Categoria: ILVA

  • OLI 379: CITTA’ – L’allargamento di Lungomare Canepa ha 6 mesi d’anticipo (sul ritardo)

    Figura 1 – Simulazione della strada a mare in costruzione a Cornigliano. Da www.infrastrutture.regione.liguria.it

    Le transenne e i pannelli velano di mistero lo stato di avanzamento dei lavori per la strada a mare di lungomare Canepa. Eppure i “lavori in corso” che restringono la carreggiata e fanno riversare la maggior parte del traffico su via Buranello e via Pieragostini sono sotto gli occhi di chiunque.
    La strada, una volta ultimata, avrà tre corsie per senso di marcia e collegherà lungomare Canepa con la stazione di Cornigliano ed il casello dell’aeroporto Colombo. Il finanziamento attinge in gran parte da Sviluppo Genova e – in percentuale minore- da fondi Anas, che derivano dall’Accordo di Programma (3/2008).
    A febbraio dell’anno in corso, durante un sopralluogo del presidente della Regione Burlando insieme al sindaco Marco Doria, si è fissata la data di fine dei lavori alla fine di luglio 2014 (Corriere Mercantile, 14 febbraio 2013), anticipando la fine dei lavori di sei mesi rispetto all’anno di ritardo che era stato previsto: i lavori dovevano infatti terminare alla fine di gennaio 2014. Sembra un ottimo risultato a sentirlo così, in realtà i sei mesi di ritardo avranno costi non ancora resi pubblici.

    Figura 2 – Da www.infrastrutture.regione.liguria.it

    Sul sito della Regione Liguria http://www.infrastrutture.regione.liguria.it,  lo stato di avanzamento dei lavori, o meglio, il cronoprogramma, è fermo al 7 luglio 2012, all’inizio della costruzione del ponte sul Polcevera. In quella data, evidentemente il programma ed i tempi risultavano rispettati, dal momento che la spia che informa del rispetto dei tempi risulta verde e segna “ok” (vedi figura 2).
    Ma i lavori sono in ritardo, forse anche perché, a complicare la situazione si mette il processo in corso su una “cricca di imprenditori” indagati per una presunta spartizione degli appalti in città, dalla bonifica delle aree ex Ilva all’allargamento di lungomare Canepa.(Corriere Mercantile 15 febbraio 2013).
    Meglio dare le buone notizie che le cattive, sarà la filosofia che ha tenuto la spia del sito della Regione ottimisticamente verde.
    (Eleana Marullo)

