Categoria: Maria Di Pietro

  • OLI 408 – PALESTINA: Rinunciamo ad essere nemici

    Il prossimo inverno vorremo piantare 1000 alberi, crediamo che piantare alberi sia una forma di resistenza” mi disse Daoud con entusiasmo l’estate scorsa “quando piantiamo un albero, soprattutto un albero d’ulivo, creiamo il futuro perchè l’albero di ulivo ci impiega 10 anni per crescere. Quando piantiamo alberi proteggiamo il terreno e rendiamo la terra verde e produttiva”.
     Daoud Nasser vive con la famiglia su una collina a 15 km da Betlemme nei territori occupati palestinesi nella fattoria acquistata dal nonno nel 1916.

    Su quella collina Daoud ha realizzato il progetto della “Tenda delle Nazioni” che ha lo scopo di creare ponti tra persone, tra persone e la terra, di impegnarsi alla nonviolenza e alla difesa dei diritti e della terra in modo legale, di accogliere persone di tutte le nazioni e culture. “Il problema iniziale è stato quello di come tirar su la fattoria senza acqua e corrente elettrica. Penso che se ci sia la volontà e la motivazione di si trova il modo per andare avanti” e Daoud ha trovato il modo di vedere il suo progetto realizzato. L’acqua della pioggia viene raccolta in cisterne per poter essere utilizzata e l’elettricità arriva dai pannelli solari. La Tenda delle Nazioni ogni anno sviluppa programmi di educazione all’ambiente e al riciclo, organizza campi di volontariato per piantare alberi e organizza campi estivi per bambini che vivono nei 3 campi profughi intorno a Betlemme. “attraverso la pittura, musica e teatro, vogliamo che i ragazzi scoprano i loro talenti perchè qui i bambini sono traumatizzati
     La Tenda delle Nazioni è circondata dagli insediamenti israeliani. Da quando sono arrivati i coloni la terra di Daoud subisce continui soprusi da parte dell’esercito militare israeliano perché la fattoria, nel luogo in cui si trova, impedisce alle colonie di espandersi. Il governo israeliano ha cercato di mandar via la famiglia di Daoud con violenza e minacce.
    Dal 1991, il terreno è stato confiscato più volte e Daoud si è sempre presentato davanti alla corte militare per provare che è il legittimo proprietario grazie ai documenti di acquisto rilasciati al nonno cento anni prima. Dal 2001 la strada per accedere alla fattoria è stata bloccata, il governo sta cercando di isolarli e quando finiranno di costruire il muro dell’apartheid la collina su cui vive Daoud sarà fuori Betlemme e sarà difficile per loro andare dall’altra parte del muro.
    Nel 2010 hanno ricevuto 13 ordini di demolizione. “In questa situazione le persone possono reagire in 3 modi: violenza, rassegnazione o andar via” ma nessuna delle tre possibilità piace a Daoud “ la violenza genera altra violenza, sedersi e piangersi addosso o rinunciare alla mia terra non va bene” così Daoud ha pensato ad altre soluzioni “rifiutiamo di essere vittime e di odiare, siamo persone che credono nella giustizia. Non possiamo cambiare le cose esterne se prima non lavoriamo su noi stessi, Dobbiamo rinunciare ad essere nemici
     Lo scorso 19 maggio alle 8 del mattino i bulldozer israeliani sono entrati nella fattoria di Daoud ed hanno abbattuto e distrutto 1500 alberi da frutta. Meli, albicocchi, mandorli. fichi e piante d’uva non esistono più. 
    Questa volta i soldati hanno colpita la parte più intima della famiglia di Daoud “la terra fa parte della nostra identità, è come nostra madre, e non possiamo vendere nostra madre, come sarebbe l’uomo se vincesse sul mondo ma perdesse se stesso...”

     Ora su quella terra c’è desolazione e amarezza. I 1500 alberi coltivati con passione da anni sono spariti.
     Ai soldati israeliani è permesso di rubare le terre dei palestinesi, di assediare interi villaggi, di arrestare ed usare la forza nei confronti di innocenti. Ma non sono ancora riusciti a colpire il coraggio, le lotte e il futuro di Daoud. “E’ frustrante e difficile ma noi non vogliamo arrenderci“.
     (Maria Di Pietro)

  • OLI 394: SAN BENEDETTO – 43 anni dopo, su la testa!

