it) è un mensile che racconta come funziona e come cambia il sistema dell’informazione. Molto utile la pubblicazione della diffusione comparata 2009-2010 dei principali quotidiani italiani (*). Si tratta di un comodo foglio di calcolo, nel quale è possibile effettuare alcune semplici analisi.
    Cominciamo dal numero di testate, 64 sotto osservazione, i cui dati sono dichiarati dai vari editori. Vi si trovano quotidiani importanti come il Corriere della sera (diffusione intorno al mezzo milione di copie), ma anche Il quotidiano della Basilicata (poco più di duemila copie).
    Il numero delle testate che superano le centomila copie si attesta su 15, quelle sotto le diecimila sono 4, tra le quali il Corriere mercantile, storico giornale genovese, uno dei più antichi in Italia. In mezzo, come nelle corse ciclistiche, il “gruppo” dei rimanenti 45.
    La media della diffusione rispetto al 2009 è scesa del 4%, con una oscillazione che va dal +26% di Italia Oggi, al -15% della Gazzetta del lunedì. Il Secolo XIX si attesta su 84260 copie, con una perdita secca del 14% rispetto all’anno scorso.
    Sulle vendite, la somma totale italiana muove circa 5 milioni di euro al giorno, vale a dire circa un miliardo e 800mila euro all’anno. Un bel giro di soldi, considerando il solo costo del giornale a un euro, senza orpelli multimediali e asciugamani per il mare.
    Bisogna osservare che questo sistema di raccolta dei dati è un po’ vetusto, oggi ci sono anche gli accessi internet e le copie in Pdf: saranno state conteggiate? E’ probabile di no. Ci si chiede quindi quale logica possa avere continuare a pubblicare queste statistiche, i cui dati vorrebbero rappresentare, conteggiando la diffusione su carta, la diffusione dell’informazione e il numero di copie vendute, quando la realtà della vera diffusione e delle vere vendite si gioca oggi su ben altri media, dai siti diretti dei giornali fino alle schede sui grandi social network.
    E’ divertente confrontare tutto questo, ad esempio, con i dati di diffusione del blog di Beppe Grillo, che ormai è diventato un punto di riferimento nazionale per l’informazione libera. Secondo quanto dichiarato (**), attraverso i sistemi di conteggio inseriti sul sito web, si parla di 5 milioni di visite solo a settembre 2010, 500mila iscritti alla newsletter, 100mila copie de La Settimana e, il dolce alla fine, 73 milioni di visualizzazioni dei suoi video su Youtube: “vogliamo sciancare”?
    * http://www.primaonline.it/2010/10/18/84865/diffusione-dei-quotidiani-luglio-2010/
    ** http://www2.beppegrillo.it/iniziative/adv/advertising.html
    (Stefano De Pietro)

  • OLI 275: LETTERE – Oscenità al Tg3

    Ieri 24 ottobre poco dopo le 19, mentre cucinavo, stavo ascoltando il Tg3, ed ecco che mi raggiunge la voce di questo Misseri che descrive i dettagli dell’omicidio in cui è coinvolto.
    La redazione del Tg3 aveva deciso di fare ascoltare a tutti noi la deposizione di questo disgraziato sul fatto terribile che tutti sappiamo.
    Subito dopo lo stesso Tg3 rendeva criticamente conto del “turismo dell’orrore” che si sta svolgendo dalle parti di Avetrana.
    Questa – io trovo – è una cosa oscena, che taglia alla radice il diritto di prendersela con gli altri, i Fede, e i Vespa con i loro modellini.
    Se la differenza è solo nella quantità (quegli altri ci sguazzano di più, e più a lungo), è una differenza piccola piccola. La sostanza si equivale.
    (Paola Pierantoni)

  • OLI 274: ILVA – Perché quegli sguardi avviliti?