  • OLI 371 – ILVA: Francesca a Cornigliano per raccontare Taranto

    Il 22 marzo ha preso un aereo ed è venuta a Cornigliano per raccontare di suo marito e dell’ILVA. Francesca pare abituata a fare questa cosa in solitudine. Ma la sua è una faccenda di coppia. Francesca è una vedova di guerra. Perché a Taranto, da anni ormai, si combatte una guerra con due eserciti, due fronti e molte vittime. Una battaglia prima silenziosa e sotterranea che ha raggiunto visibilità ed impatto nazionale solo quando, un anno fa, la procura di Taranto ha aperto un indagine sull’inquinamento del siderurgico che ne minacciava la chiusura.
    Il marito di Francesca si chiamava Antonio Mingolla, era dipendente di una ditta di appalto. E’ morto il 18 aprile 2006, intossicato dal gas con il quale aveva a che fare. Solo a dicembre 2012 la sentenza del tribunale ha stabilito che Antonio è morto perché non sufficientemente informato e formato in materia di sicurezza sul lavoro. Nella sentenza la parola “omicidio colposo” definisce i termini della tragedia.
    Francesca Caliolo racconta la sua storia e quella di molti tarantini. L’Ilva è lo zaino che si porta sulle spalle con le morti sul lavoro, la difesa della sicurezza e la denuncia dell’impatto ambientale del siderurgico sulla città. Lei in questa guerra è stata schierata dalla vita, contro quelle morti definite cinicamente fisiologiche in base alle migliaia di posti di lavoro garantite dallo stabilimento.
    Al Centro Civico di Cornigliano per la proiezione del docufilm “La svolta, donne contro l’ILVA” e all’incontro a seguire con Francesca si potevano contare prima una ventina, poi meno di dieci persone. Lo sciopero degli autobus può aver causato solo in parte la desolazione di una sala così vuota. Soprattutto perché Cornigliano è stata ed è ILVA. Se lo stabilimento scende in piazza il quartiere si avvita e la produzione di Genova è legata a quella di Taranto come un bambino al grembo della madre.
    All’incontro del 22 marzo l’azienda, invitata a partecipare, ha mandato un suo funzionario che, cercando prima parole di comprensione per Francesca, ha ripetuto quello che ILVA ripete da mesi: non siamo i soli ad inquinare a Taranto. Non stupisce che sia stato massacrato anche dai pochi che erano in sala.
    Assenti – con l’eccezione di chi scrive – i sindacati metalmeccanici genovesi. Gran parte di loro ritiene che non partecipare a queste iniziative eviti l’acuirsi dello scontro. Sono spesso gli stessi che hanno mostrato forte disappunto per la protesta del Comitato Liberi e Pensanti durante la manifestazione di agosto a Taranto e che si stupiscono del successo di Beppe Grillo alle elezioni.
    In aprile l’agenda siderurgica tarantina offre le seguenti scadenze che inesorabilmente riguarderanno Genova:
    7 aprile manifestazione nazionale contro la legge definita Salva Ilva
    9 aprile pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge
    14 aprile referendum consultivo sulla chiusura parziale o totale dell’Ilva
    La siderurgia tarantina, ad oggi, garantisce salario a circa 14mila persone più l’indotto.
    L’incontro tra difesa della salute e difesa del lavoro non può prescindere da Francesca e dalla sua testimonianza.
    (Giovanna Profumo – immagine dell’autrice)

  • OLI 365: ILVA – Purtroppo, in Clini

    Corrado Clini, Ministro dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare, è stato invitato sabato 9 febbraio alla Prima Conferenza Programmatica del PD di Genova, titolo Connessioni, fare per fermare il declino.