    “Su la testa” era scritto sulla torta preparata per il 43mo anniversario della Comunità di San Benedetto al Porto festeggiato lo scorso 8 dicembre a Genova a cui hanno partecipato 450 persone riunite per ricordare Don Andrea Gallo fondatore della Comunità mancato lo scorso 22 maggio.
    “Su la testa” urlava il Gallo ai suoi ragazzi esortandoli a non mollare, ma oggi, per i ragazzi di Andrea è una giornata difficile; la nostalgia è forte e la commozione è viva. La mattina si è svolta la messa nella Chiesa di San Benedetto celebrata da Don Luigi Ciotti che, come il Gallo, incita a “trovare il coraggio di non fare compromessi” dice “nella vita siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Abbiamo solo questa vita per amare i fratelli, per riconoscere le avversità, abbiamo solo questa vita per metterci in gioco. Non basta indignarsi, l’indignazione si cura dando dignità alla vita, alla libertà alla democrazia alla nostra Costituzione…”.
    Don Luigi ricorda che “Don Gallo aveva intuito in vita che l’unica verità che rende liberi è il servizio, è il mettersi in gioco” dice “Don Andrea è stato capace di abitare il suo tempo, anche noi dobbiamo essere capaci di abitare il nostro tempo con lucida sapienza, lui aveva intuito i cambiamenti non è mai rimasto prigioniero del passato”
    Don Luigi ricorda che Don Federico 43 anni fa ha detto un “si” a Don Andrea “che è diventato sorpresa, la sorpresa della gratuità, la sorpresa del dono, la sorpresa della nascita della Comunità, la creazione di un punto di riferimento per sentirsi amati ed accolti”
    E la Comunità di San Benedetto è diventato un punto di riferimento per tanti ragazzi e ragazze che in 43 anni hanno “camminato” con Andrea. Ma oggi Andrea non c’era. Andrea era nel cuore dei ragazzi. “Su la testa” ragazzi.
    (Maria Di Pietro – Galleria immagini di Ivo Ruello e Paola Pierantoni)

  • OLI 388 – PALESTINA: Muri dentro di noi

    Sono sul volo Tel Aviv – Roma, è fine estate, guardo dal finestrino, ormai la Palestina è alle mie spalle. Ripenso all’intenso viaggio appena terminato: ripercorro paesaggi, il deserto, i villaggi, gli insediamenti, campi profughi, check points, ricordo i volti, le testimonianze e il muro! Un muro che incute disagio e desolazione. Il muro di separazione formato da blocchi di cemento alti sette metri allineati su un percorso di 730km che dal 2002 impediscono la libertà di movimento di un’intera popolazione.

