Categoria: Viaggi

  • OLI 423: AMBIENTE – L’amore alle Galàpagos e a Portofino

    Il pontile dondola languido, luci festose ne disegnano la sagoma, intorno mare nero e altri profili luccicanti, sono le imbarcazioni, poche, che sostano in baia. In lontananza spiccano luminose le piccole case del porticciolo, una fila di negozietti che vendono tartarughe in onice e pelouche, magliette con le sula, gli uccelli dalle zampe turchesi.
     I turisti sbarcati si affannano a curiosare, a rovistare nelle bancarelle, vorrebbero portarsi via tutto, quasi a fermare il tempo e i ricordi. Sono soltanto souvenir ma è nel cuore, nella memoria che vorrebbero fermare per sempre le immagini di un mondo che non vedranno uguale in altro posto, le foto potranno servire soltanto a raccontare. Mai si scorderanno di aver nuotato con le tartarugone placide, con i minuscoli pinguini così goffi a terra, cosi eleganti nell’acqua, così rapidi ad accorrere al tuffo del cormorano che si immerge nel banco di pesci, spirali argentate di pesciolini che si tengono stretti per difendersi dal predatore. Ricorderanno i colibrì librarsi sulle rocce per cogliere cibo invisibile, le iguane statuarie, come un microfilm di jurassick park e poi lo scivolare lento dei gommoni, l’avvicinarsi cauto alle isole incantate, dove pigri si crogiolano i leoni marini: scuri, quasi neri se sono bagnati, i cuccioli dal pelo dorato che si strusciano sotto il sole, al riparo dei grandi, in un silenzio che ti avvolge, interrotto soltanto da “voci” non umane.
    Si deve parlare a voce bassa per non spaventare gli animali, bisogna scrollare bene gli scarponcini prima di risalire in barca dopo un’escursione, i percorsi sono segnalati, guai ad andare oltre, anche se ti capita di assistere alla nascita difficoltosa di un piccolo leone, non puoi, non devi intervenire: pure se il piccolo sembra non riuscire a risalire dalla pozza in cui è caduto, la madre lo guarda esausta sulla riva e tu, tu non puoi aiutarlo, romperesti l’equilibrio della natura, forse quel cucciolo è destinato a morire, un altro sopravviverà.
    Ecco tutto è così, alla Galàpagos, regolato dal ritmo e dalle leggi di natura, puoi osservare da lontano, nuotare un po’ più in là, ma nulla deve essere alterato, scavalchi le carcasse e non devi raccogliere foglie, sassi, conchiglie. Sembra quasi maniacale, esagerato ma è così che da millenni qui vivono animali estinti altrove, che Darwin aveva osservato là prima di scrivere L’Origine della Specie: uua variazione di fringuelli che a seconda delle isole che abitavano, aride o lussureggianti, si erano adattati ad avere un becco più lungo, un colore più anonimo. L’Ecuador ne fa un vanto di riserva, numero chiuso per approdare, per visitare questo paradiso, una risorsa economica da preservare ad ogni costo tramite un turismo intelligente.
    Proprio come da noi con un modesto esempio: il sindaco di Portofino ha chiesto di accorciare la distanza a cui possono arrivare le navi-mostro da crociera per solcare “il santuario dei cetacei”. Così s’intende l’amore per la natura in questo nostro Paese che non sa più che cosa sia una convivenza equilibrata tra l’uomo e l’ambiente, ne ferisce la bellezza, Grande Opera sarebbe preservarla.
    E pensi con rimpianto a quel leoncino di mare sdraiato beatamente sul pontile, mentre i marinai con passo felpato cercavano di aggirarlo senz disturbarlo, per arrivare a sciogliere le cime del gommone. 

    (Bianca Vergati)


  • OLI 420: DONNE – Natale in Amazzonia

    Gardenia mentre taglia la yucca

    Gardenia arriva lieve, i piedi scalzi, sulla sua pelle scura spicca il vestitino verde a balze, piccola, sottile, come una bambina. Quando tutti i turisti sono arrivati nel capanno, esce in silenzio, si avvia verso i campi, impugna un machete e con sicurezza taglia un alberello, scava fino alle radici, ne estrae dei grossi tuberi bitorzoluti. È la yucca, che lei pela veloce, riavviandosi al capanno, dove ha predisposto una grande teglia su un fuoco di legna. Lava le grandi patate infangate, predispone grattugie in una vasca di legno e insieme a lei, qualcuno inizia a grattugiare. Come sono goffi tutti, a parte gli italiani! Poi stende la polpa ricavata in un’amaca di foglie, che appende e comincia a torcere: la bella biondina olandese l’aiuta, ma dà un calcio alla bacinella, in cui si stava raccogliendo il liquido. Gardenia è raggelata, quel liquido serviva per fare zuppe, poi setaccia ed infine sparge la farina nella padella fumante e ne ricava una specie di focaccia saporita, che verrà servita come pane. Sguscia all’interno una bimba, enormi occhi neri, è Elisa, figlia di Gardenia, che spia la mamma, è ora di pranzo, poi scivola via .

