Categoria: Arianna Musso

  • OLI 392: TEATROGIORNALE – Lo sciopero dei miei sogni

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali].

    A Genova c’è lo sciopero generale e il vento. Non è una novità a Genova, c’è sempre vento ma non tutti sanno che a volte questo si incanala tra i pilastri e fa cantare la sopraelevata. Il suo canto oggi non è disturbato dal rumore delle macchine perché dopo una settimana di sciopero dei mezzi pubblici i genovesi hanno deciso che è stupido prendere tutti la macchina e rimanere imbottigliati nel traffico. Molti motorini, biciclette, monopattini, pattini a rotelle, passeggini e anche un sidecar. Le poche macchine che girano vanno ai venti all’ora e si fermano a chiedere alle donne incinte o agli anziani se desiderano un passaggio.
    -Io ho fatto la partigiana!
    Urla una vecchina brandendo il bastone a tre piedi contro una punto classic grigia che si è fermata ad offrirle uno strappo.
    -Non mi spavento per due passi, belinun! E scendi da quella macchina che ti si rammollisce il cervello!
    La punto classic rimane interdetta e poi continua il suo viaggio solitario, all’altezza del secondo semaforo di Corso Aurelio Saffi posteggia e un signore sui cinquant’anni apre la portiera ed esce, il vento gli scompiglia i capelli radi. Il mare è grigio blu, le nuvole toccano l’orizzonte.

    All’entrata del porto antico, all’altezza dei giochi, dei controllori dell’AMT hanno un banchetto dove chi desidera può versare un euro a sostegno dei lavoratori precettati e multati dalla prefettura: c’è la fila.
    -Alla fine oggi avrei dovuto spendere tre euro e trenta per l’autobus, ne do due e ci ho guadagnato un euro e trenta.
    Una signora bionda, con una borsa di Prada, parla con un’altra sciura con medesima pettinatura e borsa; le scarpe basse da ginnastica Hogan invece del solito mezzo tacco fanno trasparire l’eccezionalità del momento.
    -Ma non avrei mai detto di trovarti qua, cara.
    Dice l’altra tirando fuori il suo portafoglio Gucci non taroccato.
    -Ragazza, non è una questione di comunisti o di facinorosi, io non voglio che tolgano i mezzi pubblici perché non mi piace guidare e voglio il mio 35.
    Per chi non lo sapesse il 35 è l’autobus che va a Carignano.

    Poco più in là, davanti alla palestra del Mandraccio, c’è la scuola della Maddalena che fa lezione in piazza: i bambini hanno i cartellini identificativi come durante le gite e scrivono sdraiati a terra sopra un enorme telone colorato. I maestri e le maestre hanno portato la lavagna di ardesia e vi hanno attaccato degli striscioni che dalla lavagna vanno fino alle ringhiere del Porto Antico, un gabbiano passeggia sul filo. Sugli striscioni c’è scritto: “GIU’ LE MANI DALLA SCUOLA PUBBLICA- SCUOLE IN SICUREZZA ORA E SUBITO”.

    La scolaresca del convitto Colombo aiuta gli addetti dell’AMIU a raccogliere la spazzatura.
    -Ma perché non siete in sciopero?
    Chiede Homar di dieci anni a Pamela, la netturbina più bella di tutto il centro storico.
    -Ma siamo in sciopero.
    Risponde lei porgendo il sacchetto dove lui mette una bottiglia di plastica vuota.
    -Siamo in sciopero perché vogliamo vivere meglio e non peggio quindi raccogliamo la spazzatura ma poi la portiamo in comune.

    Via Garibaldi è presidiata dalla polizia, sia in Piazza Fontane Marose che in Piazza della Meridiana c’è una camionetta con relativi agenti, ad ogni vicolo ci sono poliziotti in tenuta anti sommossa pronti a fermare qualunque assalto da parte dei cittadini. I netturbini però passano da via della Maddalena e, grazie all’aiuto degli abitanti di quei palazzi, calano i sacchetti dell’immondizia dai tetti in via Garibaldi come tanti palloncini neri che volano dall’alto verso il basso, dolcemente, senza far rumore.

    I negozianti, per venire incontro a tutti in questo momento di emergenza, hanno abbassato i prezzi degli articoli di prima necessità.
    -Se loro non guadagnano è giusto che neanche noi guadagniamo.
    Dice la panettiera di via Lomellini, dietro il bancone il collega guarda duro il giornalista, un ragazzo di venticinque anni in giacca blu; quest’ultimo vorrebbe fargli una domanda ma poi ci ripensa, forse i trecento euro che prende a fine mese col suo contratto a progetto non valgono il confronto con quell’omone grosso dai capelli neri.

    In porto tutto è fermo e i portuali hanno circondato la zona rossa creata dal comune così che sembra che la giunta e il sindaco siano in gabbia, ostaggio della loro stessa città. Anche gli operai e gli impiegati dell’Ansaldo hanno aderito alla protesta e si incamminano tutti insieme verso Tursi, il comune, per aiutare i loro concittadini.
    -Ma come ci arrivo in centro da mia figlia?
    Chiede un signore in cappotto e coppola a un gruppo di impiegate in corteo.
    -Non lo so, signore, gli autobus non passano da giorni, qua c’è sciopero generale, le strade sono tutte un corteo.
    -E va beh, se non passa l’autobus dovrò prendere il corteo. Dice il signore e si mette a camminare dietro la scritta: -LO STATO SIAMO NOI! GIU’ LE MANI DALLA NOSTRA CITTA’!