    Stiamo ormai volando sul mar mediterraneo, vicino a me siedono due ragazzi di sedici anni, chiacchieriamo, mi chiedono di raccontare un po’ di storia sulla Palestina.
    Inizio con il 1947 quando la risoluzione dell’Onu 181 decide la spartizione del territorio palestinese tra due popoli: Israele per il 55% del territorio e la Palestina per il 45%.
    Parlo della Nakba del 1948: la catastrofe per i palestinesi e la nascita dello Stato d’Israele per gli israeliani. La signora seduta nella fila davanti a noi, una bella donna sulla sessantina, si gira ed inizia ad urlarmi che quello che sto dicendo non è vero sostenendo che i palestinesi rubarono le case degli israeliani mandando via chi vi abitava. Le chiedo dove ha preso queste informazioni, a me non risultano. Dice che ha lavorato per i servizi segreti israeliani, a stretto contatto con le istituzioni sia israeliane che palestinesi, e che lei conosce la vera storia. La signora, un’ebrea nata e vissuta fino all’adolescenza in Romania, si vanta di sapere sette lingue e di aver girato il mondo in gioventù. Andiamo avanti con la discussione, afferma che i palestinesi siano dei violenti e che lei e tanti come lei lottino per la pace. Allora le chiedo cosa pensa del muro. Penso che chiunque “lotti per la pace” inorridisca davanti a ciò che taglia villaggi, divide famiglie, separa intere comunità da luoghi sanitari, scolastici e di culto, La signora mi risponde che ritiene il muro fondamentale per la difesa del popolo israeliano, continua dicendo che il lancio di pietre possono ammazzare gli israeliani. Le ricordo che durante operazione piombo fuso i militari israeliani sulla Striscia di Gaza non hanno lanciato pietre ma fosforo bianco sui civili, ammazzando 1387 palestinesi in 22 giorni. Armi chimiche non autorizzate dalla convenzione di Ginevra. La discussione si fa più accesa.
    Le esprimo l’assurdità nell’adottare una “democrazia” difensiva per giustificare l’occupazione dei territori.
    La signora non vuole più ascoltarmi, ormai ascolta solo se stessa, la discussione va avanti, mi viene rabbia. Ognuno di noi rimane sulle sue posizioni, La signora continua il suo monologo affermando che nelle scuole palestinesi c’è un indottrinamento alla violenza. Non accetto le convinzioni della signora e sicuramente lei non accetta le mie; penso ai ragazzi israeliani che sono costretti a prestare tre anni di servizio militare, penso al libro della scrittrice israeliana Nurit Peled “La Palestina nei testi scolastici israeliani: ideologia e propaganda nell’istruzione” che analizza le rappresentazioni della Palestina nei libri scolastici adottati dalle scuole superiori israeliane, in cui si trovano forme di razzismo verso il popolo palestinese; i palestinesi non sono mai rappresentati come esseri umani ma come problema. Provo ad esprimere questi miei pensieri anche se ormai tra me e lei si è alzato un muro, non c’è più confronto, il dialogo è naufragato.
    Stiamo per atterrare, sono demoralizzata, mi domando come si può giustificare tanta disumanità e sofferenza dell’essere umano. Penso alle organizzazioni israeliane che lottano contro l’occupazione, alle donne ebree di “Machsom watch”, agli ex militari israeliani di “Breaking the silence”, alla Rete ECO “Ebrei contro l’occupazione”, agli attivisti israeliani che collaborano con i Comitati Popolari palestinesi.
    Penso a cosa vuol dire lottare per la pace e subito mi vengono in mente le parole di un padre palestinese che aveva perso la figlia di dieci anni ammazzata da un militare israeliano: “prima di fare pace devi vivere la pace dentro di te”.
    (Maria Di Pietro)

  • OLI 381: PAROLE DEGLI OCCHI – Popoli in rivolta

    Campo profughi “Aida Camp” Betlemme – Foto di Maria Di Pietro

  • OLI 381: PALESTINA – Il Freedom Theatre a Bologna?

    …quando prendi i bambini e li metti in teatro la loro mente riscopre la fantasia di cui erano stati privati, e se dai a loro anche la possibilità di lavorare come attori, riabiliti il ragazzo, riabiliti la sua umanità e in questo modo diventa più forte la sua personalità, il suo pensiero e il suo carattere; tutto ciò rappresenta un pericolo per Israele, che non vuole questo….” ha dichiarato Mustafa Staiti durante il nostro incontro al Freedom Theatre di Jenin a nord dei territori occupati palestinesi.
     Mustafa è uno dei tanti ragazzi che è nato durante la prima Intifada e che ha vissuto la sua adolescenza durante la seconda Intifada nel campo profughi di Jenin, dove ha visto amici e parenti uccisi durante l’invasione dell’esercito israeliano nel 2002 nel campo profughi e l’arresto di suo papà.
    Mustafa lavora al Teatro della Libertà “…l’arte può diventare uno strumento per la libertà…” mi dice.
    Il Freedom Theatre è stato fondato da Arna Mer Khamis, attivista ebrea sposata con un arabo-palestinese, che durante la prima Intifada crea un luogo artistico in cui bambini e bambine del campo profughi di Jenin possano esprimere paure, frustrazioni, rabbia e amarezze attraverso corsi di recitazione e seminari di drama therapy.
    Dopo la morte di Arna nel 1995, il teatro continua a portare avanti il sistema alternativo di educazione. Nel 2002 il teatro è stato distrutto durante l’invasione nel campo profughi di Jenin da parte dell’esercito israeliano e alcuni ragazzi, giovani attori, cresciuti con Arna sono stati uccisi.