    Mercoledì 13 ottobre. Fabbrica di Cornigliano, 8.30 del mattino.
    Le macchine scivolano alla spicciolata nel grande parcheggio davanti alla portineria.
    Si sono lasciate alle spalle un lungo percorso costeggiato da container colorati.
    No. Non ci sono giornalisti della stampa locale a raccontare il fatto. Anche se la prima tranche di rientri in fabbrica – 55 dipendenti – dopo cinque anni di cassa integrazione, è di certo un evento cittadino. Occasione unica per chi vorrebbe occuparsi di cronaca del lavoro.

    Le facce, soprattutto donne, sorridono beffarde all’ineluttabile. Impiegate over quaranta che si salutano e si abbracciano per poi cercare nella borsa il badge, scovato nei cassetti e dimenticato per un lustro, puntualmente scambiato con l’addetto della proprietà con un pass più nuovo e meno ingiallito. Ma con la stessa foto vecchia di anni.
    La fabbrica alla loro destra sembra inerte, come chiusa dentro il suo imballo azzurrino. Alla loro sinistra il cantiere è in movimento. Un pullman – sedili imbottiti e impolverati – le accompagnerà insieme ai colleghi alla scuola siderurgica per il loro primo giorno di lavoro. Che è poi formazione.
    Nella catena di montaggio che li ha visti oggetto dell’accordo di programma donne e uomini si sono sentiti spostati come merce da una fase all’altra di un ciclo che li ha visti in azienda, poi in Comune e Provincia, ed oggi ancora in azienda. E il 13 ottobre non esitano a dichiararsi “merce di scambio”.
    Dopo di loro, a scaglioni, entreranno gli operai. Per tutti è prevista una settimana in fabbrica e tre a casa. Con salario tutelato.
    Con una proposta così di che si lamentano?
    E perché quegli sguardi avviliti?
    Gli hanno spiegato che lavoreranno meno che negli enti pubblici. Li hanno esortati a comprendere che questa è la madre di tutti gli accordi che verranno dopo. Hanno detto loro che l’offerta è talmente innovativa da essere stata d’ispirazione per il teatro dell’opera cittadino. E loro stessi hanno detto sì al contratto di solidarietà consapevoli che in cambio ci sarebbe stato il vuoto.
    Capire perché sentano di non avere in mano nulla, e perché avvertano l’assenza totale di un progetto occupazionale serio è compito di sindacato e politica. Nessuno dei due ha affrontato la questione con serietà. Nessuno dei due ha registrato i picchi di un malessere molto diffuso che insieme al salario chiedeva l’impegno su un’occupazione vera.

    In immagine, la lettera che l’assessore Margini ha inviato in questi giorni ai cassintegrati ILVA rientrati in stabilimento in ottobre.

    (Giovanna Profumo)

  • OLI 273: GIUSTIZIA – Aldrovandi: le tremende parole della verità

    E’ sabato 9 ottobre 2010 e nel blog della famiglia Aldrovandi vengono scritte parole molto tristi, non solo per il significato privato del dolore di una madre che ha perso un figlio, ma anche per la fotografia pubblica che viene fatta dello stato della giustizia in Italia, dove un omicidio viene liquidato, di fatto, senza nemmeno un giorno di carcere per nessuno. La signora Aldrovandi cerca almeno di considerare la cifra offerta dal ministero (in cambio del silenzio giudiziario) a titolo di scuse ufficiali della Polizia, in assenza di una qualsiasi azione istituzionale reale in tal senso. Come fosse un secondo funerale e con quattro poliziotti condannati per omicidio colposo ancora in servizio attivo. Il post non viene riportato sui principali media istituzionali, ma solo su blog e iniziative giornalistiche in rete: sembra doveroso citarlo integralmente.