    Interpellato sulla questione ILVA, il Ministro ha rilasciato la seguente dichiarazione:

    Il relatore della legge su Ilva ha fatto un lavoro preziossimo in una situazione molto difficile. Quello che noi abbiamo fatto è stato applicare le direttive europee. Sostanzialmente abbiamo riscritto l’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) utilizzando come riferimento la lista delle migliori tecnologie che vanno applicate nella siderurgia europea, pubblicate dalla Commissione Europea a marzo del 2012, l’abbiamo trasferita nell’autorizzazione per ILVA, abbiamo detto all’azienda: questo è il contesto nel quale le attività industriali possono essere esercite. 
    Abbiamo detto chiaramente all’azienda che non c’erano margini di contestazione, cioè se loro volevano aprire una contestazione come avevano fatto negli anni passati – conflitti, attacchi ecc. – noi, sostanzialmente, non avremmo concesso margini, perché ormai il tempo era andato troppo oltre e su questo l’azienda ha accettato e ha sottoscritto un piano di interventi. 
    Come sapete c’è in atto una polemica, che è ancora ovviamente in corso, sulla possibilità di chiudere, perché i danni erano troppo grandi, eccetera. Noi siamo rimasti fermi su un principio: che se si rispettano le direttive europee e le leggi nazionali c’è la garanzia per la protezione dell’ambiente. Ci sono dei problemi di eredità del passato che sono pesantissimi, ma che vanno separati, perché altrimenti, se non si afferma questo principio, viene a mancare un riferimento che non vale solo per l’ILVA, ma che vale per qualunque attività. E su questo abbiamo tenuto il punto. C’è un dialogo in corso con la magistratura di Taranto che mi sembra si stia evolvendo in modo positivo. 
    L’azienda oggi a Taranto è in condizioni di produrre pienamente perché l’unico sequestro rimasto attivo riguarda una quota di prodotti finiti in un periodo per altro molto limitato. 
    Il problema che abbiamo ora è, purtroppo – posso dire purtroppo perché avrei voluto non avere questo problema di fronte – la verifica dell’affidabilità dell’azienda in termini di investimenti per attuare completamente le prescrizioni dell’AIA. Su questo stiamo lavorando con l’impresa. Abbiamo chiesto all’impresa – come è già stato chiesto, per altro giustamente, anche dalle organizzazioni sindacali – di legare la riqualificazione industriale, prevista dall’Autorizzazione Integrata Ambientale, con un piano industriale dell’impresa e con un piano finanziario e su questo stiamo lavorando. 
    Io sono abbastanza confidente, perché credo che una parte importante dei problemi è stata risolta. Abbiamo anche previsto nella legge, nel caso in cui l’azienda non sia in grado di corrispondere ai suoi impegni, subentrano altre procedure di gestione dello stabilimento perché comunque consideriamo questo un presidio industriale strategico per il paese. 
    Penso che anche questo sia un tema che rimarrà aperto nei prossimi mesi, perché sarà necessario continuare a lavorare nell’area, verificare che cosa avviene. In parallelo è partito il piano del risanamento del territorio, abbiamo insediato la struttura a Taranto che si sta occupando di questo, legata anche alla riqualificazione del porto, per cui tutto sommato oggi gli elementi positivi sono molto più importanti degli elementi negativi.
    (a cura di Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 363: ILVA – Il linguaggio della procura e quello della busta paga