    Dal secolo XIX: Genova nel caos, oggi quarto giorno di sciopero

  • OLI 391: TEATROGIORNALE – Capriccio

    Da ilfattoquotidiano.it: Femminicidio, i punti deboli del decreto

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali]

    Giada e Carlo sono al Porto Antico, di fronte al Bigo. Fa caldo, il piccolo Giovanni chiede un gelato.
     -L’abbiamo già preso – lo rimprovera la madre.
     -Ma troppo tempo fa – piagnucola Giovanni e si siede per terra, la mamma lo rialza prendendolo per il braccio, Carlo è al cellulare e non si accorge della moglie che gli chiede aiuto.
    Lei urla con una voce acuta, il cinquenne non si alza da terra e inizia a colpire la vetrina dell’Eataly coi piedi. Giada a quel punto lascia il braccio di Giovanni e si scaraventa contro Carlo che si scosta per non essere investito da quella furia bionda e riccioluta di sua moglie.
    Giada è isterica ultimamente perché Giovanni fa troppi capricci, perché è stata messa in mobilità ed è anche incinta, forse. Carlo è un po’ distratto perché gli hanno abbassato lo stipendio e gli hanno prospettato un trasferimento per un anno e mezzo in un campo in Algeria. Giovanni è capriccioso perché ha caldo, non capisce perché i suoi genitori sono così strani e la sua amica Anna ha il gelato e lui no.
    Giada inciampa nelle gambe del figlio e sbatte la testa sulla panchina circolare che contiene una palma. La panchina è di legno verde ora chiazzata di sangue: Giada si è rotta il naso.
    – Ma che cazzo fai, Cristo Santo! – Grida Carlo precipitandosi, lei non risponde e non si muove, lui la gira e vede il sangue che le esce dal naso e gli occhi di lei aperti, sbarrati, respira: ha una crisi isterica.
    Carlo spaventato inizia a darle degli schiaffi per risvegliarla. 
    -Ohhh, ci sei? Giada! Cazzo, rispondi!
    Una donna bionda, di mezza età, con la montatura rossa degli occhiali che stava passando di lì con un cane di piccola taglia, inizia ad urlare: -Polizia! Polizia!
    Una pattuglia formata da due carabinieri e due alpini prontamente interviene immobilizzando Carlo a terra, scarpone sulla schiena e braccio piegato indietro. Un carabiniere chiama la volante e, prima che Giada riesca ad alzarsi, Carlo è stato portato via.
    Un’alpina si prende cura di Giada che sta cercando con gli occhi Giovanni.
    Giovanni ha smesso di piangere e scruta il punto dove il padre era stato gettato a terra.
    – Vuole che l’accompagno in ospedale?
    – Perché?
    – Sarà utile ai fini del processo.
    – Quale processo? Dov’è Carlo? Dov’è Giovanni?
    – Giovanni? L’hanno aggredita in due?
    – No, non mi ha aggredito nessuno, Carlo è mio marito.
    – Non si preoccupi, non sarà costretta a denunciarlo, la signora sta già sporgendo denuncia per lei.
    – La signora? Ma chi è?
    – C’è l’anonimato, mi dispiace, non posso dirle chi è. Comunque non si preoccupi. Eravate sposati quindi? Bene, aggravante. Mi parli di questo secondo individuo che l’ha aggredita, chi è?
    – Ma quale secondo… Giovanni! Urla Giada rivolta al figlio che subito le corre tra le braccia. 
    – Di bene in meglio, davanti a un minore. Non mi dica che è anche incinta?
    – Ma lei come fa a saperlo?
    – Bene, le dico fin da subito che suo marito non potrà più avvicinarsi a casa sua, anche se lo stato di fermo dovrebbe già garantirle una discreta tranquillità.
    – Di fermo? ma cosa dice? Voglio parlare subito con mio marito, c’è stato un’equivoco!
    – Non si preoccupi, la denuncia è ormai irrevocabile, qualunque cosa lei faccia ormai è inutile, il processo si farà, che lei lo voglia o no. Ora, se permette, l’accompagno in ospedale così ci facciamo fare una bella cartella clinica da consegnare al giudice. E non si preoccupi, lei, in quanto vittima, sarà informata di tutto l’iter giudiziario del suo persecutore.
    – Ma è mio marito!
    Il secondo alpino le si avvicina e l’aiuta a rialzarsi mentre il piccolo Giovanni viene preso in braccio da un carabiniere.
    – Non si deve preoccupare signora, ci siamo noi a difenderLa. Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli, venga, venga.
    Giada sale su un’ambulanza insieme a Giovanni. Non sa quando è comparsa l’ambulanza, come non ha ben capito quando è scomparso suo marito.
    Un telefono squilla, è quello di Carlo che è caduto sull’asfalto durante la colluttazione con i carabinieri, la donna bionda, quella con gli occhiali rossi che aveva chiamato la polizia e sporto denuncia, lo raccoglie e risponde, dal cellulare la voce di un uomo:  – Carlo sei tu? Allora domani ci vieni in Val di Susa si o no? Carlo? Ci sei? Dopo quello schifo di decreto non possiamo mica lasciarli fare così. Dobbiamo fargli vedere che non abbiamo paura. Carlo?
    La donna bionda con gli occhiali rossi sorride e si mette il telefono in borsa mentre il cane lecca il sangue rappreso sulla panchina.
    (Arianna Musso)

    Da radioradicale.it: Intervista a Valerio Spigarelli

  • OLI 390: SOCIETA’ – Unlearning. Una famiglia in viaggio tra decrescita, baratto e nuovi mondi.