    (Dal Blog federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/federico_aldrovandi/2010/10/09/risarcimento/)
    “SABATO, 9 OTTOBRE 2010
    Risarcimento
    Questo è un passo importante, almeno così pensavo.
    Mi sono chiesta tante volte se accettare significava vendere mio figlio.
    Ma purtroppo Federico non me lo potrà restituire nessuno e io non ho nemmeno più la forza di odiare.
    Mi piace pensare che questo sia un gesto riparatore dello stato e delle istituzioni nei confronti miei e della mia famiglia.
    Doveroso e significativo. Così mi piace pensare, perché i poliziotti che hanno ucciso mio figlio non faranno un giorno di carcere mai, anche se proseguissimo in appello e in cassazione, perché i poliziotti che hanno ucciso mio figlio rimarranno in servizio anche se vinceremo in appello e in cassazione.
    Questo non è giusto, e siccome l’odio dentro di me non deve prevalere sull’amore che ho ancora e sempre per Federico mi piace pensare che lo stato mi abbia chiesto scusa
    perché altro non mi rimane. L’unica soddisfazione è quella di avere restituito la verità sulla sua morte e sulla sua memoria, ma nessuno putroppo pagherà per ciò che ci hanno fatto
    perché questa è l’Italia”

    (Stefano De Pietro)

  • OLI 273: SICUREZZA SUL LAVORO – Dietro il velo della ipocrisia

    OLI ha deciso di pubblicare l’appello lanciato da Marco Bazzoni per il ritiro della campagna del Ministero del lavoro Sicurezza sul lavoro “La pretende chi si vuole bene”, serie di spot zuccherosi che colpevolizzano i lavoratori lanciata mentre il governo sta facendo a pezzi il Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro.
    Un esempio di cui non si ha quasi traccia sui giornali? L’art. 12 del Disegno di Legge 2243 “Disposizioni in materia di semplificazione dei rapporti della Pubblica Amministrazione con cittadini e imprese”, in discussione alla Camera, prevede:

    • l’obbligo di denunciare solo gli infortuni con prognosi superiore ai 14 giorni (oggi il limite è tre giorni);
    • la cessazione dell’obbligo di segnalare alla autorità giudiziaria le lesioni con prognosi superiore ai 30 giorni;
    • l’eliminazione dell’obbligo delle aziende di tenere il “Registro degli infortuni”.

    Aris Capra, responsabile dello Sportello sicurezza della Camera del lavoro di Genova, ci fornisce dei dati interessanti: in Liguria nel 2008 gli infortuni da 4 a 14 giorni (quelli che come per magia scomparirebbero) sono stati 7804, il 38,2% di tutti gli infortuni riconosciuti. C’è bisogno di spiegare che la denuncia agli enti competenti di tutti gli infortuni ha una grande importanza per inquadrare la complessiva situazione di insicurezza di una azienda, e quindi per prevenirne il ripetersi, e il verificarsi di casi più gravi? C’è bisogno di spiegare che il registro degli infortuni, a disposizione degli organi competenti e del Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, è un fondamentale strumento di controllo e di prevenzione? Non crediamo che ce ne sia bisogno: dietro a queste norme “semplificatrici” non c’è ignoranza, ma calcolo e malafede. Sarebbe bene che gli organi di informazione dessero il loro contributo per stracciare il velo di ipocrisia governativo e farci vedere cosa c’è dietro.
    Lo fanno Il Fatto Quotidiano del 6 ottobre e L’Unità dell’11 ottobre, con diversi articoli raccolti sotto il titolo: La sicurezza sul lavoro è uno spot «vergogna». L’appello: venga ritirato. Ma sono casi isolati. Sulla nostra stampa locale riusciamo a rintracciare solo l’intervento di Antonio Perziano, segretario della Camera del lavoro, nella rubrica “Punti di vista” de Il Secolo XIX del 6 ottobre. Ci è sfuggito qualcosa?
    Prima di lasciare la parola all’appello, una piccola nota che prendiamo da Il Fatto Quotidiano dello scorso 21 agosto: “Marco Bazzoni è un lavoratore di 36 anni. Da 16 fa l’operaio in una fabbrica di Firenze che produce frantoi, presse per il settore enologico. I suoi compagni di lavoro dal 2003 lo hanno nominato Rls (Responsabile [Rappresentante, ndr] dei lavoratori per la sicurezza). Da allora è diventato un vero esperto in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Non c’è redazione di giornale o direttore che sfugga alle sue mail, ai suoi comunicati. Scrive a tutti”.
    Lui scrive a tutti, ma i “tutti”, a quanto pare, fanno orecchie da mercante.