    Patrizia Todisco è tutta in una notizia Ansa del 30 gennaio 2013 ore 13.40
    TARANTO – Il gip del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco ha rigettato la richiesta dell’Ilva di revocare il sequestro preventivo dei prodotti finiti e semilavorati giacenti sulle banchine del porto, finalizzando il ricavato della vendita al pagamento degli stipendi e alle opere di ambientalizzazione previste da L’Aia. Il Gip ha precisato “Nessuna norma dell’ordinamento giuridico contempla la possibilità di una restituzione di beni sottoposti a sequestro preventivo, per giunta in favore di soggetti indagati proprio per i reati di cui i beni sottoposti a vincolo costituiscano prodotto, sulla base di esigenze particolari o dichiarazioni di intenti circa la destinazione delle somme ricavabili dalla vendita dei beni, che vengano ad essere dedotte dall’interessato”.
    Traduzione: non avevate la facoltà di produrre, lo avete fatto ugualmente, i vostri coils sono corpo di reato, non si possono restituire tanto più a “soggetti indagati” come il Presidente Bruno Ferrante.
    Si attende il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla legge 231 che, in assenza di un piano B, è ad oggi l’unica garanzia in mano ai dipendenti del gruppo per contare sul salario futuro, sempre che la conferma del sequestro dei rotoli (valore commerciale un miliardo di Euro) non spinga l’azienda ad esacerbare lo scontro minacciando nuovamente la sospensione del pagamento degli stipendi del mese di Gennaio, alimentando manifestazioni nelle piazze tarantine e genovesi.
    In questo scenario, il linguaggio della Procura diventa incomprensibile per chi può parlare solo quello della busta paga che è affitto, mutuo, cibo, bollette e spesso figli a casa che studiano o sono disoccupati. In questi termini non c’è spazio per la comprensione delle faccende giudiziarie. La famiglia agli arresti è vittima, agli occhi di molti, di una magistratura ostinata, intenta a voler spezzare le gambe alla proprietà e ad annientare la filiera siderurgica italiana. Le trasmissioni televisive diventano di parte, i dati epidemiologici sono taroccati, la giustizia italiana ingiusta, incapace di comprendere che la legge 231 non è ad aziendam ma tutela i ventimila e oltre posti di lavoro. Questo – in estrema, edulcorata sintesi – il pensiero dominante dei ventimila che dal siderurgico e dalla proprietà dipendono. Nessuno di loro ha tempo per immaginare scenari diversi, per cogliere i limiti di una legge che politica, governo, sindacati, dichiarano essere la migliore delle leggi possibili. E nemmeno di giudicare articoli di stampa nei quali è scritto che “gran parte del tesoro dei Riva è all’estero” e “che la cassaforte del gruppo è in Lusserburgo dove esiste una fitta rete di società controllate”.
    Nonostante il contesto, anche quest’anno Guido Rossa è stato giustamente ricordato all’Ilva di Genova. L’anniversario del suo assassinio scandisce il tempo che passa sullo stabilimento e su tutto il Gruppo Ilva, e su quanto si doveva e poteva fare e non si è fatto, principalmente per indolenza. Da trentaquattro anni.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