    Un giorno mamma Anna vede un disegno della piccola Gaia: un pollo a quattro zampe. La sera lo fa vedere a papà Lucio e insieme riflettono su che tipo di insegnamenti stanno dando a loro figlia.
    Le quattro zampe del pollo sono le quattro cosce delle vaschette del supermercato? Gaia ha mai visto un pollo? Loro sono una famiglia di città ma esistono realtà diverse? Esistono modi differenti di vivere all’interno di questa società? Esiste un altro mondo possibile dove far crescere la piccola Gaia o almeno farle sapere che esiste?

     Papà Lucio è un regista video e propone alla sua famiglia di fare un viaggio-documentario per esplorare queste possibilità, quasi un manuale così che dalle loro esperienze altre famiglie si incuriosiscano e trovino ispirazione sia per la vita di tutti i giorni sia per scoprire un altro modo di viaggiare.

    Il  documentario uscirà a ottobre 2014 e sarà  di sessanta minuti più dieci micro-documentari che approfondiscono i temi più interessanti incontrati durante il viaggio e due libri: un ricettario e un manuale per riprodurre il viaggio con link, forum e indicazioni pratiche.

    Trailer

     Questo è un progetto coraggioso per molte ragioni.

    – Per l’idea di famiglia che racconta: due genitori che si mettono in discussione e mettono in discussione il loro stile di vita per cercare coerenza tra il loro sistema di valori, il modo di vivere e l’educazione che donano a loro figlia.

    – Per l’idea di società che porta avanti: per realizzare questo progetto vivranno realtà e modi di viaggiare alternativi non basati sul denaro ma sul baratto declinato in tanti modi differenti e innovativi.

    – Anche la scelta del tipo di finanziamento è in linea con la filosofia del documentario: Unlearning è un progetto di CROWDFUNDING, ovvero un finanziamento dal basso dove chiunque sia interessato può pre-acquistare il documentario, i gadget correlati o fare donazioni.

    Per avere maggiori informazioni clicca qui.

    – Non in ultimo in un periodo storico dove la parola crisi, sia economica che ideologica, sta monopolizzando le nostre vite e le nostre speranze questa famiglia curiosa, così amano definirsi, è una boccata d’aria fresca.

    (Arianna Musso)

  • OLI 390: TEATROGIORNALE – Evasione

    Corro, sono anni che sono rimasto rinchiuso.

    La cella, i guardiani, il cibo schifoso, gli occhi dei compagni: non posso più vedere quello sguardo rassegnato, quei movimenti languidi, quelle caviglie gonfie. Libero, giustamente, meritatamente libero perché io ho lottato.

    Niente più compagni di lavoro infidi, serpenti a sonagli pronti a morderti se solo ti avvicini troppo; altri invece erano apertamente aggressivi, feroci: tirano fuori gli artigli per ogni minima sciocchezza. Libero.

    Non devo far vedere che sto’ scappando, devo muovermi in maniera disinvolta, come se niente fosse: un passo dopo l’altro e poi via, di corsa dietro quel muro. Appiattirmi e nuovamente ricominciare a camminare, guardando di qua e di là in maniera disinvolta.
    Disinvolta, disinvolta…. Non ci riesco.

    Io, io me lo ricordo quello che ho lasciato qua fuori, lo so, me lo sono ripassato nella memoria per trenta lunghi anni, una forma di lotta silenziosa e tenace: ricordare, sforzarsi di non dimenticare: ogni notte prima di addormentarmi io ripensavo a quello che c’era fuori, l’ho sognato, l’ho immaginato, ho pianto di nostalgia e ora?
    E ora sono fuori ma questa terra non è la mia terra, è diversa, è più dura, più grigia.
    Provo ad appoggiarmi a queste piante ma si piegano e fanno un rumore strano, alcune poi si spostano. Non sono piante sono pietre colorate che si muovono da sole! No, queste non me le ricordavo proprio. Gli alberi hanno i tronchi lisci e delle foglie luminose. Provo ad odorarne una ma puzzano. Diciamo che puzza un po’ tutto qua intorno e non ci sono corsi d’acqua. Forse è una savana?
    Attorno a me le pietre si fermano ed escono dei tipi che mi ricordano i guardiani, meglio telare.
    Sento odore d’acqua, non ne sento il rumore, non so se è per colpa del frastuono creato da queste rocce mobili o a causa della musica assordante che mettevano i guardiani durante le ore di lavoro.
    C’era una canzone che non era male, faceva più o meno così: “non importa quel che muovi e allora muovi! tatattattatta e allora muovi!” . Questa musichetta mi fa ballare il naso, una volta che mi prende poi…

    Aspetta, aspetta, devo trovare la strada di casa, non mi devo distrarre: odore d’acqua. Ma queste montagne io non me le ricordo. Il mondo è così cambiato in trent’anni? Ci sarà ancora qualcuno ad aspettarmi? E soprattutto dove? Acqua e… che cosa è questo odore? Un odore dolce, verde diverso da questa puzza che mi invade le narici. Ci sono delle strane grotte sempre piene di quegli esseri… li schiaccio o li soffio via, o li sposto con una mossa di quelle ….”tatattattatta e allora muovi! ” No, no, non li schiaccio che iniziano tutti a urlare… che male alle orecchie! Arrivano a fare degli ultrasuoni.
    Verde, c’è una grotta piena di verde, vorrei provare a prenderne un po’, sembra meglio della sbobba della galera. Perché urlano sempre questi umani? Io provo a soffiarli via, via, via sparite.
    Io voglio solo tornare a casa ma qui non c’è più una casa per me. Qui non c’è più nessuno che mi conosca, che si ricorda chi io sia. Voi siete ovunque ma non parlate con me, non mi vedete. Chi sono io per voi? Un animale da circo, una cosa grossa di cui ridere per mezz’ora. Io sono, io esisto perché ho dei ricordi, ho una storia ma se voi mi togliete anche questo, cosa rimane? Una pelle ruvida con due zanne d’avorio. Via, via, volate via. Vi siete presi tutto, anche il mio ricordo del mondo e cosa mi avete dato in cambio? Puzza, grigio e rocce mobili. Vorrei urlare, uccidervi tutti a furia di “tatattattatta e allora muovi! ” ma a cosa servirebbe? A nulla, solo a farvi urlare più forte.

