Categoria: Guido Rosato

  • OLI 426: ESTERI – Voci dalla stampa internazionale

    Conquistando Palmira l’ISIS interrompe l’antica “Via della seta”.
    Megachip, Thierry Meyssan, 26 maggio 2015: “La coalizione internazionale anti-Daesh, creata dagli Stati Uniti nell’agosto 2014, non ha mai combattuto gli jihadisti. Al contrario, è documentato − non una ma quaranta volte − che aerei occidentali hanno portato armi e munizioni all’Emirato Islamico.” “In ogni caso, Washington ha cambiato strategia. Come dimostra la nomina del colonnello James H. Baker a nuovo stratega del Pentagono” “La sproporzionata campagna mediatica sulla caduta di Palmira potrebbe essere solo una preparazione dell’opinione pubblica a un vero e proprio impegno militare contro l’Isis.”
    http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=120090&typeb=0

    Nella stessa settimana, Stati Uniti e U.K. hanno nascosto i loro crimini di guerra invocando la “sicurezza nazionale” 
    Glenn Greenwald, Intercept, 21 maggio 2015:  “Un governo che è in grado di nascondere le proprie atrocità per “motivi di sicurezza nazionale” sarà quello i cui cittadini si concentrano all’infinito sui crimini degli altri pur rimanendo beatamente inconsapevoli di quelli della propria nazione. Si tratta di un’eccellente descrizione di gran parte dei cittadini americani e britannici ed è una buona spiegazione del motivo per cui la parte più ricorrente del loro discorso è costituita da poco più di proclami che la Nostra è la parte migliore, nonostante i decenni di brutalità, aggressività e il militarismo che la loro parte ha perpetrato”.
    https://firstlook.org/theintercept/2015/05/21/key-tactic-us-uk-hide-war-crimes-invoking-national-security/

    L’integralismo religioso ebraico è peggio di quello musulmano ed è al governo
    Il Post, 22 maggio 2015: “Nel suo discorso Hotovely ha citato Rashi, uno dei più famosi commentatori della Bibbia, dicendo: «Rashi ci dice che la Torah si apre con la creazione e ci insegna che se il mondo ci nega il diritto di abitare su questa terra, noi dobbiamo rispondere che questa terra appartiene solo a Dio e che solo Lui ha deciso di offrircela”.
    “La reazione di molti diplomatici presenti alla riunione non è stata positiva: «Le persone erano in stato di shock: è la prima volta che ci viene chiesto di utilizzare un commento alla Torah ai fini della diplomazia», ha detto uno di loro al quotidiano israeliano Haaretz.”
    http://www.ilpost.it/2015/05/22/palestina-questa-terra-nostra-dice-la-viceministra-degli-affari-esteri-del-nuovo-governo-israeliano/

    L’Iran denuncia all’ONU che Israele intende bombardarlo con armi nucleari
     The Washington Post, 21 maggio 2015: “Per anni, gli israeliani si sono lamentati della retorica incendiaria della repubblica islamica, in particolare quella dell’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad. Ma la realtà di fondo rimane che tra i due, un solo paese ha un’arma nucleare e che questo paese non è l’Iran.”
    http://www.washingtonpost.com/blogs/worldviews/wp/2015/05/21/iran-complains-to-the-u-n-that-israel-wants-to-nuke-it/

    Il silenzio del premio Nobel sul genocidio di Rohingya equivale alla complicità
    The Independent, 23 maggio 2015: “In un genocidio il silenzio è complicità, ed è così con Aung San Suu Kyi e la disperata comunità Rohingya in Birmania. La persecuzione in corso da parte del governo birmano dei Rohingya ha raggiunto, negli ultimi due anni, un livello così insostenibile che i Rohingya si trovano ad affrontare solo due opzioni, o rimanere e rischiare l’annientamento o la fuga. L’attuale esodo di coloro che chiedono asilo è solo una manifestazione di genocidio “. “Una volta Aung San Suu Kyi aveva tenuto un enorme capitale morale e politico e ha avuto la possibilità di sfidare il razzismo vile e l’islamofobia che caratterizza il discorso politico e sociale birmano. Molti attivisti birmani per i diritti umani ed i loro seguaci avrebbero potuto ascoltare, imparato e iniziato a mettere in discussione il razzismo istituzionalizzato che incide negativamente su tutti i birmani. Questo non è mai stato nell’agenda politica di Aung San Suu Kyi “. http://www.independent.co.uk/voices/comment/aung-san-suu-kyis-silence-on-the-genocide-of-rohingya-muslims-is-tantamount-to-complicity-10264497.html