    Il momento dell’arrivo al villaggio

    Racconta Gardenia, nel vendere anche braccialetti intrecciati, che quello è il suo lavoro, lei parla una lingua che non è il castigliano, e neppure quella di suo marito, ma sono venuti a vivere lì perché si sta bene, ha trovato come sostenere il bilancio familiare, prende tre dollari a turista, il suo villaggio è ad altre due ore di canoa e se scende in città deve fare mezza giornata di barca. Pochi gli uomini in giro, soltanto alcuni sulla riva a pescare, pensi che saranno a lavorare in città, gli uomini, sarà così. Forse ma anche nella “civiltà” tante, tantissime sono le donne in giro insieme ai loro bambini: vendono jugo di cocco, banane e altri frutti meravigliosi agli angoli delle strade, spingono il loro carretto quando lo hanno, altrimenti si caricano sulle spalle i loro prodotti. Dalle Ande alla costa vedi soprattutto donne, giovani con i loro piccoli, vecchie altere sotto il loro feltro rotondo. Sono una folla le donne, paiono proprio loro a mandare avanti i paesi, paesi emergenti li chiamano, laggiù nel Sudamerica caldo, dolce, sonoro, colorato e così disuguale: ville e villette arroccate dietro alti muri, i vigilantes spavaldi e ingrugniti a tenere lontani i curiosi e i poveri, che vivono in moltitudine in case appena accennate , dai buchi bui per finestre, quando va bene un tetto di eternit, altrimenti di paglia, file di panni stesi, intorno terra polverosa e fango, in cui giocano bimbi, cani, galline.

    (Bianca Vergati – foto dell’autrice)

  • OLI 418: VIAGGI – New York, la vita in un carrello

    C’è un carrello.
    Grande. Profondo.
    E dentro il carrello, c’è il mondo.
    Tre tipi diversi di affettati, barattoli di sughi a non finire, latte che ti vendono nei contenitori di plastica che sembrano quelli usati per trasportare la benzina e che sono letteralmente giganteschi. Pane, il pane in cassetta e quello fresco, fatto affettare. Il pane per lo Shabbath ebraico, il pane ai cinque cereali, il pane solo ai cereali, il pane dietetico, il pane aromatizzato, il pane dolce. Ma se il pane non è abbastanza mettiamo in un sacchetto anche qualche beagle. Contenitori di yogurt (non i barattoli piccini, ma quelli che possono durarti per due settimane). Verdura e frutta di grandezze inquietante (si pensi ad arance grosse come dei meloni). Tomatos, potatos, turnips, parsnips, broccoli, avocados. Dolciumi vari. Marmellate, miele, sciroppo d’acero, senape e maionese e ketchup. Pollo arrosto che non può mai mancare. Pollo arrosto organico, plain oppure aromatizzato al BBQ, al rosmarino e aglio, al limone. Ice Cream, ice cream dietetico, gelato (attenzione: tra ice cream e gelato gli americani fanno la differenza), sorbetto. Diversi tipi di cereals, diversi tipi di pasta (Barilla, De Cecco, Maria e altre marche vendute come tipicamente italiane e che io non ho mai visto), prodotti congelati, prodotti cotti da riscaldare, sushi. Olive (dieci tipi diversi che il consumatore provvede a pescare con un cucchiaione dai barattoli di plastica senza coperchio per mettere la quantità desiderata dentro contenitori più piccoli). E il carrello scivola per questi corridoi infiniti, dagli scaffali alti fino al soffitto, stipati di qualsiasi cosa tu possa desiderare ed è così claustrofobico. C’è così tanta scelta, come si fa a scegliere? Degli studi dimostrano che più prodotti sono offerti ad un consumatore, meno quel consumatore compra. La scelta è troppa. Gli americani vogliono avere la possibilità di poter trovare esattamente quello che gli interessa, quel prodotto fatto in tal modo, come piace a loro, esattamente come piace a loro, con l’importo calorico che vogliono. C’è un reparto solo per l’olio. Dove ci sono bottigliette piccole e bottiglioni enormi e c’è quello pugliese, toscano, ligure, quello con gli aromi, quello con le olive di derivazione controllata. Ci sono tutti questi carrelli e a volte si scontrano e le persone si chiedono scusa o si insultano. Proseguono arrabbiate o come se nulla fosse. Così concentrate su quello che devono comprare. Velocemente, più velocemente. Che a New York non c’è mai tempo. Che ogni attimo è vissuto perché ti porti all’attimo successivo. Che il consumismo di questi supermercati non è diverso dal consumismo della loro stessa vita. Sempre tutto. Sempre il meglio. Sempre di più. Che non è mai abbastanza.
    (Biancalice Sanna)