    Mi state accerchiando, ora inizierete a sparare le vostre siringhe dormiglione? No, vi avvicinate? Mi arrendo, non c’è nulla qua fuori per me, chiudo gli occhi, rimettetemi le manette, riportatemi in cella, domenica sarò di nuovo in pista, solo un po’ più triste, solo un po’ più solo: ora so che non ho più un luogo dove tornare.

    Da blizquotidiano: Elefante fugge e passeggia per Roma: ripreso al mercato di Ponte di Nona.

    (Arianna Musso- video da internert)

  • OLI 389- TEATROGIORNALE: Petizione: Affinché il fenomeno migrazioni sia più umano

    Per una volta non voglio scrivere un racconto ma voglio riportare il testo di una petizione on-line che gira sulla rete. L’appello lo potete firmare al seguente indirizzo: http://www.change.org/it/petizioni/affinché-il-fenomeno-migrazioni-sia-più-umano

     “Questo è un’appello al Governo Italiano e alla comunità internazionale tutta.
    Difronte all’ininterrotto genocidio a cui assistiamo inermi in cui uomini, donne e bambini muoiono atrocemente scappando da guerre e carestie, la comunità internazionale non può restare a guardare ma deve agire.
    Questa gente, che contiamo ormai a milioni, esseri umani come noi, bambini che potrebbero essere i nostri figli, donne che potrebbero essere le nostre mogli o madri, intraprende viaggi perigliosi e assurdi come attraversare il deserto a piedi o imbarcarsi su navigli fatiscenti, privi d’acqua o strumenti di navigazione adeguati. Come possiamo rimanere indifferenti a tutto questo?

    Ma, dirà qualcuno, non si possono aprire le nostre ambasciate a tutti coloro che desiderano entrare nella nostra Italia già nel loro paese d’origine. Queste sarebbero prese d’assalto e il nostro territorio nazionale invaso da siriani, afgani, somali, eritrei e tutti quei popoli della terra ingiustamente martoriati dalla povertà, dalla guerra o dalla violenza. Il concetto stesso di Stato e di cittadinanza perderebbe senso, tradiremmo i valori Risorgimentali di patria per cui tanti Italiani sono morti.

    Viviamo quindi in una angosciosa contraddizione: da una parte non possiamo continuare ad assistere inerti alla morte di cotonati uomini, nostri simili che spirano in maniera così atroce, e dall’altra non possiamo accoglierli tutti in cristiano abbraccio.
    Mi chiedo come può una madre vedere morire i propri figli di sete in mezzo al deserto: quanta tragedia è racchiusa in quei piccoli cadaveri riparati all’ombra di un cespuglio, come se questo potesse evitarne la morte. Senza parlare delle nefandezze di cui si macchiano gli Italiani venendo a contatto con realtà così dolorose: campi di detenzione dove i richiedenti asilo (un diritto, non dimentichiamo) giacciono in condizioni disumane, oltre i limiti della legalità; uomini delle Forze dell’Ordine che, esasperati, commettono ingiustizie come il furto (non ancora accertato) a danno di alcuni esponenti della borghesia siriana scappati dalla guerra; i nostri marinai che si macchiano del terribile crimine del non soccorrere i naufraghi a causa dell’incertezza legislativa.

    Gli stati occidentali, che hanno traghettato il mondo intero fuori dalle barbarie, devono mettere da parte ogni sentimentalismo ed avere il coraggio di guardare in faccia la realtà e indicare la strada da seguire. Chiedo quindi a gran voce di organizzare uno studio serio e documentato di quali siano le reali possibilità di sopravvivenza per ogni viaggio della speranza. Queste statistiche dovranno tenere conto dello stato di provenienza e della situazione economica e culturale del richiedente asilo: sarebbe infatti infantile credere che una contadina nigeriana analfabeta abbia le stesse possibilità di sopravvivenza di un medico iracheno.

    Successivamente dovremmo fare una attenta riflessione sulla quantità di sofferenza che questi viaggi della speranza comportano: se non possiamo evitare le guerre e le carestie dobbiamo almeno cercare di alleviare il dolore che queste genti patiscono. E’ un nostro dovere difronte a tanta disperazione. Quindi chiedo che, alla luce delle ricerche fatte, siano istituite delle camere a gas per motivi umanitari in tutte le nostre ambasciate e che venga concessa la possibilità ai richiedenti asilo di poter scegliere di tentare la fortuna in maniera più consona ad un esponente della razza umana.

    Il richiedente asilo presenterà una domanda completa di ogni informazione per poi entrare in una stanza d’attesa  e lì le statistiche decideranno se verrà accompagnato a una dolce morte o partirà con un biglietto aereo, già fornito di ogni documento, per il paese che più desidera.

    Questo soluzione umanitaria non costerebbe quasi nulla agli stati ospitanti in quanto i beni dei migranti che purtroppo non avevano le caratteristiche necessarie servirebbero a dare la copertura finanziaria necessaria, quest’ultimo fatto avrebbe anche la grande rilevanza di sottrarre ingenti quantità di denaro alla criminalità organizzata.