    Esiste il complotto delle patate in Turchia?
    Al Monitor, maggio 2015: “Le patate non sono da prendere alla leggera. Nel 1840, la storia di una nazione è stata distrutta quando la malattia ha devastato le colture di patate in Irlanda e la carestia conseguente ha ridotto la popolazione del paese di circa il 25%, un milione di persone morirono e almeno un altro milione emigrò durante i sette anni ormai conosciuti come la Grande Carestia, la carestia delle patate o Gorta Mor in irlandese.” http://www.al-monitor.com/pulse/originals/2015/05/turkey-is-there-a-potato-conspiracy-cetingulec.html

    La parola “angelo” offende perché è riferita ad un palestinese
    New York Times, 18 maggio 2015: “Il saluto sottovoce di Papa Francesco al presidente Mahmoud Abbas dell’Autorità palestinese nel corso dell’incontro di sabato in Vaticano, nel quale ha fatto riferimento a Abbas come un “angelo della pace”, ma con un verbo incerto, ha provocato una diatriba linguistica e politica che continua ancora a giorni più tardi.” Abraham H. Foxman, direttore della Lega anti diffamazione, ha detto che la frase “tu sei un angelo” è arrivata come un fulmine sulla comunità ebraica, vista l’ammirazione e le aspettative che l’ebraismo mondiale ha per questo papa.” http://www.nytimes.com/2015/05/19/world/middleeast/vatican-seeks-to-quiet-uproar-over-popes-angel-of-peace-remark.html?ref=todayspaper&_r=1

    I media USA oscurano la citazione, fatta dal ministro della difesa israeliano, di “Hiroshima e Nagasaki” come modello per trattare con l’Iran.
    Mondoweiss, 20 maggio 2015: “Ma non c’è stata nessuna copertura di questa storia nei mainstream media. E’ un black-out, cosciente o no.” http://mondoweiss.net/2015/05/ministers-nagasaki-hiroshima

     “Sfruttare gay, lesbiche e questioni sociali per il militarismo e l’imperialismo”
    Glenn Greenwald, Intercept, 18 maggio 2015:“Vestire in senso figurativo le guerre americane con gli abiti graziosi delle cause sociali progressiste, o decorare letteralmente le agenzie di spionaggio con i colori della causa LGBT, non lascia alcun dubbio sulla natura di questa tattica. Il militarismo e l’aggressione non diventano più appetibile perché le istituzioni che li perpetrano permettono a donne e gay di partecipare a tali abusi”.
    https://firstlook.org/theintercept/2015/05/18/exploitation-social-issues-generate-support-militarism-imperialism/

    (a cura di Saleh Zaghloul)

  • OLI 423: REGIONE – Carbone che viene, carbone che va

    “ Ma tu con chi stai?” è il quesito principale che imperversa sui media liguri, da destra e da sinistra tutti sgomitano, ma dai politici nemmeno un pio di come sta la nostra Liguria. Pare si stia sfasciando il Salone Nautico, che non interessa soltanto Genova, eppure il capo di Fiera, Sara Armella, è occupata a fare le primarie Pd, mentre il presidente in scadenza dell’Autorità Portuale Merlo, consorte della candidata presidente regionale, presenta un Piano regolatore Portuale “da sssogno”, direbbe Crozza-Briatore: stupendo il blueprint di Renzo Piano, speriamo che lo facciamo.
    Si prevedono però due nuove dighe, gulp, quando neppure si è deciso se e quando fare la torre piloti, forse l’unica certezza è l’abbattimento dell’ex palazzo Nira, che magari basterebbe bonificare per recuperare…
    Il porto di La Spezia compra gru giganti dalla Cina, una volta le costruiva Ansaldo Industria, come se quel gioiello di golfo fosse adatto per intensificare il megatraffico container, a Imperia crisi nera, è lontano il ricordo dei mulini sbuffanti della pasta Agnesi e dei treni carichi di grano, ora ristorantini, vecchi yacht e sulle banchine rubate al mare svettano gli scheletri degli edifici del superporticciolo incompiuto.
    A Savona è stata chiusa la centrale termoelettrica di Tirreno Power, non più a norma, restano duecentomila tonnellate di carbone inutilizzate e a rischio inquinamento. Finalmente si è deciso per lo sgombero: il 15 per cento andrà alla centrale di Monfalcone. E il resto? Ci vorranno quaranta camion al giorno per completare lo smaltimento delle prime trentamila tonnellate, che viaggeranno fino al Terminal Rinfuse di Genova, essendo stato chiuso da tre mesi quello di Savona-Vado, proprio per la cessazione dell’attività della centrale. La movimentazione del carbone potrebbe avere effetti sull’ambiente, intanto è certo che dovranno essere compiuti millecinquecento viaggi per l’imbarco sino a Genova.
    Complimenti per la gestione alla Regione, al Ministero, a tutte le Autorità Portuali, che puntano i piedi per non essere accorpate, quasi ogni porto fosse una repubblica marinara e il coordinamento in questo caso è brillato: la Befana è lontana, ma molto di quel carbone dovrebbe essere scaricato a casa di tutti quei soggetti di cui sopra.
    (Bianca Vergati – immagine di Guido Rosato)