  • OLI 390: SOCIETA’ – Unlearning. Una famiglia in viaggio tra decrescita, baratto e nuovi mondi.

    Un giorno mamma Anna vede un disegno della piccola Gaia: un pollo a quattro zampe. La sera lo fa vedere a papà Lucio e insieme riflettono su che tipo di insegnamenti stanno dando a loro figlia.
    Le quattro zampe del pollo sono le quattro cosce delle vaschette del supermercato? Gaia ha mai visto un pollo? Loro sono una famiglia di città ma esistono realtà diverse? Esistono modi differenti di vivere all’interno di questa società? Esiste un altro mondo possibile dove far crescere la piccola Gaia o almeno farle sapere che esiste?

     Papà Lucio è un regista video e propone alla sua famiglia di fare un viaggio-documentario per esplorare queste possibilità, quasi un manuale così che dalle loro esperienze altre famiglie si incuriosiscano e trovino ispirazione sia per la vita di tutti i giorni sia per scoprire un altro modo di viaggiare.

    Il  documentario uscirà a ottobre 2014 e sarà  di sessanta minuti più dieci micro-documentari che approfondiscono i temi più interessanti incontrati durante il viaggio e due libri: un ricettario e un manuale per riprodurre il viaggio con link, forum e indicazioni pratiche.

    Trailer

     Questo è un progetto coraggioso per molte ragioni.

    – Per l’idea di famiglia che racconta: due genitori che si mettono in discussione e mettono in discussione il loro stile di vita per cercare coerenza tra il loro sistema di valori, il modo di vivere e l’educazione che donano a loro figlia.

    – Per l’idea di società che porta avanti: per realizzare questo progetto vivranno realtà e modi di viaggiare alternativi non basati sul denaro ma sul baratto declinato in tanti modi differenti e innovativi.

    – Anche la scelta del tipo di finanziamento è in linea con la filosofia del documentario: Unlearning è un progetto di CROWDFUNDING, ovvero un finanziamento dal basso dove chiunque sia interessato può pre-acquistare il documentario, i gadget correlati o fare donazioni.

    Per avere maggiori informazioni clicca qui.

    – Non in ultimo in un periodo storico dove la parola crisi, sia economica che ideologica, sta monopolizzando le nostre vite e le nostre speranze questa famiglia curiosa, così amano definirsi, è una boccata d’aria fresca.

    (Arianna Musso)