    Nel 2006 il teatro è stato ricostruito dal figlio di Arna, Juliano Mer Khamis, attore e attivista, e Zakariya Al Zubeidi, leader delle Brigate di Al Fatah ed ex “bambino” di Arna, sopravvissuto alla seconda Intifada.
    Stiamo per iniziare una nuova intifada fatta di poesia, teatro, arte, diritti umani, dimostrazioni pacifiche contro il muro” aveva dichiarato Juliano, figlio di un’israeliana e di un palestinese, che si definiva al 100 per cento di entrambe le nazionalità anche se ha abbracciato la causa palestinese.
    Juliano porta avanti il lavoro di Arna e il suo impegno politico, insegna ai ragazzi ad usare il proprio corpo come mezzo espressivo, per agire dentro i conflitti e la guerra. Il suo lavoro termina il 4 aprile 2011 quando viene assassinato a Jenin con cinque colpi di pistola. Aveva 52 anni.
    La sua morte ha lasciato un senso di amarezza nei ragazzi del Freedom Theatre che, nonostante il dolore e la difficile perdita, hanno deciso di continuare a portare avanti il messaggio di libertà
    Il 13 e 14 luglio prossimi, i giovani attori del Freedom Theatre sono stati invitati a partecipare all’estate culturale a Bologna con un loro spettacolo, ma i fondi messi a disposizione non sono sufficienti per coprire tutte le spese ed avere un margine economico per gli attori, che è giusto siano retribuiti per il loro lavoro.
    Bisogna raccogliere 5000 euro entro il 30 giugno, per chi volesse contribuire può farlo sul c/c bancario:  IBAN IT 50 O 03127 74610 00000 0001527 intestato ad Assopace Palestina – causale Jenin
    Il Freedom Theatre crede che il teatro e le arti abbiano un ruolo cruciale per la creazione di una società libera e sana” Juliano Mer Khamis.
    (Maria Di Pietro – foto da internet)

  • OLI 379: PALESTINA – Il “fuorigioco” della UEFA

    Dal 5 al 18 giugno nella stato di Israele si svolgerà il campionato sportivo UEFA Under 21, una manifestazione che vedrà coinvolte squadre di calcio europee e milioni di tifosi che si concentreranno, aiutati dai media internazionali, esclusivamente sulle partite di calcio dimenticando che quelle partite saranno giocate in alcune zone di un territorio occupato illegalmente da 60 anni.
    Ai giovani palestinesi sarà negato di partecipare alla manifestazione perché non possono muoversi liberamente nel loro paese in quanto abitano al di là del muro dell’apartheid dove non è permesso uscire. Lo stato ebraico molte volte ha impedito di praticare sport ad atleti palestinesi vittime di violenze ed arresti ingiustificati da parte dell’esercito israeliano come è successo al calciatore della nazionale palestinese Mahmoud Sarsak incarcerato per 3 anni senza accuse e rilasciato l’estate scorsa dopo 92 giorni di sciopero della fame e proteste internazionali. Ad aprile le autorità israeliane hanno negato il permesso a cinque maratoneti della striscia di Gaza di partecipare alla “maratona di Betlemme”.

    Ricordiamo inoltre che durante i bombardamenti su Gaza dello scorso novembre durante l’Operazione Pilastro di Difesa sono state distrutte infrastrutture sportive palestinesi tra cui lo stadio di calcio di Gaza e la sede del comitato nazionale paraolimpico, alcuni campi sportivi sono stati bombardati uccidendo i ragazzi palestinesi che vi stavano giocando.
    E’ assurdo che un’importante manifestazione sportiva possa essere organizzata da un Paese che tiene sotto assedio e reprime quotidianamente il popolo Palestinese.
    Sono stati lanciati appelli da tutto il mondo; la campagna “Cartellino rosso contro l’Apartheid” – tra i firmatari Desmond Tutu e Frédéric Kanouté – in questi mesi ha raccolto firme per chiedere alla Uefa di modificare la decisione di far giocare in Israele gli Europei Under 21: “Nonostante gli appelli diretti da parte di rappresentanti di questo sport in Palestina e di organizzazioni antirazziste e per i diritti umani in tutta Europa, la UEFA premia il comportamento crudele e fuori legge di Israele conferendole l’onore di ospitare il campionato europeo Under21″ è scritto nella lettera pubblicata da The Guardian.
    Il fatto che Israele ospiti il campionato europeo UEFA Under 21, in queste circostanze, verrà visto come un premio per azioni che sono contrarie ai valori dello sport” hanno dichiarato 50 atleti europei in una lettera indirizzata al Presidente della Uefa Michel Platini.
    Se i tanti appelli, lanciati da tutto il mondo per spostare il campionato, dovessero essere ignorati, dando così ad Israele l’opportunità di presentarsi come paese normale e democratico, la campagna Cartellino Rosso farà appello perché si svolgano proteste in tutta l’Italia l’8 giugno, giorno della partita Italia – Israele, auspicando l’apertura di un dibattito pubblico sul tema e una diffusa mobilitazione della società civile.
    Chiedo ai tanti tifosi e appassionati di calcio se si possa immaginare in futuro una manifestazione sportiva etica basata sul rispetto sia di chi pratica lo sport sia di chi lo sostiene.
    (Maria Di Pietro – foto da internet)