    Tengo a sottolineare l’importanza del metodo con cui questa prassi deve essere attuata, bisogna avvalersi di ricercatori di indubbia fama e funzionari che non cedano al facile buonismo o alla concussione.

    Questa è una seria proposta che ha come unico fine l’alleviamento della sofferenza e il donare nuova dignità all’essere umano nella sua interezza.”

    Da la stampa.it: Niger: strage migranti, trovati 87 corpi

    LaRepubblica.it: “Noi derubati sulla nave militare”, il giallo del furto ai profughi siriani

    (Arianna Musso- foto da internert)

  • OLI 388: TEATROGIORNALE- L’uomo nero

    [ Questo è un racconto di finzione liberamente ispirato a un fatto di cronaca così come è stato presentato dai mezzi di informazione]

    Pompeo è a piedi nudi, i suoi passi risuonano sul pavimento in pietra. Fuori dalle finestre la luna crescente illumina un albero di fichi in giardino. Silenzio, Pompeo è davanti al talamo dei genitori ma è indeciso se chiamarli o ritornarsene su i suoi passi: e se il padre avesse pensato che è un debole, una pula che ha paura della sua ombra? E se l’avesse battuto col bastone? Con la cinghia? O se avessero deciso di mandarlo in villa, lontano da tutti?

    Sbatte una porta, la civetta canta e poi si invola, Pompeo salta nel talamo.

    -Per Castore! 
    -Per Polluce! 

     Il padre impugna meccanicamente il randello che tiene sempre a portata di mano per ogni evenienza; la madre prende il figlio tra le braccia e lo nasconde tra le lenzuola.

     -Mamma, è vero che i cristiani mangiano i bambini? 

     Dice Pompeo tutto in un fiato, come se quella domanda gli stesse appesa alla lingua da tutta la notte. 

    -Si tesoro, sono delle persone cattive che rifiutano di vivere come noi, in una casa per vivere dentro le catacombe: il loro Dio Gesù strappa i morti dalla pace per farli vagare senza quiete per il mondo. 
    Il bimbo guarda il buio della stanza mentre il padre, riposto il randello, si sdraia nel letto. 

    -E un giorno, questo Gesù gli ha detto: mangiatemi e andate per il mondo a mangiare i bambini in ricordo di me. Ogni settimana i cristiani scelgono un bambino cattivo, che non vuole studiare e che non rispetta i suoi genitori, aspettano che scappi dalle mani dello schiavo che lo deve accompagnare a scuola oppure che salti le lezioni del maestro per andarsene in giro… 
    -Oppure che si metta a guardare le farfalle mentre va al tempio col padre… 
    Aggiunge il pater familia con uno sbadiglio. 

    -E lo rapiscono, lo portano in una tomba e lì lo uccidono, lo fanno a pezzi e poi se lo mangiano; raccolgono il sangue in una brocca e poi se lo bevono come se fosse vino. 

    -Ma questo Gesù era un bambino?

    La madre accarezza Pompeo.
    -No caro, non era un bambino ma un uomo barbuto che diceva di essere lui un dio e che tutti gli altri Dei come Giove, Giunone, Apollo non esistevano.

    Il padre prende il figlio per le orecchie e gli dice affettuosamente:
    -Ma non è vero niente! I cristiani dicevano anche di essere buoni ad addomesticare le bestie feroci ma, l’altro giorno al Circo, hai visto come la tigre si è mangiata quei sobillatori, avvelenatori? Ah-ham! In un boccone!
    Caio Maximum di professione esattore inizia a mimare la tigre che si mangia i cristiani finendo per fare il solletico al pancino del suo bambino. La madre Ottavia li guarda severa.

    -Basta adesso, Pompeo ritornatene nel tuo letto e ricordati di stare sempre vicino a tua madre, a tuo padre o allo schiavo Eunoos quando cammini per la strada. Inoltre devi studiare e essere ubbidiente altrimenti i cristiani ti rapiscono e ti mangiano.
    Pompeo abbraccia forte i suoi genitori e, con un lembo della tunica tra le labbra per farsi coraggio, esce dalla stanza.

    [Questa breve scena potrebbe essere riscritta mettendo al posto della parola cristiani la parola ebrei, uomo nero, comunisti, zingari.]

    Da ilcorriere.it:Il caso di Maria: una coppia rom bulgara «È nostra figlia, l’abbiamo affidata ai greci»

    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 387: TEATROGIORNALE- La raccomandazione

    In cucina, attorno a un tavolo. 

    -Allora, sei contento?
    A parlare è lo Zio Carlo, un uomo sulla sessantina dallo sguardo franco e sorridente.
    -Ti devo ringraziare zio ma…
    Giovanni è un ragazzo sui ventisette anni, indossa una maglietta di yoda che fa il dj con gli occhiali da sole. Sta torturando la tazzina del caffè e non riesce a fermare il piede destro né a guardar lo zio negli occhi.
    -Ma cosa? Ho sentito il mio cliente, ti assumono. Da domani andrai a lavorare al Quirinale. Niente di che: starai in portineria, pulirai le scale non ho ben capito ma un bel contrattino di un paio di mesi, per iniziare, così vedi come va.
    Lo zio dà un ultimo sorso al caffè, lascia cadere pesantemente la tazzina sul piattino e il rumore della porcellana fa trasalire il ragazzo.
    -Zio grazie, davvero ma… ecco…. ne ho parlato anche con papà e, non so come dirtelo, ho un po’ di paura.
    -Paura e perché?