  • OLI 388: VIAGGI – Il diario di Giulia

    Lampour sur mer 7 maggio martedì

    Mentre andiamo al mare vedo uomini e donne con abiti eleganti e luccicanti. Sembrano luminosi dalle scarpe ai capelli.
    Esattamente una settimana fa è nato un bambino e tradizione vuole che dopo sette giorni si uccida un animale rispettando il racconto di Abramo che avrebbe sacrificato il figlio se Dio non lo avesse fermato all’ ultimo momento.
    La festa è solo per i parenti quindi proseguiamo e Ibu mi porta a vedere il suo jardin bello e ordinato. Ogni quadratino di sabbia e conchiglie è rimboccato come una pasta alla crema e contiene una piantina di pomodori bassi. Ci sono anche fagiolini, melanzane e frutti che non conosco.
    Ogni orto è delimitato da siepi di fichi d’ India che nemmeno qui mangiano abitualmente. Anche il suo pollaio è pulito. Glielo cura un uomo del posto.
    Torniamo sulla strada e la visione si apre su una pineta che in quel punto ci separa dall’ Oceano immenso, bellissimo e porta sulla spiaggia conchiglie enormi.
    Le piroghe sulle loro fiancate raccontano storie come i carretti siciliani. Qualcuna riporta la faccia del Marabout nazionale o di suo figlio. Sulla prua, sopra sculture stilizzate, sventolano bandiere.
    Man mano che si avvicinano a riva, gli uomini delle piroghe chiamano quelli di terra.
    E’ faticoso tirarle sulla sabbia. Si fanno ruotare su sé stesse mentre il peso degli uomini si sposta da un capo all’ altro. Poi con l’aiuto di lunghi bastoni, corde, grida cadenzate, le piroghe rotolano su tronchi di palma fino all’asciutto.
    Allora sopraggiungono, su carretti tirati da asini o cavalli in corsa,  uomini ritti in piedi per prendere cassette di pesce già preparate per loro. Subito dopo donne con lunghi coltelli, secchi e bambini, coloratissime sempre, accerchiano le piroghe che tirano loro i pesci rimasti sul fondo, che vengono puliti subito Le teste e quel che non serve lo si rende al mare.
    Lasciamo i pescatori per andare sotto la tettoia con le pese e un piccolo mercato ortofrutticolo con anche le tipiche ceste alte fatte con foglie di palma intrecciate con dentro i manghi.
    Vicino c’è un grande essiccatoio per i pesci costruito da giapponesi, vi lavorano solo donne della zona. Si tratta di pulire il pesce, aprirlo, salarlo, stenderlo su griglie assolate. Sono tante le donne con i visi stanchi,  accucciate o piegate come solo loro sanno fare con i bimbi incollati alla schiena che dormono sotto a un berettino magari di lana con tanto di pon pon.
    Con gli occhi pieni di colori, grida di uomini e rumore di mare saluto Ibu e vado da Cristiana e Giuliano.  Oggi fusilli al dente con zucca! Porto un’anguria.
    La loro casa è sul retro del magazzino. Il tetto è in eternit, l’arredo è spartano ma c’è quanto basta. Hanno anche un congelatore , il frigo no (penso non lo abbia nessuno in paese). Ogni tanto arriva qualcuno per chiedere spazio nel congelatore già strapieno o per farsi una doccia. I bambini della zona sono nella saletta con divano per vedere cassette di cartoni animati in italiano alla televisione. Giuliano ha la mente del piccolo imprenditore . “Faccio girare l’ingranaggio della mente, crac crac ” mi dice, accompagnando la frase con le mani che ruotano l’una nel senso inverso all’altra , “Oggi facciamo anche la pizza. Un po’ la mangiamo noi – io sono invitata – un po’ la diamo alle boutiques che ce la vendono. Ci guadagno sopra ogni pezzo il 75% e mi diverto. Questi del posto prima non la conoscevano. Ora piace” Le cuocerà il fornaio in fondo alla via .  Al giovedì, giornata di mercato, la vendono direttamente davanti al magazzino.
    Giuliano è arrivato qui 6 anni fa invitato dal suo amico Aziz che faceva il “vu cumprà” a La Spezia. Per qualche anno è venuto in vacanza poi, visto che in Italia non c’era lavoro, ha aperto una società con lui e ora ci abita e fa affari. Dallo scorso anno l’ha raggiunto la sua compagna Cristiana. Ha aperto due magazzini con tutto per l’agricoltura che funzionano bene, perché Aziz ci sa fare. Ha anche comperato pezzi di terra edificabili e per coltivazioni e poi ha una barca che lavora per lui. Ha provato pagare gli uomini a mese come usa in Italia, ma qui preferiscono la mezzadria . Meglio pochi soldi e una parte del prodotto. In questo modo il lavoro lo fanno bene, altrimenti non mangiano nemmeno loro. Commercia anche metalli preziosi che arrivano da nazioni vicine.
    Ha buoni rapporti con tutto il vicinato, per i quali ha fatto anche lavori importanti:  alla famiglia che aveva l’abitudine di fare i loro bisogni vicino alla porta di casa sua gli ha costruito un grande bagno con doccia. Il problema è che sono tanti e a volte vengono a usare anche il suo di bagno.  Ha anche fatto in modo che l’ENEL locale mettesse una lampadina stradale davanti al magazzino, così ci hanno guadagnato anche le boutiques vicine che consumano meno candele.
    La porta di casa di Giuliano è quasi sempre aperta. Arriva un uomo con l’aria stanchissima vestito con una tuta gialla impermeabile:  “ Ti ho portato la barca, vado a dormire” dice. E’ uno con cui sta entrando in società. E’ stato in mare tre giorni per andare a prendere la barca in Gambia, dove la manodopera costa meno.
    In Italia tornerà nella stagione delle piogge, a Monterosso, dove aiuta nell’alberghetto di sua madre.  Ci sono stati super disastri per le alluvioni di due anni fa e dello scorso anno.
    Torno a Casa Maissa che è a un quarto d’ora dalla loro abitazione. Poso conchiglie, manghi e banane e sono nuovamente da loro per aiutarli a portare le teglie con le pizze al forno vicino alla spiaggia.
    Vado a vedere gli essiccatoi del pesce con pesci di ogni misura e forma. L’odore è fortissimo. Alcune piroghe sono state portate nel bosco lì dietro dove i multicolorati sacchetti di plastica usati hanno preso il posto dell’erba. Nemmeno le capre li mangiano. All’ombra dei pilastri alcuni gatti si lavano. Le pizze sono pronte . Ne mangiamo subito un po’; gli altri pezzi li confezioniamo in piccoli sacchetti perché restino morbidi. Li distribuiamo alle boutiques che li venderanno.
    A Cristiana e Giuliano vorrei offrire un caffè tube (caffè speziato), ma la boutique invece del caffè ha pronte le frittelle ripiene di salsa di cipolla . Mangiamo quelle. Assieme ad altri. Ancora due chiacchiere, qualche “sa va” e “sa va bien”, ci presentiamo “ comme t’ appelle, moi Julì et toi? e torno a casa con la pila .