  • OLI 377 – PALESTINA: La Nakba di ieri, la catastrofe di oggi

    Il 15 maggio 1948 l’esercito sionista ha invaso i territori palestinesi impossessandosi delle terre, delle case e del futuro del popolo palestinese. Almeno 800mila persone sono state espulse dalle loro case e sono state costrette a vivere nei campi profughi. Chi non è riuscito a scappare o chi si è ribellato, è stato ucciso.

    Più di 500 villaggi palestinesi sono stati evacuati e completamente distrutti.
     Il 15 maggio per i palestinesi è il giorno della “Al Nakba”, che significa in arabo “la catastrofe”, il ricordo di una vera e propria pulizia etnica in cui lo scopo non era solo annientare la popolazione ma cancellare il popolo palestinese dalla storia e dalla memoria con l’eliminazione di foto, documenti e testimonianze
    “I vecchi rifugiati moriranno e i giovani dimenticheranno” affermò David Ben Gurion, primo ministro di Israele all’epoca; oggi nel mondo si contano 6 milioni di rifugiati palestinesi che vivono in campi profughi sia all’interno della Palestina che nei paesi limitrofi (Siria, Giordania, Libano) spesso in condizioni disumane, e non hanno nessuna intenzione di dimenticare la loro storia anche se non gli è ancora permesso di tornare nelle loro case d’origine nonostante la risoluzione ONU 194 approvata l’11 dicembre 1948 che cita nell’art.11 “…ai rifugiati che desiderano tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbe essere consentito di farlo al più presto possibile…” mai messa in atto.

    La Nakba per il popolo palestinese non è mai terminata, ancora oggi il governo israeliano, attraverso politiche razziste, di apartheid costringe i palestinesi a lasciare la loro terra e le loro case per la costruzione di colonie.
    Lo sradicamento di ulivi, il furto dell’acqua, l’impedimento di viaggiare liberamente sul proprio territorio, fanno parte dello scenario quotidiano palestinese. Chi si ribella a questa politica oppressiva viene arrestato. Ogni anno, il 15 maggio, mentre lo stato ebraico festeggia la nascita dello Stato d’Israele, i palestinesi commemorano il giorno della Nakba anche per rinnovare il sogno che hanno in comune tutti i rifugiati palestinesi: il ritorno nelle loro case.
    Il 15 maggio 2013 a Genova ricorderemo il 65° anniversario del giorno della Nakba con la proiezione del film “Roadmap to Apartheid” alle h.21 in p.zza Posta Vecchia e il 17 maggio 2013 alle ore 17,30 con un presidio in p.zza San Lorenzo.
    (Maria Di Pietro – foto da internet)

  • OLI 375: LAVORO – Benetton nella fabbrica crollata in Bangladesh

    Ennesima catastrofe in Bangladesh per il crollo della fabbrica Rana Plaza a 30 km da Dhaka, avvenuto il 24 aprile scorso, che ha causato la morte di oltre 380 operai, 2000 feriti e molti dispersi che lavoravano per i grandi marchi della moda internazionale. L’edificio Rana Plaza ospitava 5 fabbriche di abbigliamento dove migliaia di operai ogni giorno lavoravano stipati in condizioni disumane. Loro stessi avevano denunciato le preoccupanti crepe all’interno dell’edificio, ma gli era stato intimato dai datori di lavoro di restare nella fabbrica.
    La Campagna Abiti Puliti (Clean Clothes Campaign), associazione internazionale nata per assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori e lavoratrici del tessile, sta intervenendo denunciando i grandi marchi implicati tra cui Primark, Mango e l’italiana Benetton, quest’ultima in un primo momento aveva dichiarato di non aver legami diretti con le fabbriche del Rana Plaza.
    L’agenzia AFP ha fotografato tra le macerie alcune t-shirt con etichetta “United Colors of Benetton”.