  • LE CARTOLINE DI OLI

    (Immagine di Guido Rosato)

    La newsletter Oli sarà in ferie fino a fine settembre, ma potrà capitare a qualcuno di voler condividere un’immagine, un’esperienza, una testimonianza, o qualsiasi spunto di riflessione in cui si è imbattuto durante l’estate.
    Per questo abbiamo pensato di proporre anche quest’anno la rubrica estiva “Le cartoline di Oli” che inizieremo a pubblicare, senza alcuna periodicità, seguendo le occasioni che via via si presenteranno.
    Chi lo desiderasse potrà inviare le proprie cartoline all’indirizzo mail della redazione.
    Con i nostri auguri,
    (La Redazione – immagine di Guido Rosato)

  • OLI 390: PAROLE DEGLI OCCHI – Le spiagge di Crozza e quelle di OLI

    (disegno di Guido Rosato)

    martedì 12 novembre su Rai Tre in occasione della trasmissione televisiva Ballarò, Maurizio Crozza ha descritto la paradossale situazione delle spiagge italiane e in particolare di quelle che si affacciano lungo Corso Italia a Genova. Proponiamo ai nostri lettori una prospettiva, assai fedele, degli stessi luoghi dal mare.
    La matita è quella di Guido Rosato.

  • OLI 357: LAVORO – Morire di lavoro non è una malattia rara

    La consuetudine annuale della diffusione dei numeri d’infortuni sul lavoro avvenuti, coinvolge poco o niente gli italiani, che vengono assaliti da una noia abissale, risentendone parlare e riparlare anno dopo anno, sempre nello stesso modo, dalle stesse istituzioni e le stesse persone, con gli stessi aggettivi e modalità.
    Nulla di nuovo. Lavorando con questa organizzazione del lavoro, questo insieme di regole, questo sistema di vigilanza, questa crisi e questo mercato in avanzato stato di decomposizione ci si infortuna, ci si ammala e, spesso, si muore.
    Se ne parla tutti gli anni e nello stesso modo. Quest’ultima tornata di dati, seppure dichiaratamente incompleti, è in effetti parte di una sfocata fotografia di un tempo di crisi, con code di cassaintegrati a sbrigare pratiche che si propongono per lavori in nero e sottopagati, assieme ai loro ex colleghi esodati, o disoccupati o inoccupati (brutti termini entrati nel nostro lessico giornaliero), travolti da disastri alluvionali e terremoti, stravolgimenti climatici e abbandono a se stesso di un territorio alienato da sciagurate politiche industriali.