    Il ragazzo si alza e si ripara dietro lo schienale della sedia, guarda lo zio negli occhi. 
    – Che mi ammazzino zio.
     Lo zio non sorride più. 
    -Vai al Quirinale mica in guerra, vai a pulire i cessi degli onorevoli mica a fare la guardia del corpo. 
    In sala qualcuno ha acceso la televisione.
     -Si, è che… magari mentre vado al lavoro qualcuno decide, che ne so, di sparare a Letta. 
    -E perché povero Letta? 
    -O ad Alfano? 
    -E che ha fatto di male? 
    -O magari qualcuno si dà fuoco nel piazzale dove posteggio la moto. 
    – Dici che c’è questo pericolo? 
    Lo zio riprende a sorridere. 
    -Zio, è pieno di gente che non ne può più, che appena vede un’auto blu inizia ad andargli addosso… 
    – Mi sembra che stai esagerando, Giovanni. 
    -Zio ma non ti ricordi di quella tipa che faceva la precaria in un comune del nord? Un disperato è andato e le ha sparato.
     -Va beh, è stato un caso. 
    -E di quell’altro che ha sparato ai carabinieri di guardia al Quirinale il giorno dell’Insediamento del governo? 
    -Ma tu stai dentro, nei gabinetti. 
    -Si, ma se uno arriva con una macchina piena di tritolo e si caccia nel portone a tutta velocità? 
    Ora Giovanni è in piedi davanti allo zio e lo guarda negli occhi. 
    -Zio, io non ci vado a lavorare al Quirinale. Piuttosto mi imbarco e vado a pulire i cessi in una nave petroliera.
     Lo zio adesso è confuso, non sa se ridere o arrabbiarsi. 
    -Non voglio fare la fine del numero sui giornali: “Nell’attentato di oggi quaranta morti e nessun onorevole”. Ti ringrazio ma preferisco fare dell’altro. 
    Lo zio tenta un ultimo sorriso prendendo il nipote per il braccio. 
    -Cosa gli dico ora al mio cliente dai… è stato gentile. Che mio nipote ha paura degli attentati? Dai… mica siamo in Algeria, siamo in Italia. Siamo il primo mondo, siamo un paese civile, siamo in una democrazia, siamo… 
    Dalla sala provengono spari e urla.
    [Questo racconto è una finzione liberamente ispirato a un fatto di cronaca così come è stato presentato dai mezzi di informazione e filtrato dalla fantasia dell’autrice.]
    (Arianna Musso – Foto da internet)
  • OLI 386: TEATROGIORNALE- Dialogo di A e B in spiaggia

    [Questo racconto è una finzione letteraria liberamente ispirato a un fatto di cronaca così come è stato presentato dai mezzi di informazione e filtrato dalla fantasia dell’autrice.]

    [A sta mangiando dei semi tostati e sputa le pellicine o i pezzi troppo duri nella sabbia. B sta pescando, oltre la canna ha un secchio e una borsa di vimini. Il palcoscenico è vuoto, il fondale è un tramonto tropicale da cartolina un po’ spiegazzato.]
     A -Sono degli scarafaggi.
     B -No, scarafaggi no, non è vero, sei ingiusto.
     A -Formiche?
     B -Neanche, le formiche sono laboriose, questi invece sono tutto tranne che laboriosi.
     A -Cavallette?
     B -Meglio.
     A -Insomma è tutta colpa di Nasheed.
     B -Indubbiamente. [B tira su la canna da pesca, vi è attaccato un pesce di plastica, lo guarda soddisfatto e continua a pescare.]
     A -L’altro giorno ne ho visto uno in moschea.
     B -Puzzano.
     A -E si aggirano da una parte all’altra, mi fanno un’impressione. E tutti a scacciarli: “Via, via, dovete stare più in là”. Ma loro nulla, sgattaiolano da ogni parte: ne blocchi uno e ne ai già tre, lì ad infastidire la gente che prega.
     B -Hai provato col Baygon?
     A -Non basterebbe, credi a me.
     B -Il cianuro?
     A -Si, delle bottigliette di birra riempite di cianuro all’entrata della moschea.
     B -Non mi sembra una grande idea.
     A -E’ che alla fine si stava meglio prima, quando erano confinati. Per il loro allevamento non ci guadagnavamo tanto, noi cittadini, ma almeno evitavamo di averceli intorno.
     B – Io l’avevo detto.
     A – Sì, ma pensavo che avremmo allevato anche noi quelli di razza, non questi che ci invadono le case, le strade, non puoi neanche più pregare in pace.
     B -Insomma è tutta colpa di ?
     A – Nasheed.
     B – Bravo. [B tira fuori un panino dal cestino di vimini che divide in due, lo offre ad A e iniziano a mangiare, in lontananza si sente una musica hawaiana.]
     A -E poi mi fanno impressione.
     B -L’hai già detto.
     A -Lo so ma è che non riesco proprio ad abituarmi, sembrano come noi, ma non lo sono, sono sempre lì che vogliono comprare qualcosa, l’altro giorno perfino la stuoia di casa si volevano comprare.
     B -E tu gliel’hai venduta?
     A -No!
     B -Bravo
     A -La stuoia di casa mia è mia, se loro vogliono una stuoia che vadano dalla vecchia Salma a farsene fare una. Che la paghino a lei, mica a me che poi devo andare a farmela rifare.
     B -Giusto.
     A -Come fanno a non capire che gli viene un colpo di sole a stare tutti nudi sulla spiaggia a mezzogiorno.
     B -Forse hai detto bene, sembrano come noi.
     A – Ieri una di loro gironzolava attorno a mia moglie: “Ma non le da fastidio andare in giro così coperta? Ma perché permette a suo marito di farla coprire così?” E mia moglie che agitava la mano: “Sciò, sciò.”
     B – E tuo figlio invece la aspettava fuori.
     A -Ecco, anche questo non va bene: gli danno due soldi e questi ragazzi pensano che sia più facile scarrozzare in giro questi… cosa abbiamo detto che erano?
     B -Cavallette
     A -Si, cavallette invece che andare a pescare o fabbricare le reti.
     B – Insomma è tutta colpa di ?
     A – No, non solo di Nasheed, anche mia che l’ho votato. Meglio allevamenti di turisti di razza, confinati in isolette disabitate, ora ne sono convinto anche io. E che se ne vada in malora Nasheed e tutte le cavallette del mondo!
     [Il pesce inizia a tirare la canna, B la tiene ma il pesce sembra molto grande, anche A lo aiuta. La musichetta hawaiana diviene remixata, si trasforma in un huz huz da discoteca, da dietro le quinte escono sei quod in fila. Gente varia in camicie hawaiane e costume, le donne in bikini luccicanti. Tutti urlano, qualcuno guida in piedi. Due di questi lanciano bottiglie di Jack Daniel sul palco. A e B lasciano la canna che cade giù dal palco, i quod girano attorno ai due che si stringono impauriti. La musica diventa assordante, le luci strobo. Buio. In lontananza si sente il canto dell’Imam.]