  • OLI 361: LETTERE – Mio padre all’ILVA di Taranto

    Mentre passavo da piazza Corvetto osservando la disperazione e la rabbia degli operai dell’ILVA, ho pensato a quando, nel 1967 a Taranto, mio padre mi disse che costruire in quel modo lo stabilimento siderurgico preludeva a disastri ambientali e sociali. E che la colpa era della politica, dell’avidità, dell’ignoranza e dell’infernale combinazione di questi tre elementi. Oggi avrebbe usato il termine collusione. L’Italsider aveva trasferito Giovanni Sissa a Taranto nel 1966. Dottore in Chimica, siderurgista, aveva lavorato prima alla SIAC (Società Italiana Acciaierie Cornigliano) e poi all’Italsider. Era un quadro (anche se allora l’espressione non usava), ma soprattutto era un tecnico. Bravo. Conosceva i processi industriali e chimici, ma anche la realtà del lavoro in officina, che aveva seguito come responsabile a Campi, prima e dopo la Guerra. La fabbrica aveva contribuito a salvarla da partigiano durante la resistenza in città. E poi, dopo la fine della Guerra, in fabbrica ci stava e tanto, con gli operai nei reparti della lavorazione a caldo.

    La SIAC fu assorbita dall’Italsider a metà degli anni ’60. Forse i suoi eroici trascorsi da partigiano di Giustizia e Libertà non gli giovarono in un’Italia dove solo chi era democristiano o comunista aveva dei punti di riferimento e sostegno. Essere un bravo tecnico, competente, indipendente, coraggioso e senza copertura politica non era il mix vincente. Appena entrato all’Italsider fu spedito a Taranto, quando si stava costruendo appunto lo stabilimento.
    In quanto siderurgista e innovatore, con anche una ottima conoscenza dell’inglese, spesso era stato a contatto con tecnici del settore di altri paesi, in particolare giapponesi e russi. Era stato Bruxelles presso la CECA. Conosceva i processi di produzione dell’acciaio, capiva la dinamica industriale internazionale. Insomma conosceva bene il settore ed era dotato di una buona capacità previsionale, come dimostrato in altre occasioni. Antifascista della prima ora, aveva infatti perso i diritti politici per aver detto in fabbrica nel 1939 che se l’Italia fosse entrata in Guerra l’avrebbe persa perché l’esercito non era equipaggiato (la Guerra però la fece ed in Africa, salvandosi per puro miracolo).
    Quella di Taranto fu per lui un’esperienza devastante, perché sentiva che nessuna ascoltava il suo parere ed i timori di quanti non accettavano di chiudere gli occhi. Ma i giochi erano troppo grossi per permettere ripensamenti. Sentiva che restando in servizio si sarebbe reso complice di quello che lui aveva previsto sarebbe stata una catastrofe industriale ed ecologica. Accettò dunque nel 1968 un prepensionamento forzoso, molto penalizzante.
    Trascorsi con lui a Taranto solo un breve periodo, durante le vacanze scolastiche. Era una città lontanissima da Genova nel 1967. Ricordo la meraviglia nello scoprire come fosse il mare al Sud. Nata e vissuta Genova, non avevo mai visto tanto pesce, tante conchiglie, tanti coralli, e su una spiaggia così bianca. Proprio in città. Era davvero un viaggio andare da Genova a Taranto, in auto, quando ancora l’autostrada fra Sestri Levante e La Spezia non c’era. Si iniziava con il Passo del Bracco e poi via, fino a perdersi sui monti dell’Irpinia. Si arrivava dopo decine di ore. Di aerei neanche a parlarne (forse i treni invece erano meglio di adesso).
    Era là che tutto era diverso. Era un territorio che non aveva alcuna tradizione industriale, quindi né una cultura né una coscienza collettiva pregressa. Senza esperienza di incidenti sul lavoro, di lotte per il lavoro, di sviluppo industriale e di sue contraddizioni, mancano gli anticorpi sociali sul territorio per reggere l’impatto di un’industrializzazione improvvisa di quella portata.
    Oltre all’ambiente marino, bellissimo, dove sembrava il tempo di fosse fermato, c’era intorno alla città una campagna splendida, con caratteristiche di armonia arcaica. Era inimmaginabile che le pecore delle masserie locali sarebbero state un giorno abbattute perché contaminate della diossina.
    Nonostante questa immagine “da cartolina” della Taranto di allora, era però possibile prevedere. Se era stato in grado di farlo mio padre, al punto di preferire di chiudere malamente la sua carriera piuttosto che rendersi connivente dello scempio in nuce, evidentemente era possibile.
    Mi domando oggi cosa penserebbe oggi se fosse vivo. Di almeno una sua considerazione sono certa: che per non ripetere gli errori vanno comprese le cause. Non dimenticare per non ripetere gli errori.
    Il conflitto fra potere esecutivo e potere giudiziario in atto su questa vicenda è troppo pesante perché si possa sperare che il Decreto “tutti contenti” sia davvero risolutivo. Il groviglio istituzionale è enorme, le implicazioni giudiziarie anche. Io non ho né titolo né intenzione di aggiungere altro su questo.
    Su ieri però i giudizi si devono dare. Giudizi politici. Una delle peggiori brutte abitudini della nostra vita democratica è quella, inaugurata nei primi anni ’90 e mai abbandonata, di togliere alla politica la funzione di giudicare scelte e relative conseguenze e di scaricare sulle spalle della magistratura anche oneri che non le spettano. Di affidare al potere giudiziario quanto dovrebbe invece essere invece squisitamente politico (e non penale): valutare le responsabilità. Questo è il grumo paradossale, inestricabile, perché sbagliato nei termini. Stiamo parlando di vicende iniziate mezzo secolo orsono, forse un tempo sufficiente perché almeno la Storia possa esprimersi. Genova ha avuto una parte così importante, prima durante e dopo, nelle vicende di Taranto che forse gli storici potrebbero iniziare a leggere i fatti di allora. Anche per stabilire finalmente le responsabilità, quelle storiche almeno.
    Non per allungare la lista degli indagati, ma per non ripetere gli errori. I disastri ambientali hanno origini lontane e se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo guardare molto indietro.
    (Giovanna Sissa)