    Inoltre Abiti Puliti è in possesso di una copia di un ordine d’acquisto da parte di Benetton per capi prodotti dalla New Wave, una della 5 fabbriche dell’edificio.
    La Campagna Abiti Puliti sta facendo pressione sull’azienda veneta chiedendo di assumersi le proprie responsabilità su queste tragiche morti sostenendo i familiari delle vittime. “Aziende importanti come la Benetton hanno la responsabilità di accertare a quali condizioni vengono prodotti i loro capi” ha dichiarato Deborah Lucchetti – coordinatrice e referente italiana della Campagna Abiti Puliti – “e di intervenire adeguatamente e preventivamente per garantire salute e sicurezza nelle fabbriche da cui si riforniscono”.
    Il crollo del Rana Plaza è una delle tante tragedie avvenute nel sud est asiatico: ricordiamo l’incendio della fabbrica pakistana Ali Enterprises dove lo scorso settembre sono arsi vivi 300 lavoratori per la mancanza di uscite di sicurezza e l’incendio di novembre della Tazreen Fashions in Bangladesh dove hanno perso la vita più di 100 operai che cucivano per C&A, Carrefour, Kik e Walmart, lavorando 12 ore al giorno per 30 dollari al mese.
    Il tessile è un settore redditizio e le aziende occidentali di abbigliamento sono più interessate a massimizzare i profitti che alla sicurezza e ai diritti dei lavoratori. Il sud-est asiatico è il più grande esportatore di prodotti tessili al mondo, come possiamo notare dalle etichette che ogni giorno indossiamo.
    Anche i consumatori spesso sono responsabili e complici inconsapevoli di questo processo in cui, attraverso l’acquisto di abbigliamento, contribuiscono a mantenere in schiavitù i lavoratori che cuciono e confezionano i nostri abiti per pochi dollari al mese.
    Come consumatori consapevoli possiamo sostenere la campagna firmando la petizione online che chiede che i lavoratori in Bangladesh siano tutelati da norme di sicurezza più severe.
    (Maria Di Pietro – foto da internet) 

  • OLI 373: PALESTINA – Samer Issawi, in fin di vita per la libertà

    In occasione della giornata internazionale di solidarietà con i detenuti politici palestinesi del 17 aprile, riportiamo il discorso del prigioniero Samer Issawi, da 8 mesi in sciopero della fame, che nonostante sia in fin di vita per le sue condizioni fisiche, continua a lottare contro la repressione israeliana. Il 20% della popolazione palestinese residente nella West Bank è stata arrestata almeno una volta, in questo momento ci sono 4700 prigionieri nelle carceri israeliane rinchiusi in celle di pochi metri quadrati in cui vivono in media 30 detenuti ammassati in condizioni igieniche nulle. Per questo i prigionieri ammalati continuano ad aumentare e continuano a non ricevere alcuna assistenza sanitaria. I prigionieri palestinesi vengono sottoposti in maniera sistematica ad atroci torture sia fisiche che psicologiche.
    Chi esercita maltrattamenti e torture ha l’assoluta impunità anche se si tratta di personale sanitario le cui azioni entrano in conflitto con l’etica medica.

    Israele utilizza una struttura giudiziaria arbitraria che consente l’arresto e la detenzione in carcere senza processo e senza la presenza di un avvocato su individui dai 12 anni di età. E’ partita una campagna internazionale organizzata dalle associazioni per i diritti umani contro la detenzione amministrativa.
     La detenzione amministrativa è una tattica usata per detenere i palestinesi a tempo indeterminato senza mai portarli in giudizio. L’uso che Israele fa della detenzione amministrativa viola diverse norme internazionali: deportazione dei palestinesi da Israele ai territori occupati, la negazione delle visite regolari dei parenti ed avvocati, la non considerazione dell’interesse superiore dei bambini detenuti come richiesto dal diritto internazionale.
    (Maria di Pietro – Immagini da internet)
    Per leggere il discorso di Samer Issawi clicca su: continua a leggere