    È terribile pensare che chi legge i dati o chi ne senta semplicemente parlare li affronti come ineluttabili, e che tutto sommato si aspetti semplicemente ed inevitabilmente una lista di numeri.
    Non c’è sorpresa o indignazione, bensì una sorta di rassegnazione, una presa d’atto che di lavoro si muore, si deve morire, perché è così che vanno le cose, è il costo del lavoro e a qualcuno spetta ed è toccato anche quest’anno. Poi leggendo meglio i dati locali, sovviene di un evento particolare, quello vicino o quell’altro particolarmente eclatante, finito in prima pagina, con funerale in pompa magna e parole contrite di figure meste ed ufficiali.
    Si viene maggiormente coinvolti dalle disgrazie di altri sfortunati, sorteggiati senza colpa alcuna da qualche malattia rara, una di quelle dal nome strano e terribile, quelle per le quali non esiste cura.
    Una malattia è considerata rara quando ha una prevalenza nella popolazione generale inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea definisce tale soglia 1 caso su 2000 abitanti e l’Italia si attiene a tale definizione.
    L’attenzione per le malattie rare a livello legislativo e amministrativo è relativamente recente. Questo perché il trattamento di una malattia rara, quando possibile, ha un costo per paziente molto più elevato di quello di una malattia comune e tende quindi a non essere mai inserito tra le priorità, a meno che la gravità della patologia o l’attivismo dei pazienti non la imponga all’attenzione.

    In pochi casi e per patologie particolarmente gravi solo la pressante attività di sensibilizzazione da parte dei pazienti e dei loro familiari ha prodotto grandi risultati. 
    Secondo tale arida interpretazione numerica, infortunarsi sul lavoro non è poi così raro, anzi vengono denunciati infortuni sul lavoro per un valore estremamente più elevato, i dati INAIL, pur parziali e non riferiti alla totalità dei lavoratori, indicano come l’infortunarsi sul lavoro sia non solo non raro, ma certo per un lavoratore ogni 15 o poco più della popolazione di addetti analizzata, ma anche uno ogni 2000 o 200 sarebbe un dramma. 
    Ma è un ragionamento diverso, nell’immaginario collettivo ha meno presa di quello delle malattie rare, questi infatti, se lo sono andati a cercare, lavorano e sanno che lavorando ci si fa male, o si muore. 
    È talmente certo che ciò sicuramente avvenga che una consistente fetta dello Stato se ne occupa, dodici mila addetti, tanti sono i dipendenti INAIL, con un Presidente, un Direttore Generale, direzioni centrali, venti direzioni regionali, duecentottantaquattro unità operative territoriali, un consiglio di amministrazione, un consiglio di indirizzo e vigilanza, un collegio sindacale, dodici miliardi di incassi e attivi a chiusura di bilancio da manovra finanziaria.
    Quindi tutto bene, è così che funziona.
    Il ministro del Lavoro e della politiche sociali, Elsa Fornero, nel corso del suo intervento in occasione della presentazione del Rapporto annuale INAIL 2011, ci ha spiegato che “sulla sicurezza non siamo in ritardo nel nostro paese”, sottolineando che questi principi richiedono “un radicamento diffuso della cultura della prevenzione”. Poi ha rassicurato quel lavoratore ogni 15 che si infortuna informandolo che “la sicurezza non è più vista dalle imprese come un mero onere, una mera incombenza, un gravame burocratico, ma è percepito ormai come un incentivo al lavoro e, dunque, un fattore essenziale di crescita, e che tutto questo necessita di una normativa aggiornata e coerente come lo è il Testo unico 2008, punto di riferimento essenziale per il Paese, che rende evidente come l’Italia, sotto il profilo normativo, non è in ritardo”. 
    Ma, ammette il ministro, “resta, tuttavia, la necessità di una effettiva applicazione e un costante monitoraggio grazie al continuo coinvolgimento dei soggetti coinvolti, soprattutto davanti a un mondo del lavoro in continuo cambiamento: realtà che cambia, di conseguenza, anche la natura del rischio”. 
    Ma guarda, potrebbero pensare quel poco meno di un migliaio di famiglie orfane che si sono aggiunte a quelle altrettante dell’anno prima, ma allora è proprio sfortuna, la sicurezza è incentivo alla crescita, le regole sono uno splendore, ma proprio da noi non sono state applicate e ne è mancato il controllo. 
    Nessuno alla presentazione di lettura dei dati ha detto cosa stessero facendo i controllori invece di controllare o, molto più probabile, se fossero in condizione di farlo, sia per numero che per strumenti. Od ancora se questo passaggio del Ministro avesse come obiettivo il rafforzare un progetto nemmeno tanto occulto teso a ridurli ulteriormente e passarne all’INAIL competenze e finanziamenti di scopo. 
    Il dato più tragico è però quello riguardante le malattie professionali, poco rare anche queste. E’ evidente come per i media buchi la pagina più un lavoratore che cada da un ponteggio e muoia, o rimanga schiacciato da un mezzo operativo o bruci in un incendio in azienda, piuttosto di un altro al quale lentamente una sostanza corroda i polmoni, gli avveleni il sangue o gli riempia di metastasi il corpo. Non c’è l’evento traumatico, muore in casa od in ospedale, con terribile agonia. Non fa notizia, fra la causa, la malattia e la morte passa tempo, a volte anni. Spesso non si riesce nemmeno a capire, a ricostruire per i famigliari il periodo di esposizione, il posto di lavoro incriminato o l’evento di esposizione scatenante. Non fa notizia, ma i morti da malattie professionali sono tantissimi, svariate volte più di quelli che muoiono di infortunio. E questi numeri sono tragicamente in aumento, secondo il Capo dello Stato si tratta di “un fenomeno che sta emergendo anche in virtù di una migliore sensibilizzazione sul tema e che merita la più attenta vigilanza considerata la natura spesso silente di patologie fatali”. 
    E poi ancora: tutti sappiamo, anche senza citare numeri o statistiche, che la base dai quali questi dati sono estrapolati è irrimediabilmente falsata dal mondo reale, quello che gira là fuori è un mercato del lavoro stravolto dalla cassa integrazione, dal lavoro nero, dalla sottodenuncia degli infortuni da parte di tutti quei lavoratori di piccole imprese nelle quali non esiste prevenzione, dove non viene svolta alcuna valutazione dei rischi, dove la scelta è lavorare così o non lavorare, dove denunciare un infortunio od essere iscritti alla CGIL può voler dire non essere riconfermati al termine di un contratto atipico, dove spesso l`infortunio viene trasformato dal padrone in malattia, aziende nelle quali un lavoratore, peggio se extracomunitario, è oggetto di ricatto, sicuramente di tipo contrattuale e salariale, ma altrettanto certamente è costretto ad accettare una riduzione dei suoi diritti, fra i quali quello alla salute. 
    Quindi questi trionfalismi, queste affermazioni roboanti basate su presupposti incompleti, anche quest’anno, ci lasciano la solita ed ineluttabile certezza che nulla è cambiato, che con questa organizzazione del lavoro ci si infortuna, ci si ammala, si muore. Dati noiosi, nè più nè meno che lo scorso anno. 
    (Aris Capra disegno di Guido Rosato)
  • OLI 350: TRASPORTI – Cattivi pensieri in volo