    (Paola Pierantoni)

  • OLI 271: INFORMAZIONE: Se nulla importa

    Jonathan Safran Foer, autore di Ogni cosa è illuminta e di Molto forte, incredibilmente vicino, è un giovane e notevole scrittore americano, che, dopo il suo grande successo internazionale, ha deciso di dedicare tre anni – tre anni sono molti – per svolgere una inchiesta e per scrivere un libro sull’allevamento industriale degli animali.
    Il titolo originale del libro è Eating Animals, diventato – nella edizione italiana – Se niente importa (Guanda, febbraio 2010, 18 €). Il fenomeno narrato è la drammatica esplosione dell’allevamento intensivo di polli, tacchini, maiali e bovini nella produzione di carne, uova, latte negli Stati Uniti dove, documenta Foer, la zootecnia industriale occupa oggi il 99% del mercato, mentre gli allevatori familiari o artigianali sono ridotti ad una quota residuale. Sessanta pagine di note e bibliografia, decine di interviste che includono colloqui approfonditi con lavoratori del settore, molte visite di persona ufficiali e clandestine agli allevamenti documentano nel dettaglio questa realtà produttiva, e le sue conseguenze.
    Osserva Foer “L’industria zootecnica esercita la propria influenza politica sapendo che il proprio modello di business dipende dal fatto che i consumatori non hanno la possibilità di vedere o sentire”. Le cose che documenta lo scrittore americano sono infatti strazianti, intollerabili, se guardiamo al prezzo richiesto in termini di sofferenza degli animali sia nel corso della vita che durante la macellazione. Ed estremamente preoccupanti se si guarda alle conseguenze in termini di impatto ambientale, di salute per i consumatori, e di condizioni psico-fisiche per i lavoratori.
    E qui veniamo a casa nostra. Al momento della uscita del libro i giornali ne hanno parlato, hanno riportato stralci dal libro, hanno intervistato l’autore (La Repubblica del 19/02/2010; Il Corriere della Sera del 3/3/2010; Liberazione del 8/3/2010 … ), ma in nessuno degli articoli viene introdotta la questione di cosa avvenga qui da noi, in Italia e in Europa. Magari nella UE c’è qualche regola in più, magari le cose vanno un po’ meglio, ma non mi risulta (mi sbaglio?) che i grandi organi di informazione abbiano preso dal libro di Foer lo spunto per avviare una propria attività di inchiesta su questo tema. L’argomento resta così circoscritto in un confine esotico e lontano, che non ci tocca davvero. Materia letteraria, quindi, e non politica.
    Eppure l’argomento meriterebbe tutta l’attenzione possibile perché tocca trasversalmente i territori della economia, del mercato, della informazione, della salute, della ecologia, della etica. Perché solleva la questione del rapporto tra scelte individuali e logiche di mercato. Perché l’informazione è la chiave di volta per rompere il muro di mistificazione e silenzio che ci rende passivamente complici di una delle grandi perversioni del nostro tempo.
    (Paola Pierantoni)

    Link:
    http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2010/02/19/chiedetevi-perche-mangiamo-gli-animali.html
    http://www.liberazione.it/rubrica-file/637766631.htm
    http://www.corriere.it/animali/10_marzo_03/jonathan-safran-foer-consumo-carne-allevamenti-intensivi_a142bbfe-26dc-11df-b168-001