     “Israeliani Sono Samer Issawi in sciopero della fame da otto mesi consecutivi, attualmente ricoverato in uno dei vostri ospedali chiamato Kaplan. La mia situazione è monitorata 24 ore su 24 grazie ad un dispositivo medico che è stato inserito sul mio corpo. I miei battiti cardiaci sono rallentati e il mio cuore può cessare di battere da un momento all’altro. Tutti – medici, funzionari e ufficiali dell’intelligence – attendono la mia resa e la mia morte. Ho scelto di rivolgermi a voi intellettuali, scrittori, avvocati, giornalisti, associazioni e attivisti della società civile per invitarvi a farmi a visita, in modo tale che possiate vedere ciò che resta di me, uno scheletro legato ad un letto d’ospedale, circondato da tre carcerieri esausti che, a volte, consumano le loro vivande succulente, in mia presenza. I carcerieri osservano la mia sofferenza, la mia perdita di peso e il mio graduale annullamento. Spesso guardano i loro orologi e si chiedono a sorpresa: come fa questo corpo così martoriato a resistere dopo tutto questo tempo? Israeliani Faccio finta di trovarmi innanzi ad un intellettuale o di parlare con lui davanti ad uno specchio. Vorrei che mi fissasse negli occhi e osservasse il mio stato comatoso, vorrei rimuovere la polvere da sparo dalla sua penna e il suono delle pallottole dalla sua mente, in modo tale che egli sia in grado di scorgere i miei lineamenti scolpiti in profondità nei suoi occhi. Io vedo lui e lui vede me; io lo vedo nervoso per le incertezze future, e lui vede me, un fantasma che rimane con lui e non lo lascia. Potete ricevere istruzioni per scrivere una storia romantica su di me, e lo potreste fare facilmente. Dopo avermi spogliato della mia umanità, potrete descrivere una creatura che non possiede null’altro che una gabbia toracica, che respira e soffoca per la fame, perdendo di tanto in tanto coscienza. Ma, dopo il vostro freddo silenzio, il racconto che parla di me, non sarà null’altro che una storia letteraria o mediatica da aggiungere al vostro curriculum, e quando i vostri studenti diventeranno adulti crederanno che i Palestinesi si lasciano morire di fame davanti alla spada dell’israeliano Gilad e voi potrete rallegrarvi per questo rituale funebre e per la vostra superiorità culturale e morale. Israeliani Io sono Samer Issawi il giovane “Araboush” come mi definisce il vostro gergo militare, l’Uomo di Gerusalemme che avete arrestato senza accusa, colpevole solo di essersi spostato dal centro di Gerusalemme verso la sua periferia. Io sono stato processato due volte senza alcuna accusa perché nel vostro Paese sono le leggi militari a governare e i servizi segreti a decidere mentre tutti gli altri componenti della società israeliana devono limitarsi a trincerarsi e nascondersi dietro quel forte che continua ad essere chiamato purezza di identità – per sfuggire all’esplosione delle mie ossa sospette. Non ho udito neanche uno di voi intervenire per tentare di porre fine allo squarciante gemito di morte. E’ come se ognuno di voi – il giudice, lo scrittore, l’intellettuale, il giornalista, l’accademico, il mercante e il poeta – si fosse trasformato in un affossatore e indossasse una divisa militare. E stento a credere che una società intera sia diventata spettatrice della mia morte e della mia vita e protettrice dei coloni che hanno distrutto i miei sogni insieme agli alberi della mia Terra. Israeliani Morirò soddisfatto e avendo soddisfatto gli altri. Non accetto di essere portato fuori dalla mia patria. Non accetto i vostri tribunali e le vostre leggi arbitrarie. Dite di aver calpestato e distrutto la mia Terra in nome di una libertà che vi è stata promessa dal vostro Dio, ma non riuscirete a calpestare la mia nobile anima disobbediente. La mia anima si è risanata, si è liberata e ha celebrato il tempo che le avete tolto. Forse capite che la consapevolezza della libertà è più forte di quella della morte… Non date ascolto a quei luoghi comuni, ormai obsoleti perché lo sconfitto non rimarrà sconfitto in eterno così come il vincitore non resterà un vincitore in eterno. La storia non si misura solo attraverso battaglie, massacri e prigioni ma anche e soprattutto dal sentirsi in pace con gli Altri e con se stessi. Israeliani Ascoltate la mia voce, la voce dei nostri tempi, nonché la vostra voce! Liberate voi stessi dell’eccesso avido di potere! Non rimanete prigionieri dei campi militari e delle sbarre di ferro che hanno serrato le vostre menti! Io non sono in attesa di essere liberato da un carceriere ma sto aspettando che voi vi liberiate della mia memoria.” (Samer Issawi)