    (Giulia Richebuono – foto dell’autrice)


  • OLI 385: VIAGGI – Il diario di Giulia

    Lampoul sur mer 6 maggio lunedì

    Sono qui da 12 giorni, e sono le 10 del mattino. Io e Mariella stiamo aspettando Djiby che è partito da Pekini prima delle 7 e non è ancora riuscito a percorrere 30 Km.
    Alla fine partiamo. Anche in questo viaggio con 46° all’ ombra abbiamo avuto un’ avventura con la macchina. Stiamo girando senza targa e la polizia stradale ci ha fermati. I nostri eroi sono riusciti a trattare sulla multa, ma siamo di nuovo a corto di benzina. Nel frattempo noto una fila fitta di uomini con vestiti verdi e cesti pesanti in testa e vengo a sapere che in Senegal ci sono i lavori forzati.
    Arriviamo a Lampoul sur mer verso le 17.
    Sono l’ unica ospite di Casa Meissa gestita da Ibrain detto Ibu: Parla italiano, perché suo fratello lavora come mediatore culturale a Torino. E’ lui che ha fatto costruire queste sette casette tipiche da una ONG italiana. Il costo è di 11.000 franchi senegalesi compresa la colazione.
    Djiby è stanco e gli offro il mio letto per dormire un poco, mentre Lamine va alla ricerca di un ristorante per il riso e pesce.
    Anticipa i soldi Ibu li metterà sul conto che pagherò quando Mariella tornerà a riprendermi fra un paio di giorni. Io dopo le spese di viaggio ho i soldi contati.
    Esco per vedere il villaggio, da sola. E’ una stradina dritta piena di boutiques di ogni genere che porta alla spiaggia dei pescatori. AI lati si spalmano a perdita d’ occhio casette fatte di canne, assi di legno e mattoni. Capre, pecore, galline asini ovunque.
    Incontro due italiani Cristiana e Giuliano di La Spezia. Vendono, in società con Aziz (uno del posto conosciuto sulla spiaggia di Monterosso), materiale per agricoltura: trivelle, semi, concimi… In Italia non trovavano lavoro e qui non ci sono tasse da pagare.
    Mi offrono un caffè versato da un thermos ambulante. Ci rivedremo domani a pranzo.

    Sta venendo buio e Casa Meissa è in fondo alla stradina. Non è ancora pronto il riso e pesce, ma Djiby si è riposato e rinfrescato. “Non è un robot” diceva oggi Lamine riferendosi a lui.
    Se tutto va bene rientreranno a Demi dopo la mezzanotte, lui a Pekini più tardi e questa mattina prima di partire ha portato il suo bambino in Ospedale.
    Qui la luce elettrica c’ è, ma mancano le lampadine. Si usa la pila.
    Mangiamo con appetito e ci salutiamo.
    Come ospiti, prima di me, quest’ anno ci sono state le mamme di Cristiana e di Giuliano.
    Mi fermo a Casa Meissa per guardare la televisione. Questa sera c’è lo sport nazionale: lotta libera. I campioni grandi e muscolosi come gladiatori romani avanzano pieni di catene,amuleti , frange e tatuaggi. Hanno con loro un Marabout personale e un corpo di ballo maschile che imita i movimenti di lotta che il campione improvvisa. Poi nell’ arena l’incontro fra i due. Con passi cauti e braccia protese si studiano senza toccarsi per minuti, finché zac uno entra nello spazio dell’ altro. Ora sono un unico corpo a quattro gambe che compie piccoli passi faticosi finché con una capriola uno dei due cade a terra sotto l’altro che ha vinto.
    Al telegiornale sullo schermo passano immagini di una Dakar paludosa. Le piogge del luglio scorso hanno