  • OLI 359: ILVA – Trasversalità

    Sono stata contenta di aver fatto un giro insensato per tornare a casa in motorino. Averci impiegato troppo tempo. Così ho potuto assaporare il desiderio di arrivare a casa presto per scrivere, e ho colto davvero il senso di quella piazza bloccata per l’intera giornata, con la voce che gridava forte dentro di me: “perché con loro non si è fermata e non si ferma l’intera città?” Loro sono gli operai dell’ILVA. 
    Di questi minuti il “decreto salva Ilva” che Monti ha definito più ampiamente “salva ambiente, salute, lavoro”. Hanno battuto le mani, quando Grondona ha detto – la voce distorta dalle casse – che c’era il decreto, che si tornava a lavorare. Hanno fischiato e cantato, io con loro, il corteo studentesco partito da Caricamento e solidale alla loro lotta, con loro. Sono arrivata passando sotto i fili di plastica bianchi e rossi della polizia, ho camminato in piazza Corvetto con la mia idea romantica della fabbrica, della lotta. Ho le mani pulite, le fabbriche le ho visitate con la scuola, da bambina. Uno di loro potrebbe essere mio padre? Potrebbe essere mio fratello, un amico, un compagno? Certo. Lo sono, o sento come se lo fossero, forse con idealismo ed emozione, senz’altro senza retorica. 
    Solo uomini davanti alla prefettura, e un odore acre di bruciato che mi è rimasto impigliato nel maglione, che non si addice alla piazza di una città. Due cassonetti sono capovolti. Chiedo cos’hanno bruciato, mi dicono “carta”, mi dicono “per scaldarci”. Certo. È freddo. Parlo con alcuni di loro, sono in imbarazzo, io, loro non mi pare, parlano a capannelli, le ruote delle macchine alte come me, fischiano e gridano. Chiedo se li stanno ascoltando. Un signore grande, con le mani in tasca, gli occhi stanchi, mi dice “certo che no, ci stanno prendendo per il culo”. 
    Nel suo sguardo c’è anche un “come sempre”, ma non lo pronuncia, lo sento io. Cammino con le mani in tasca anch’io, tra quell’umanità a cui non sono avvezza ma a cui mi sento legata. Arriva il corteo, piccolo ma determinato, slogan e solidarietà: “il nostro futuro, non si tocca, studenti e operai, uniti nella lotta”! Banale, certo. Ma sta accadendo, è una dimostrazione, siamo qui, sono qui. Si può essere, mi chiedo, femminist* senza essere contro il razzismo? Si può essere ambientalist* senza lottare contro l’omofobia? Ci si può spendere per i propri diritti pensando esclusivamente a quelli? Si può essere contro la mafia e non contro il sessismo? Il concetto di trasversalità è scivoloso a volte ma in questo senso, in questo caso, nel non lottare cioè “a compartimenti stagni”, considerando con coscienza che ciò che viene tolto ad un compagno (che sia il nostro migliore amico o un perfetto sconosciuto) viene tolto, in quell’esatto istante, anche a noi, forse è uno strumento chiave. Credo che il cambiamento reale possa avvenire, di qualunque lotta si tratti, quando ogni persona si sente realmente coinvolta. Gli operai hanno bloccato la città, il disagio che manifestavano non ha niente a che vedere con il disagio che ha avuto chi ha fatto tardi, o ha faticato a rientrare a casa. Perché? Perché il primo – e la lotta che ne consegue – ci ricorda che nessun diritto è per sempre e che se non poniamo attenzione e scrupolo ogni giorno un mattino potremmo non aver bisogno di arrivare in orario da nessuna parte, tanto meno al lavoro, poiché – nell’assordante silenzio che a volte si sente – ci avranno tolto anche quello.

    (Valentina Genta – Foto dell’autrice)

  • OLI 359: ILVA – Adriano Sansa e una domanda ai politici genovesi

    Voglio trovare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha. 
    Voglio trovare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha… 