  • OLI 270: INFORMAZIONE – Razzismo editoriale

    Gli uomini non sono tutti buoni, si sa. Dai tempi di Caino e Abele, c’è sempre chi si distingue per riuscire a compiere atti condannabili, metà della scienza umana è dedicata proprio allo studio delle regole di convivenza. Però, tra la cronaca di un reato e l’istigazione al razzismo dovrebbe correre molta acqua, specialmente se l’organo di informazione è un giornale come il Secolo XIX. Invece, ecco bella fresca di giornata una razzicronaca, per fortuna almeno non firmata (*). Vi si descrive un Caino straniero che, nell’ordine è marocchino per ben due volte, con permesso di soggiorno, extracomunitario, nordafricano e magrebino. Naturalmente ubriaco e pedofilo. Non è importante in questo articolo spiegare cosa abbia fatto, non perderemo tempo a descriverlo, così come dall’altra parte avrebbe dovuto avere rilievo solo il fatto in sé stesso, rispetto alla ben scarsa importanza del descrivere l’attore secondo tutte quelle caratterizzazioni geografiche, politiche e di stato civile. Un improbabile mea culpa della testata sarebbe d’obbligo.
    E visto che le “repetita iuvant”, ecco un altro esempio di incipit dal sapore razzista, sempre in un articolo del Secolo ed. di Savona di lunedi 19 luglio (**): Savona. Non solo balordi o delinquenti abituati a vivere ai margini della legge, magari extracomunitari, albanesi o marocchini. Ci sono anche i «nuovi poveri», italiani, soprattutto sessantenni, dietro agli automobilisti sorpresi con la polizza assicurativa dell’auto falsa o scaduta. Insomma non si capisce se siano i marocchini ad essere delinquenti o i nuovi poveri italiani ad essere marocchini, si lascia libertà di scelta. Qui l’unica certezza è la confusione mentale del giornalista che meriterebbe una nota di biasimo da un certo numero di ambasciate straniere in Italia.
    Non serve dire altro, se non che il Movimento del primo marzo espone la sua Mostra sui diritti, dove si tratta tra gli altri punti  proprio del problema della stampa “distrattamente razzista”, molto più pericolosa di quella dichiaratamente nazista in quanto il dolcetto avvelenato ti arriva proprio dalle mani di chi ti fidi e si fa paladino di quei valori che poi infrange con tanta leggerezza. La mostra si tiene il 24 luglio, la sera di sabato, alla Villa Imperiale, all’interno della Festa del Perù. Sarà un bel leggere esempi di altri razzarticoli.
    * http://www.ilsecoloxix.it/p/savona/2010/07/18/AM3WmlsD-ubriaco_soccorso_molesta.shtml
    ** http://www.ilsecoloxix.it/p/savona/2010/07/16/AMYZHXsD-falsi_assicurati_boom.shtml

    (Stefano De Pietro)

  • OLI 269: INFORMAZIONE – L’adesione acritica ad uno stereotipo

    Su Repubblica di lunedì 6 luglio compare la fotografia che vedete. L’articolo parla della conquista, da parte delle aziende produttrici, del mercato alimentare delle persone di religione islamica. Un mercato interessante – dice l’articolo – perché riguarda “più di un milione e mezzo di consumatori che vivono in Italia”.

    Le aziende “che sposano i principi dei prodotti halal (cioè leciti)” e che si dotato del marchio “Halal – Italia”, sono sempre più numerose, e tentano di arrivare per questa via anche ai mercati asiatici.