    fatto crollare case costruite vicino al fiume, mi spiega Ibu, e le acque non sono ancora defluite. Oggi le zanzare della malaria hanno fatto morire un altro bambino. Vado nella mia capanna. Mi sorprendono degli insetti grossi e neri che corrono sul pavimento. Chiamo Ibu “sono scarafaggi.?.” “Si”, mi risponde uccidendone un po’, “ma non pungono.” Lo so anche nelle corsie del vecchio Ospedale S. Paolo di Savona giravano tranquilli mentre mio padre stava morendo.
    Forse Djibìy si è messo comodo per dormire. Le lenzuola a una piazza nel mio letto matrimoniale sembrano già vissute. M’infilo sotto alla zanzariera con il completo che mi ha regalato Mariella i calzini e la pila sotto al cuscino. La luce è solo centrale. La giornata è stata piena e soddisfacente. Stendo le gambe finalmente. Una mi formicola e fa male.
    (Giulia Richebuono – foto dell’autrice)

  • OLI 384: VIAGGI – Diario di Giulia

    Demi, domenica 5 maggio

    Nel dormiveglia, questa mattina il rumore dell’ Oceano mi sembrava quello del treno…
    Ero contenta di scendere a Genova  rivedere la mia micia, le amiche, i gauchos.
    Nella notte è morto un capretto da latte. Il lamento della madre è uno strazio, gli altri animali sembrano spaventati.
    Do a Lamine 10.000 franchi senegalesi  perché vada subito a comprare fieno o quel che trova. Più due quaderni..Con Mariella liberiamo gli animali e diamo loro quel che troviamo in casa.
    Da quando, con i locali, maneggio soldi con quattro zeri, mi sento più esposta.

    Stacco e vado all’ Oceano. Mi siedo alle spalle di un pescatore con la rete avvolta attorno al braccio che, in acqua fino al ginocchio, aspetta l’ onda giusta. Solo allora con un gesto sicuro la tira lontano.
    Il ventaglio trasparente si apre e dentro resta un pesce. Impiega minuti per stenderla e ritorcerla con sapienza intorno al braccio. Si allontana alla ricerca di un’altra onda con pesce.
    Non ho voglia di rientrare. Mi arrampico su una duna e passeggio all’ ombra di conifere.
    Non sono più in armonia con questo luogo e da sola non so muovermi.
    Non so il perché, ma mi viene in mente Bersani “Non è facile far volare i tacchini sui tetti”  ma qui mi pare persino difficile riuscire a credere che i tacchini locali possano fare la ruota
    Nel mondo degli uccelli oggi mi sento un’anatra selvatica pronta per migrare.

    Mi vengono incontro due bambini che smettono di fare la lotta libera, “cadeau, cadeau” mi dicono. “cadeau”  fanno eco tre ragazzine con una fascina di legna in testa, “cadeau”, mi ripete un ragazzo indicando i miei occhiali. “ce n’est pas possible” rispondo, mentre sotto allo sguardo di Hallah i parà francesi continuano a esercitarsi.
    Passo da Aidà che non c’è. E’ andata con i bambini in una città vicina.
    Parlo col marito. Mi fa vedere le foto di lui sulla petroliera ad Hong Kong, della sua festa di matrimonio con Aidà, dei genitori morti e del figlio più grande, ora in collegio a Dakar per studiare francese. Ha 12 anni e tornerà per le vacanze.
    La sera dico a Mariella che ho voglia di muovermi da lì. Mi consiglia un alberghetto a Lampoul sur mer. E’ gestito da una Associazione italiana di turismo responsabile Domani dormirò lì.
    (Giulia Richebuono – foto dell’autrice)

  • OLI 382 – VIAGGI: Il diario di Giulia

    Demi 3 maggio venerdì
    A Mariella è rispuntata la malattia della pelle, dormirebbe tutto il giorno al sole.
    Ho pensato che la pelle è, fra i cinque sensi, il più diffuso del nostro corpo e separa la nostra interiorità da ciò che è esterno e spesso se l’energia è bloccata, manifesta disturbi.
    Il mio retropensiero è che lei si sta richiudendo in sé e i nostri progetti di viaggio stanno svanendo. Alcune persone col capo coperto di bianco sono venute per ascoltare la preghiera del venerdì trasmessa dalla radio messa fuori casa.