    “La rivincita del Colombo, da oggi aeroporto strategico” è il titolo comparso lo scorso 13 giugno sulle pagine genovesi de La Repubblica: la notizia è sicuramente positiva per lo scalo genovese, passato da un milione di passeggeri nel 2009 al milione e settecentomila del 2012, numeri che hanno permesso l’inserimento del Colombo tra gli aeroporti considerati “strategici” da parte dell’Enac. Eppure, continua l’articolo, il tentativo di privatizzazione dell’aeroporto Colombo da parte dell’autorità portuale, azionista di maggioranza, si è conclusa con un nulla di fatto: in previsione, lo scalo potrà crescere ancora, lanciare nuovi collegamenti, migliorare la struttura di accoglienza, vedi anche OLI 345, ma il suo punto debole restano i collegamenti con il centro cittadino. L’aeroporto genovese, pur con la sua ottima collocazione (a soli otto chilometri dal centro di Genova), è raggiungibile di fatto con mezzi privati o taxi, visto che il bus “è più complicato”: basterebbe, conclude l’articolo, un tapis-roulant di 500 metri che lo collegasse ad una stazione ferroviaria “dedicata”. La proposta, peraltro non nuova, sarebbe sicuramente in grado di risolvere definitavamente il problema del collegamento, ma non certo in tempi stretti: nell’attesa della soluzione ottimale, vediamo qual è la situazione dell’autobus. AMT fornisce il servizio Volabus, dall’aeroporto alla stazione di Genova Brignole e viceversa, gli autobus sono abbastanza frequenti (*), probabilmente “sincronizzati” con i voli in partenza ed arrivo, allora perché “è più complicato”? Innanzitutto il costo del Volabus (6 euro), che rende competitivo il taxi appena si è in due o tre persone, specialmente considerando un rapporto globale di costi/benefici (il taxi deposita davanti al portone di casa, ad esempio). Inoltre, perchè è necessario un servizio di pullman, e non un semplice autobus a tariffa maggiorata, con adeguato spazio per i bagagli? Così era il servizio AMT fino a pochi anni or sono, e così è il servizio tra il centro di Napoli e l’aeroporto di Capodichino.
    Infine dall’aeroporto Colombo passa anche un normale autobus AMT, si tratta della linea I24 (**), linea circolare tra Marina Aeroporto e Via Travi che si trova a meno di 200 metri dalla stazione di Genova Sestri Ponente: allora una soluzione, in attesa di futuribili tapis-roulant, monorotaie o teletrasporto che sia, non potrebbe essere quella di estendere questa linea al centro cittadino, con le modifiche del caso? Quale è la reale redditività del servizio Volabus?
    Non è che il miglioramento del collegamento tra aeroporto e centro città potrebbe danneggiare il prospero mercato dei taxi, favorito anche dalla natura “trasfertista” di buona parte della platea dei viaggiatori genovesi? E’ un pensiero troppo cattivo?