    repubblica.it: maldive-il-voto-sulla-rivoluzione-dei-backpaker/228332
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 383: TEATROGIORNALE – L’ultima predica

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali]

    – Io sono figlio di Chlomo e questo è il mio tempio, io sono figlio del re Salomone e invoco il ritorno a quell’era di giustizia e saggezza.
    L’uomo alto e moro è davanti al muro, parla con voce profonda, fa ampi gesti con le mani, è vestito con una lunga tunica bianca e un kippà. I numerosi avventori che affollano il muro gli passano attorno come formiche, sono tutti occupati a fare qualcosa: foto, infilare foglietti nel muro, togliere foglietti, pregare, baciare il muro, leggere, sussurrare tra le pietre, appoggiarci la testa, accarezzare il muro.
    – Io sono figlio di Avraham che su queste pietre legò la sua primogenitura per compiacerti. Io sono il figlio di Abramo e ti prego di salvare tutti i miei figli così come salvasti Isacco.
    Un gruppo di turisti americani, in pantaloncini chiari e cappellini su corpi sfondati da bevande ipercaloriche, si allontana.
    – Io sono il figlio di Yaacov che un giorno fece un sogno: una scala da terra si protendeva fino al cielo, angeli vi salivano e vi scendevano. Dio parlò e disse a Giacobbe che lì era la terra dove sarebbero prosperatI i figli benedetti e amati dall’Unico.
    L’uomo moro in kippà corre e disegna coi suoi passi un quadrato, per farlo deve spintonare una scolaresca di dodici o tredicenni che si lamenta, il professore di appoggio va a chiamare una guardia. L’uomo si sdraia a terra.
     – E aspetto l’arrivo di Mashiach, il messia!
    Un uomo con il cappello nero e la barba si avvicina all’uomo moro in kippà e cerca di farlo alzare ma l’uomo è rigido e fermo, le mani lungo il corpo, i palmi rivolti a terra, gli occhi sbarrati. Una donna, che parla ebraico con un pesante accento tedesco, chiede: – Ma è matto?
    – O vede dove noi non possiamo arrivare.
    L’uomo moro in kippà salta in piedi con un balzo.
    – Tito cercò di distruggerlo e non lo fece per intero, lasciò questo muro perché qui noi potessimo tornare, fino all’ultimo dei tuoi figli Israel.
    Il professore d’appoggio della scolaresca indica l’uomo moro col kippà a un giovane soldato.
    – Tutti cercano di espropriare la tua patria Israel.
    L’uomo in kippà si mette una mano dentro la tunica per trar fuori il tefillin Shel Rosh per la preghiera.
    – Perfino il cavallo alato al-Buraq è stato legato sulle tue pietre per permettere a chi urla ‘Allahu Akbar’ di chiedere un posto vicino ai tuoi figli.
    L’uomo moro con il kippà urla con le braccia aperte e in mano la scatoletta di pelle scura contenente brani della Torah.
    Le parole rimbalzano sul muro, il soldato prende la mira e spara al petto dell’uomo con la kippà.
    – Perché hai sparato? chiede l’uomo con il cappello nero e la barba – Era un ebreo come noi, stava per mettersi il tefillin.
    Il giovane soldato si guarda attorno spaventato – Ho avuto paura – sussurra. – Mi hanno detto che si comportava in modo strano, stava prendendo qualcosa dalla tasca… ho avuto paura.
     – Queste parole […] le legherai come segno sulla tua mano, e siano sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. -Così dicendo l’uomo col kippà bacia la scatoletta che contiene brani della Torah e muore.
    Tutt’intorno si è fatto silenzio, molti guardano con gratitudine quel giovane soldato dal volto pallido e sudato che li ha salvati.
    (Arianna Musso)