    (Aidà va all’orto con i bue bambini)

    Lamine, che prima della crisi economica mondiale era guida turistica, ora segue qui gli affari di Dù. Dice che domenica è la giornata migliore per visitare Dakar, perché c’è più tranquillità il giorno dopo la festa che è di sabato. Decidiamo di partire domenica mattina.

    E’ passata Aidà con un cesto di carote per noi.
    Al mare, sulla battigia alcuni giovani si esercitano nella lotta libera, altri si esibiscono in esercizi ginnici.
    Seguo un uomo che cammina in direzione Dakar cantando mentre sgrana il suo “corto rosario”. Mi fermo per guardarne un altro che sta facendo un falò per il suo pesce.
    Rientrando passo da Aidà. E’ stanca, ha dovuto dar da bere anche all’orto di un suo zio e il piccolo sta male.
    Le propongo di aiutarla, domani. A Dakar andremo domenica. Invece no, domenica la macchina serve a Dù quindi a Dakar ci si andrà domani.
    A fine giornata penso che per me nove giorni sono abbastanza qui a Demi.
    (Giulia Richebuono)

  • OLI 381: VIAGGI – Senegal, il diario di Giulia

    Demi 2 maggio, giovedì.
    La sabbia è ancora bagnata quando indirizzo i miei piedi verso l’Oceano, ma prima passo da Aidà per un saluto. Sulla spiaggia una riga di ragazzini sfila sulla passerella del bagnasciuga con in mano pezzi di polistirolo, di reti e pesci fatti come quelli della lettera P nell’alfabeto dei bambini.
    Torno a casa. L’acqua che abbiamo ci deve bastare finché non torna Dù ad azionare la pompa elettrica. Mi guardo allo specchio e mi sembra di somigliare a quell’arabo avvolto in una tunica blù, seduto sopra al bancone di una boutique ombrosa piena di pacchettini e stoffe colorate. Non ha voluto lo fotografassi, ‘sono vecchio’, mi ha detto sorridendo e guardandomi col suo sguardo intenso. Anche io a volte uso l’età per proteggermi.
    Sotto lo sguardo di Hallah i parà francesi si esercitano su aerei militari provenienti da Dakar. Vestita di karitè aspetto che l’azzurro del cielo me lo trasformi in olio per massaggi. Ho un appuntamento con Aidà, alle cinque. Mi porterà a vedere les jardins (gli orti) del deserto. Mi lavo con l’acqua del pozzo e vado. Indosso l’abito afro comprato al Suq di Genova. Abita nell’ultima casa del villaggio verso il mare ed è la responsabile della Maison de Santé. Chiacchieriamo in francese. Il figlio più piccolo soffre d’infiammazione alla vescica. Gli amuleti di protezione legati con un cordoncino di cuoio alla vita e al collo sono lenti ad agire e la schiena di Aidà è spesso bagnata. E’ esperta nella medicina tradizionale ed usa, in genere, piante locali. Mi fa vedere l’albero antibiotico, la pianta per far venire le mestruazioni, quella per abortire. Il come usarla è un segreto di poche. E’ pericolosa anche se molto richiesta.
    Mi conduce dai genitori. Suo padre maestro di Corano sta insegnando a un ragazzo la scrittura araba. La madre lavora il miglio fino alla consistenza della sabbia: c’è lì anche una giovane venditrice di liscivia, prodotta da lei. Ogni sacchettino peserà un etto. Gli orti sono in una località fuori dal villaggio con tanti pozzi scavati nella sabbia. Ogni famiglia ne ha uno dato in dotazione dal governo. Il marito, con i soldi guadagnati lavorando per cinque anni nel porto di Hong Kong ha comperato altri terreni. Ora vendono i loro prodotti a Dakar o nei mercati vicini. I cavoli saranno pronti fra venti giorni. La terra è cosparsa di conchiglie, pare sia un buon concime. Strappiamo erbe infestanti mentre Mohamed, il secondo figlio, si diverte a pisciare o sputare nei pozzi. Ha otto anni, ride, sa che non dovrebbe farlo. Arriva il marito, mi riconosce per quella che si era persa. E’ stato lui ad indicarmi la direzione di casa. Ha un fratello a Napoli e mi chiede se conosco Mario Balotelli. Pensa che la capitale d’Italia sia Milano. No, chiarisco, Milano ha due aeroporti, ma la capitale è Roma anche se ne ha uno solo. “Quanti aeroporti ci sono in Italia?”, mi chiede, “Non saprei quanti, tanti”, “Qui l’aeroporto è solo a Dakar,” dice.
    Torno a casa con Aidà, i bambini e il cappello pieno di peperoni. Incontriamo montagne di conchiglie, capre d’appetito che mangiano anche carta, donne con abiti sgargianti e secchi ricolmi in testa, altre che cucinano couscous di miglio dentro a capanne scure piene di bambini. Oltre la strada mi indica un villaggio abitato da gente di un’etnia diversa che comunica poco con loro.
    Dù ha preparato riso e gamberi. In una scatola di polistirolo con ghiaccio ci sono un mucchio di pesci. C’è anche una bottiglia di olio extravergine d’oliva comprato a Genova da Teresita in Vico delle Vigne. Ci rimprovera di non aver messo in valigia anche il pesto. Il solo pensiero gli mette appetito. Sa che con Mariella faremo un giro per conoscere altro del Senegal?
    Hanno portato sei caprette, due ancora da latte. Dù, cosa se ne fa? Dice che è cresciuto con le capre e gli fa piacere averle vicine. Sfoglio il giornale che ha portato: L’Observateur. “M.le President, les femmes ne son pas contentes” scrive Odile Ndoumbe, presidente del consiglio senegalese per la parità femminile” “C’est la plus malheureuse Fête du Travail” dice Baklaw Dioungue, segretario nazionale dei lavoratori del Senegal.
    Metto il giornale in valigia e vado a dormire con i belati nelle orecchie.
    (Giulia Richebuono)