    Domanda a Repubblica: in base a quale criterio invece di una immagine di mercato, o di scaffali di un grande magazzino che espongono prodotti halal, la redazione ha deciso di corredare questo articolo con l’immagine di una donna completamente velata?
    Sembrerebbe un’adesione acritica, comoda e irresponsabile ad uno stereotipo senza fondamento. Infatti il Corano non prescrive questo tipo di abbigliamento che ha origine in tradizioni culturali patriarcali, che persistono in aree culturali e geografiche limitate e che sono state fatte proprie da correnti molto minoritarie dell’interpretazione islamica. Non solo: moltissimi musulmani e musulmane ritengono che il Corano non prescriva affatto il velo, anche nella forma del fazzoletto in testa, e si comportano di conseguenza.
    C’è una grande responsabilità dei mezzi di informazione nella costruzione del “senso comune”, e in questo i messaggi impliciti hanno un potere anche più grande di quelli espliciti. E’ grave che anche un giornale come Repubblica si faccia portatore di pregiudizi culturali. Davvero non ne abbiamo bisogno
    Consigliamo la lettura di “Oltre il velo” di Leila Ahmed, La nuova Italia 1995.

    (Paola Pierantoni)

  • OLI 269: SOCIETA’ – I pizzini ai tempi di Skype

    Un trafiletto (*) sulle intercettazioni telefoniche tra Tizio, Caio e Sempronio descrive i trucchetti che i tre cercano di usare per parlare sicuri al cellulare. “Questo telefono non è controllato”, “Uso il cellulare di un collega”, queste sono le affermazioni che Tizio si lascia scappare parlando con Caio, per tranquillizzarlo. Peccato che il telefono controllato fosse proprio quello di Caio.
    Se stessimo parlando di tecnologie spaziali, l’ignoranza sarebbe scusata. Però, visto che si tratta di telefonia, non arrivare a capire che in una telefonata gli apparecchi intercettabili sono due, suona come una condanna alla stupidità. Ricorda, facendo un paragone su un omicidio, il killer assoldato per pochi euro che si è presentato dal suo mandante con i guanti, come richiesto esplicitamente per evitare di lasciare traccie: ma con i guanti da autista, senza le dita …
    Le nuove norme sulla intercettazione ambientale e telefonica fanno scalpore, da tutte le parti ci si scaglia contro una legge che viene definita come “ammazzaprocessi”, “ammazzaindagini”, “ammazzaqualcosa”. Appare anche in questo caso che ci si stia presentando nel posto dell’omicidio con i guanti senza dita e convocati col telefono “sicuro”, ma sarebbe meglio dire senza conoscere Skype.
    Il noto “programmino” per fare le telefonate via internet, ma anche a rete fissa e cellulari, non è affatto un giocattolo, ha uno schema di funzionamento che assomiglia di più ad un programma per scaricare film con il “peer to peer” (emule, per intendersi), più che ad una rete telefonica standard, quindi senza un server centrale o una vera centrale telefonica dove entrare con mandato del giudice. Questo, abbinato ad un “protocollo” criptato, ossia inintelleggibile senza i necessari ed introvabili strumenti tecnologici, lo rende una vera e propria cassaforte della privacy: nessuna polizia al mondo ha annunciato fino ad oggi di avere eseguito intercettazioni su questo veicolo telefonico, senza aver avuto accesso diretto al computer da controllare. Oggi molti cellulari sono dotati di Skype onboard, quindi di fatto non intercettabili, prima di tutto perché non passano dalle classiche centrali telefoniche (dove l’intercettazione, inutile a dirsi, è un gioco da bambini), secondo perché la chiave crittografica necessaria ad “aprire” la telefonata non è condivisa se non dai due soggetti della telefonata, e non è nota agli uffici di Skype. La società lituana si guarda bene dallo svelare i propri segreti industriali, che protegge con grande accuratezza: Skype funziona sempre e comunque, passa i firewall, funziona bene anche quando la velocità di internet è molto bassa, comunque protetti, insomma un “gran bel pezzo di software“ da girarsi mentre passa … e da uso per evitare le intercettazioni, legge o non legge ammazzaqualcosa, come fosse il nuovo “pizzino”.

     * Il Secolo XIX dell’8 luglio 2010 ed. La Spezia, pag. 38)

    (Stefano De Pietro)