  • OLI 382: TEATROGIORNALE – Grazie di tutto

    La ragazza è seduta davanti al tavolo in marmo della sala, davanti a lei un quaderno aperto, una calcolatrice e degli scontrini. Al suo fianco c’è il padre, mani sulle ginocchia e testa bassa. Dal corridoio che porta in cucina si sente un rumore di pentole.
    – Ricapitolando abbiamo un debito di duemila e quarantuno euro.
    – Punto tre – dice il padre con un filo di voce.
    – Punto tre cosa?
    – Punto tre e basta, c’è scritto duemila e quarantuno punto tre, e credo che sia giusto tenerne conto.
    La figlia lo guarda incredula
    – Va bene punto tre. Papà, ci sono cinquantadue euro in più rispetto all’anno scorso
    – Punto sei.- ribadisce il padre
    – Punto sei, mi sta anche bene, ma sono ben ottantatré punto tre euro rispetto a due anni fa. Vuol dire che prima dovevamo solo duemila e diciassette euro punto sei, ma non sono quei sei contesimi che fanno la differenza, capisci? Se continui a fare debiti a destra e a manca, l’anno prossimo avrai tremila euro di debiti, capisci?
    – Si, mi dispiace. Non sono mai stato capace a tenere i conti e ora ci ritroviamo in questa situazione.
    – Non importa papà, dimmi un po’: con chi abbiamo questi debiti? Dalla porta sbuca la moglie, ha un vassoio con due tazzine di caffè, una zuccheriera e un cartoncino di latte.
    – Diglielo, diglielo che hai chiesto un prestito.
    – Sì, allo zio, lo so – dice la ragazza versando un po’ di latte nel caffè.
    – Macché settecento venticinque virgola tre li ha chiesti ad altri.
    – Ma come ad altri? Ma chi sono questi altri? Non mi fate preoccupare per cortesia. Ma perché avete chiesto un debito ad altri? Con lo zio ci si può ancora parlare, è uno di famiglia, ma chi sono questi altri?
    – Stranieri, che ne so – dicendo questo la madre ritorna in cucina con le tazzine di caffè vuote.
    – Ma non potevate chiederli a me, scusate, questi 725 euro.
    – E’ che io gli ho già detto che tu gli darai 35 mila euro.
     La ragazza è rimasta con i fogli in mano, guarda il padre, è come se non riuscisse a metterlo a fuoco e poi si rimette a leggere il quaderno dei conti:
    – Amministrazione locale: 115,5 miliardi. Di cosa scusa?
    – Di euro.- il padre guarda la figlia da sotto in su mentre la madre rientra prepotentemente nella discussione.
    – Ma siamo migliorati: prima erano 118 miliardi di euro.
     La ragazza si gira verso la madre e molto lentamente le dice
    – Voi avete speso deumila e quarantuno miliardi di euro.
    -Virgola tre. Ma è stato per mandarti a scuola, metterti l’apparecchio, portarti a sciare e al mare. Dovresti ringraziarci invece di aver sempre qualcosa da ridire – la figlia fa per ribattere qualcosa ma la madre la precede.
    – E in Inghilterra per l’inglese, le scarpe nuove, il motorino, le ripetizioni.
    – Si, ma io non ce li ho 35 mila euro, sono una precaria che lavora, se va bene, otto mesi l’anno. E poi, comunque, qualcuno dovrà ben dare tutti questi soldi quando voi non ci sarete più, e come facciamo? Vi siete già venduti le case della nonna, i terreni dello zio. Ma dove li trovo duemila miliardi?
    – E quarantuno
    – Virgola tre.- aggiungono i genitori e si alzano, la abbracciano, la baciano ed escono di casa.
    – Grazie, cara, avevamo bisogno proprio del tuo sostegno, quando risolvi facci sapere.
    E si chiudono la porta alle spalle. La ragazza, in piedi, davanti al tavolo in marmo della sala, legge il quaderno dei conti:
     – Regioni: 46,7 miliardi, 6 miliardi in più in un anno, ovvero 1,58% in più che, se rimane costante, in tre anni diventa 64,7 miliardi ovvero 2106 tondi tondi di debito complessivo, ma i comuni sono stati più bravi perché sono passati da 51 miliardi a 45,5 miliardi, quindi 6,5 miliardi in meno che in tre anni fanno 18,5 e quindi il debito totale sarebbe di 2087,5 ma contando gli interessi, a quanto ammontano gli interessi? E le entrate? Eccole qui: entrate tributarie 113,050 miliardi l’anno, quindi a metà aprile del 2031 potrei aver saldato il debito se non faccio più debiti e non pago gli interessi. Ma cosa vuol dire questa cosa qua? Contabilizzate 29,2 miliardi, e quindi? Arrivano gli altri, oppure no? Portiamo avanti l’ipotesi più nera: a soli 29 miliardi l’anno ci metto settant’anni… senza fare spese e senza pagare gli interessi. Ma chi sono questi stranieri?
    La ragazza si guarda attorno, chiude tutte le finestre con tanto di persiane, da i giri alla porta di casa.
    – Duemila e quarantuno miliardi di euro… ma il bancomat papà me l’ha restituito? E la carta di credito?
    Alla ragazza suona il cellulare, è arrivato un messaggio:
    – Pensi che a tuo figlio possa piacere un monopattino nuovo? E dimenticavamo: come garante, gli stranieri hanno voluto anche la sua firma ma, visto che Giacomo non sa ancora scrivere, gli abbiamo messo la sua impronta digitale. Ti vogliamo bene. Mamma e Papà. La ragazza Sorride, risponde al messaggino, prende la sua giacca, la sua borsa ed esce senza chiudere la porta:
    – Mi dispiace ma il debito da voi creato è troppo alto, prendo mio figlio e mi trasferisco altrove. Non è conveniente far parte di questa famiglia, cercherò una famiglia più virtuosa altrove. Grazie di tutto.
    (Arianna Musso)