    Vasco Rossi

    La galleria di immagini che segue contiene i fotogrammi delle quattro giornate dell’Ilva di Cornigliano e dei suoi operai che, mentre c’era chi latitava, scendevano in piazza per scongiurare la chiusura dello stabilimento. Da Genova a Roma, andata e ritorno: davanti al casello di Genova ovest, sotto la pioggia battente di Cornigliano, a Roma davanti a Montecitorio e nuovamente a Genova davanti alla prefettura. In manifestazioni in cui il confine tra la difesa del proprio lavoro e la difesa degli interessi della proprietà risultava incerto. La minaccia della chiusura ha fatto cadere le barriere tra fedeli alla proprietà e irriducibili, anche se per i primi è stata solo la coscienza aziendale a fare la differenza.
    Ma le quattro giornate dell’Ilva cosa hanno prodotto?
    Primo, ma non è ancora certo: la ripresa della produzione nel Siderurgico tarantino e a Genova, senza le quali l’azienda aveva minacciato la chiusura degli impianti.
    Secondo: un decreto legge vigoroso nei toni, ma modesto nei contenuti, che non tutela i deboli. Un testo che non individua le risorse reali per la bonifica ed è vago nell’indicare i criteri relativi alla figura del Garante. A parte il fatto che sarà di nomina del presidente della repubblica e che costerà allo stato seicentomila euro. Un ddl che potrebbe dare alla proprietà il tempo necessario per mettere in vendita l’azienda.
    Terzo: la firma di una tregua.
    Quarto: un solco profondo tra salute e occupazione, definitivamente diventate merce di scambio.
    Quinto: la garanzia temporanea di salario e lavoro
    Si poteva fare di più. Tra le altre cose valorizzare il lavoro e le competenze della magistratura, che viene osannata quando reintrega il lavoratori FIOM in fabbrica, ma è massacrata se cerca di proteggerli. Si poteva  vigilare maggiormente su ILVA.
    Indiscrezioni giornalistiche indicano come possibile garante Umberto Veronesi. Lo stesso Veronesi citato in un’intervista dal Presidente dell’Ilva Bruno Ferrante come appartenente al gruppo degli “Amici del Venerdì”: una trentina di persone delle quali facevano parte sia Emilio Riva che Ferruccio De Bortoli che una volta al mese si incontravano per stare insieme, per discutere. Non è dato sapere chi siano gli altri ventisette amici del venerdì.
    I molti livelli di narrazione della vicenda offrono una testimonianza commovente: l’intervista a Adriano Sansa, ex sindaco di Genova che dichiara che Riva voleva contribuire alla sua campagna elettorale nel 1997 con 250-300 milioni di lire. Ma, naturalmente, io rifiutai, ha precisato Sansa.
    Legittimo sarebbe porre la domanda a quelli che sono venuti dopo: a Burlando, arrivato in Regione Liguria nel 2005 sulle vele dell’associazione politica Maestrale, e in Comune a Pericu, Vincenzi e Doria: chissà se Riva ha pensato di far loro la stessa proposta. E chissà se loro hanno rifiutato.
    (Giovanna Profumo – foto dell’autrice)

     

  • OLI 358: PAROLE DEGLI OCCHI – Ilva, a rotoli

    Foto di Giovanna Profumo

    Rientro dei lavoratori e dei mezzi all’ilva di Genova dopo la manifestazione del 27 novembre: i lavoratori hanno deciso di riunirsi nei prossimi giorni in assemblea permanente

  • OLI 358: LAVORO – Sciopera Ansaldo STS, pochi al corteo

    Giornata di cortei oggi 27 novembre a Genova: i lavoratori dell’Ilva in strada a Cornigliano a bloccare sopraelevata e casello autostradale di Genova Est, contro la decisione di chiudere lo stabilimento Ilva di Taranto da parte della direzione aziendale. Poco tempo prima per le strade di Sampierdarena erano sfilati in corteo i lavoratori di Ansaldo Energia ed Ansaldo STS, diretti verso la sede regionale ligure, dove si è svolta una seduta congiunta di Regione Liguria e Comune di Genova: scopo della giornata è stato esprimere la decisa contrarietà di lavoratori, sindacati ed enti locali alla decisione di Finmeccanica di procedere alla vendita di Ansaldo Energia ed Ansaldo STS. 
    Dopo gli interventi dei rappresentati di FIM, FIOM ed UILM, sono intervenuti il Sindaco di Genova Marco Doria ed il Presidente della Regione Liguria Claudio Burlando.
    Su Ansaldo, Marco Doria accusa il governo di assenza e di scarso interesse per l’”italianità” della realtà Ansaldo: “sono in campo tante ipotesi di possibili acquirenti, non abbiamo simpatie, ma vogliamo una prospettiva certa per le nostre aziende, una prospettiva anche italiana. Testa e cuore delle società Finmeccanica devono restare in Italia. Il governo avrebbe dovuto fare di più per Ansaldo Energia e Ansaldo Sts, avrebbe dovuto assumere come azionista di Finmeccanica una posizione netta che mettesse in primo piano le prospettive industriali di un’Ansaldo italiana con un’azionista forte. Questo il Governo non l’ha fatto”.
    Su Ilva, Marco Doria ha sostenuto la necessità di tutelare due diritti fondamentali quali lavoro e salute, che non possono essere posti in contrapposizione, il governo su tali questioni deve fare di più.
    Anche Claudio Burlando invita il governo a fare di più sul caso Ilva, promulgando un decreto che garantisca tempi certi per il risanamento dello stabilimento ma nel contempo permetta la prosecuzione della produzione.
    Sulla vendita di Ansaldo, sostiene Burlando, non c‘e stata alcuna trasparenza, trattandosi di aziende a capitale pubblico, non è possibile che i lavoratori non vengano informati.
    Per quanto riguarda invece le politiche industriali nel campo dei trasporti, perché – si chiede Burlando – non procedere al risanamento di Breda (vedi OLI 315) in modo da poter offrire sia i treni di Breda sia il segnalamento di Ansaldo STS.