    (*) Orari volabus
    (**) Orari linea I 24
    (Ivo Ruello – Disegno di Guido Rosato)

  • OLI 348: IMMIGRAZIONE – Una delega per Doria

    Sono convinto che i genovesi abbiano scelto il sindaco giusto e mi trovo in sintonia con la maggiore parte delle prime scelte e mosse del nostro sindaco. Naturalmente egli potrebbe aver sbagliato qualche scelta ma, fosse vero, avrà tutto il tempo per aggiustare le cose.
    Molto probabilmente non è stata azzeccata la scelta di dare la delega all’immigrazione ad un assessore che ne detiene altre importanti. Infatti, in continuità con la precedente giunta, la delega all’immigrazione è stata assegnata all’assessore alle politiche sociali. Le giunte Sansa e Pericu, che hanno lavorato bene sull’immigrazione, avevano un assessore con delega principale all’immigrazione. L’assessore era prima di tutto assessore all’immigrazione. Ciononostante, quelle esperienze avanzate avevano evidenziato un limite: da una parte sembrava che pensare e fare sull’immigrazione fosse compito soltanto dell’assessore all’immigrazione e dall’altra, quando questi si occupava di una questione riguardante i migranti di competenza di un altro assessorato, le cose non procedevano senza problemi. Perciò, per fare un salto di qualità nel governo dell’immigrazione, la scelta avrebbe dovuto essere, allora come oggi, attribuire la delega all’immigrazione al sindaco stesso, l’unico in grado di garantire che tutti gli assessori svolgano la parte di loro competenza riguardante i migranti (lavoro, casa, giovani, cultura, servizi sociali ecc.) e al contempo, un forte ed autorevole coordinamento tra i vari assessori.
    Infatti, malgrado si fossero realizzate iniziative molto importanti per l’integrazione, il Comune di Genova non aveva, e non ha ancora, una chiara politica sull’immigrazione: è necessario essere schierati per una società solidale, aperta, accogliente ed antirazzista, ma non è sufficiente. Occorre un vero e proprio progetto politico, un piano di governo dell’immigrazione, per la precisione di governo dell’integrazione, con chiari obbiettivi da realizzare da qui a fine legislatura e chiare priorità sulle quali lavorare e su cui concentrare le poche risorse disponibili. Il problema abitativo, l’integrazione dei giovani migranti e figli dei migranti, la rimozione delle discriminazioni, in particolare nell’accesso ai diritti e ai servizi, e l’intercultura sono obbiettivi prioritari. Se il governo dell’integrazione è veramente importante per il futuro della nostra città, di tutta la città, occorre una vera e propria struttura comunale stabile e durevole che pensi, progetti e realizzi le politiche per l’integrazione. Una piccola struttura, ma dignitosa, con personale (e dirigente) qualificato, motivato ed interessato.
    (Saleh Zaghloul – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 347: LETTERE – Anche la malattia discrimina