  • OLI 380: VIAGGI – Senegal, il diario di Giulia

    Demi 1 maggio mercoledì
    Festa dei lavoratori.
    I miei piedi rifiutano camminamenti conosciuti, sono desiderosi di altri sentieri.
    Questa mattina ho fatto il giro dell’oca nel deserto prima di arrivare al varco fra le dune.
    Leggevo sdraiata quando è arrivato Aziz sotto ad un capello di tipo cinese. Ieri mi si era affiancato con un suo monologo interrogativo nella passeggiata sul bagnasciuga in direzione Dakar.
    Ha guardato la copertina del mio libro di Dacia Maraini. “Espagnola!” ha sentenziato squadrandomi come se gli avessi detto una bugia. “Italiana” ho ribadito.
    Mi ha chiesto se conoscevo il suo di libro, e si è seduto accanto leggendo il Corano in arabo a voce alta. L’ho salutato con mussulmana tolleranza. Difficile spiegargli che il Corano l’avevo già letto in italiano ma che io sappia nessun dio si è messo a scrivere qualcosa di suo pugno.
    Gli dei, parlano a profeti o indovini. E a noi arriva l’elaborazione di quello che pensano, ma una volta scritte le parole, diventano pietre, costruzioni che creano muri, protezioni, ponti.
    Meditazione sulla via del ritorno.
    C’è qualche scrittura che dica:
    – la donna che sa nutrire, generare, essere due in un solo corpo è importante come lo è la terra che, nel rispetto delle leggi delle stagioni, ci sostiene e mantiene;
    – in natura non esistono gerarchie, ma differenze che vanno rispettate
    – tra gli esseri viventi bisogna coltivare la solidarietà
    – chi farà del male intenzionalmente vivrà infelice fino alla fine dei suoi giorni, perché la divinità che è dentro a ogni essere non può essere offesa?
    Alla sera Lamine torna a Pekini. Aidà manda a chiedere se vogliamo del pane.
    Mangio un panino con la cipolla e a Papà ne diamo uno con la chocoleca.
    Questa sera siamo sole con Papà, di otto anni.
    Abbiamo una bombola col gas. La si può usare con un aggeggio che non abbiamo. Mariella che qui è quasi di casa, chiede a Papà di andarcelo a procurare. Ceniamo con riso e zucchini dell’orto del papà di Papà. Io su quella bombola non saprei cucinarmi un uovo sodo,
    Con Mariella facciamo un piano di tour turistico da realizzare al più presto
    Forse perché assieme a Mariella e Lamine avevamo voluto vedere su Earth dove mi ero persa ieri, poi hanno cercato la casa dove abita Dù con la sua famiglia allargata, il mercato, lo stadio…
    Li avevo lasciati a guardare il mondo dall’alto.
    (Giulia Richebuono)