  • OLI 370: PALESTINA – Vittorio Arrigoni: ambasciatore di pace

    (foto dell’autrice)

    Un incontro emozionante domenica sera a Genova con Egidia Beretta Arrigoni e Don Andrea Gallo per la presentazione del libro “Il viaggio di Vittorio“, scritto dalla madre, che ripercorre la breve vita di Vittorio Arrigoni rapito e assassinato a Gaza il 14 aprile 2011.
    Molta commozione nel ricordare Vittorio. La sua passione per la giustizia e per la dignità umana lo portano a servizio degli oppressi durante i suoi viaggi. Attivista, militante, volontario, pacifista, scudo umano, reporter. Vittorio trova il senso della sua vita in Palestina nella Striscia di Gaza nella prigione a cielo aperto dove gli abitanti non possono varcare i confini neanche per andare a lavorare. Vittorio decide di stare affianco ai palestinesi nella loro quotidiana lotta di sopravvivenza interponendosi tra i contadini e i cecchini israeliani che sparano durante il raccolto, tra i pescatori e la marina militare israeliana che con ogni mezzo violento impedisce la pesca ai palestinesi.
    Vittorio vivrà a Gaza 3 anni fino al suo assassinio. Soggetto scomodo per le autorità militari israeliane, inserito già nella black list delle persone sgradite ad Israele, arrestato e poi espulso, Vittorio torna nella Striscia via mare, non si lascia intimidire e continua il suo impegno con l’International Solidarity Movement; decide di restare nell’inferno di Gaza durante “Operazione Piombo Fuso”: tre settimane di bombardamenti israeliani su Gaza che tra dicembre e gennaio del 2009 hanno causato oltre 1300 morti e più di 5000 feriti. Vittorio, unico testimone italiano, attraverso il suo blog guerrillaradio ha dato voce alla popolazione martoriata. I suoi reportage sono stati raccolti nel libro “Gaza. Restiamo umani“.
    “Davanti a tanta disumanità devi restare umano…” mi disse quando lo incontrai a Genova dopo Operazione Piombo Fuso; e Vittorio la disumanità la conosceva bene: raccogliere pezzi dei suoi amici palestinesi e teste di bambini erano le cose più atroci che aveva visto quando girava con le ambulanze della mezzaluna rossa per trasportare i feriti all’ospedale. “…ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman” scrive Vittorio durante la strage a Gaza “non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perchè piango anche io….”.

    (foto da internet)

    Certi giorni, quando sono sola, mi rifugio nella stanza segreta del mio cuore e lascio che il dolore mi strazi, e piango e lo chiamo, chiamo forte il mio bambino che non c’è più” scrive Egidia nel libro. E per lei Vittorio oggi vive attraverso gli incontri, attraverso la corrispondenza che aveva con lui, attraverso il blog e attraverso le persone che lo hanno conosciuto e che continuano a ricordarlo.
    Vittorio, “ambasciatore di pace” e ” grande fiore della pace” come lo ha ricordato Don Gallo, sembrava essere insieme a noi domenica, con la sua pipa e il berretto nero, ad esortarci a “restare umani”.
    E noi domenica lo abbiamo ricordato così:
     “La storia siamo noi, la storia non la fanno i governanti codardi con le loro ignobili sudditanze ai governi militarmente più forti. La storia la fanno le persone semplici, gente comune, con famiglia a casa e un lavoro ordinario, che si impegnano per un ideale straordinario come la pace, per i diritti umani, per restare umani. La storia siamo noi che mettendo a repentaglio le nostre vite, abbiamo concretizzato l’utopia, regalando un sogno, una speranza a centinaia di migliaia di persone. […] 
    Il nostro messaggio di pace è un invito alla mobilitazione per tutte le persone comuni , a non delegare al vita al burattinaio di turno, a prendersi di petto la responsabilità di una rivoluzione, rivoluzione interiore innanzitutto, verso l’amore, l’empatia, che di riflesso cambierà il mondo. […] la pace non è un’utopia e se lo è abbiamo dimostrato che a volte le utopie si concretizzano. Basta crederci, fermamente impegnarsi, contro ogni intimidazione, timore, sconforto, semplicemente restando umani”.  Vittorio Arrigoni, 3 settembre 2008

    video dell’incontro del 17 marzo: http://www.arcoiris.tv/modules.php?name=Unique&id=15797
    (Maria Di Pietro)