    Negli ultimi tempi, ammettiamolo, la mia salute non è stata un granchè: sono stata operata due volte in poco più di un mese, sempre con metodologie a bassa invasività ma, insomma, mi sono beccata due anestesie totali in meno di 40 giorni. La seconda operazione, in particolare, è stata abbastanza impegnativa e il decorso post operatorio alquanto doloroso. Sono stata dimessa due giorni dopo l’operazione e attualmente sono ospite a casa di mia madre, che, nonostante non sia più giovane e a sua volta piena di acciacchi, è ben contenta di potersi occupare di me, aiutata da mia sorella, un’infermiera ad alta professionalità che mi sorveglia con occhio d’aquila con la collaborazione di altri amici e parenti. Tutta l’organizzazione funziona anche perché, a parte un gatto viziato, non ho altre responsabilità familiari. Mi domando, però, cosa sarebbe successo se, appunto, non avessi potuto contare su una rete di relazioni personali così ricca. Mi domando come avrei potuto cavarmela se fossi stata anziana e sola, oppure se fossi stata una donna giovane con figli che dipendevano da me. Sarei riuscita a stare a riposo completo (che, lo garantisco, è necessario!) se le urgenze della vita familiare fossero state lì, sotto i miei occhi? Anche la malattia discrimina per genere: se una donna sta a casa, malata o sana che sia, ci si aspetta che comunque si prenda cura degli altri e sembra quasi innaturale che qualcuno si prenda cura di lei. Anche in questi casi si misura, dunque, come le donne paghino sempre il doppio per il peso del lavoro di cura che in larga misura sostengono: pagano in termini di maggiore fatica, ma anche di minore assistenza, perché, se, come giusto, l’ospedale deve essere il luogo degli interventi su malattie acute, allora è sulle famiglie e quindi sulle donne che ricade interamente il peso dell’assistenza post acuta. Accorciare i tempi di degenza, aumentare la produttività degli ospedali è senz’altro buona politica, ma fa male alle donne se non si accompagna al trasferimento di risorse sul territorio per organizzare una rete credibile di servizi rivolti alle fasi post acute della malattia. Guardare il mondo con occhi di donna vuol dire anche questo.
    (Paola Repetto – Disegno di Guido Rosato)

  • OLI 346: CITTA’ – Gli illuminati costruttori genovesi

    Quando si dice:” Averne di questi imprenditori!”. Infatti a sentire la proposta del presidente di Assedil non si può che dargli ragione: “Le grandi opere sono lontane e invece bisognerebbe dedicarsi a tanti piccoli interventi nell’edilizia, a cominciare dalla ristrutturazione degli edifici scolastici così malandati”. Il costruttore pensa a salvare l’edilizia, parlando alla Festa del Muratore, invoca investimenti di relativa entità per non perdere posti di lavoro e dice la verità sulle nostre scuole, spesso in luoghi ed edifici inadeguati.
    Vedi l’ex Nautico di piazza Palermo, chiuso da anni e patrimonio comunale, di cui si era previsto persino di farne un autopark e che potrebbe, se ristrutturato, divenire Polo scolastico della Foce, mentre la scuola media Doria del quartiere sta pagando l’affitto.
    Dove trovare i soldi però? I Comuni sono in crisi di liquidità, è vero, ma si potrebbero ogni tanto utilizzare gli oneri di urbanizzazione, cioè quanto viene versato al Comune dal costruttore per edificare, per mettere a posto le scuole, invece di finire nella spesa corrente della gestione della macchina amministrativa. Come ad esempio i circa trecentomila euro di oneri per Villa Raggio, da pagare al Comune dilazionati in più anni, mentre gli appartamenti da duecento metri quadri ad ottomila euro al mq “in grezzo” sono già stati venduti e l’impresa in parte incassa prima.
    Alla fin fine, come nel caso della media Doria, si risparmierebbero pure i soldi dell’affitto.
    E di casi così ce ne sono sul territorio comunale.
    I ragionamenti degli edili si fanno però più interessanti e interessati in occasione del convegno dell’Associazione culturale La Maona quando, prendendo spunto dai decreti Monti per rilanciare l’Italia, si discute di grandi opere. Così a partire dai Comuni, a seguire i porti, l’idea è che sia l’impresa a presentare il progetto (e fin qui nessuna novità) al Comune che, se lo valuterà positivamente, lo metterà in gara, ed è qui la novità: all’imprenditore proponente resterà il diritto di prelazione, mentre il progetto verrà inserito automaticamente nelle opere pubbliche.
    Da sottolineare che l’inconsueto iter sarebbe al di fuori di normative nazionali ed europee.
    Quali le opere pubbliche individuate dall’associazione costruttori?
    Innanzi tutto lo scolmatore, opera da 400 milioni di euro in su, da farsi con “projet bond”, ovvero il Comune individua edifici di pari valore nel suo patrimonio immobiliare e propone di sottoscrivere dei bond che abbiano come garanzia quegli immobili: reggeranno le casse comunali?
    E poi, udite, udite, ben altre cinque importanti opere pubbliche.
    Ovvero, cinque megaparcheggi in centro città!
    Parcheggi possibili, già individuati dalle precedenti Amministrazioni. Ancora? Sempre meno abitanti e più vecchi, tutti nonni sprint e pluriautomuniti.
    Gli ineludibili park potrebbero essere sotto le stazioni Principe e Brignole: ma qui non c’è stata l’alluvione? Un altro potrebbe essere in piazza Santa Maria dei Servi, alla Foce, dove la biblioteca della Chiesa omonima posta nelle cantine, ha rischiato di finire sott’acqua. Si smantellerebbero poi i giardini delle Caravelle per far posto alle auto della polizia invece di fare una convenzione per le volanti con il park sotterraneo di piazza della Vittoria spesso vuoto, come quello di piazza Dante, dove anche qui si propone di farne un altro nuovo.
    Così mentre si auspica un maggior uso dei mezzi pubblici, si propongono altri parcheggi in città, accentratori di traffico secondo i più aggiornati studi sulla viabilità, e non si fanno i park d’interscambio.
    Illuminati i nostri costruttori genovesi, gran belle opere pubbliche.
    (Bianca Vergati – disegno di Guido Rosato)

  • OLI 333: IMMIGRAZIONE – La promessa di Monti

    Disegno di Guido Rosato

    Insieme alla questione della tassa sui permessi di soggiorno pare che il governo intenda intervenire anche sulla loro durata, per tentare di rendere più efficiente una politica fino ad ora irrazionale e contraddittoria su rilascio e rinnovo, e dunque sulla regolarità della presenza degli immigrati.
    Da una parte circa ogni cinque anni dal 1987, si faceva una regolarizzazione degli immigrati rilasciando ogni volta centinaia di migliaia di permessi a chi era presente irregolarmente, dall’altra parte al primo rinnovo si adottavano interpretazioni talmente restrittive da rendere molto difficile il loro rinnovo.
    Quando avveniva, moltissimi non rientravano nei paesi d’origine e finivano per rientrare in clandestinità, rimanendo a lavorare in nero aspettando la successiva sanatoria.
    Con l’approvazione della legge Bossi-Fini (L.189/2002) il numero dei permessi di soggiorno non rinnovati è aumentato da decine di migliaia a centinaia di migliaia: secondo il Dossier Caritas 2011, nel solo 2010 i permessi di soggiorno non rinnovati sono stati 684.413.
    La Bossi-Fini ha condizionato il rinnovo del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro quando, precedentemente, con la legge Martelli (39/90) e la legge Turco Napolitano (40/98), era possibile rinnovare il permesso anche attraverso la dimostrazione di un reddito sufficiente, e coloro che non riuscivano a dimostrare il reddito e non avevano un contratto potevano comunque iscriversi al collocamento per un periodo non inferiore a 12 mesi.
    Inoltre la Bossi-Fini ha ridotto sensibilmente la durata dei permessi, moltiplicando le fasi di rinnovo e di conseguenza le occasioni di perdita del titolo di soggiorno.
    La legge Martelli e la legge Turco-Napolitano prevedevano per il primo rilascio una durata biennale dei permessi per lavoro e famiglia, ed al rinnovo una durata non inferiore al doppio della precedente (4 anni).
    La Bossi-Fini ha invece legato la durata del permesso alla durata del contratto di lavoro, limitandone la durata massima ad un anno quando il contratto è a tempo determinato e a due anni quando è a tempo indeterminato. Oltre a ciò è stato eliminata la previsione del  raddoppio della durata al momento del rinnovo, per cui il nuovo permesso non può avere una durata superiore alla precedente.
    L’anno seguente è entrata in vigore la legge 30/2003 sul mercato del lavoro, con contratti di lavoro delle durate più brevi possibili: i precari e le altre categorie più deboli sono divenuti i più esposti a perdere il permesso di soggiorno, essendo soggetti a rinnovi con tempi ravvicinati (ricordiamo che tra l’altro ogni rinnovo costa circa settantatre euro).
    E’ quindi necessario ed opportuno ritornare, almeno, alle norme della legge Turco-Napolitano.
    (Saleh Zaghloul)