    foto di Giorgio Bergami

    Burlando termina con una precisa richiesta al governo: “questo management di Finmeccanica non può occuparsi di questa vicenda, il governo deve fare un unico atto, semplice, che passi la palla su questa vicenda ad un governo diverso, politico, legittimato dal voto”.
    Al termine della seduta i consigli regionale e comunale hanno approvato all’unanimità un documento da inviare alla Presidenza del Consiglio ed ai leader di partito, per esprimere la netta contrarietà alla cessione di Ansaldo Energia e Sts, invitando il governo ad agire tempestivamente su Finmeccanica affinché sospenda ogni decisione sulla vendita.
    Scarsa la presenza dei lavoratori di Ansaldo STS al corteo, qualche decina di persone, e gli altri? 
    (Ivo Ruello – foto dell’autore e di Giorgio Bergami)) 
     http://genova.repubblica.it/cronaca/2012/11/27/foto/regione_e_comune_insieme_no_alla_vendita_di_ansaldo-47539818/1/

  • OLI 356: ILVA – Genova chiama Taranto, la parola a un delegato

    L’ho giudicato il peggior datore di lavoro che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita di imprenditore e di politico successivamente. Una persona che guarda esclusivamente ai suoi interessi – lo dico, non ho niente da nascondere – in un modo che io non ho mai visto uguale “fregandosene” dell’ambiente, della città, dei rapporti, della parola, degli impegni: non li ha mai rispettati, mai, mai, con nessun colore politico. E ha aggiunto: ho l’impressione che lui abbia il coltello della parte del manico e ancora è una controparte molto pericolosa. Queste sono alcune delle dichiarazioni di Sandro Biasotti – presidente della Regione Liguria dal 2000 al 2005 – su Riva in occasione dell’incontro sul caso acciaio del 26 ottobre a palazzo Tursi.
    In azienda, durante le assemblee sindacali, spesso è stato definito bandito.
    Un suo dirigente ha più pacatamente osservato: io lavoro per soldi, Riva fa la stessa cosa.
    In molti gli riconoscono un potere divino, fuori dal controllo di istituzioni e sindacato. Tant’è che spesso, nell’immaginario collettivo, la parola Riva sfuma dal primo piano del fondatore Emilio, alle ciminiere di Taranto, quasi fosse un moloc. E’ un fatto che le dichiarazioni di Biasotti restituiscono un’immagine dei politici con le armi spuntate e sono di una pesantezza inaudita.
    Per questo è importante quanto ha dichiarato Federico Pezzoli, delegato Fiom all’ILVA di Genova Cornigliano, che ha sentito l’esigenza di inquadrare di chi stiamo parlando: della famiglia Riva con la quale se è così difficile per le istituzioni rapportarsi – visto l’andazzo – altrettanto difficile lo è per il sindacato, alla luce del momento contingente di crisi acuta, ma è il nostro datore di lavoro, non ce lo siamo scelto e con lui dobbiamo, proviamo a confrontarci.
    Federico Pezzoli è uno dei 1750 dipendenti rimasti. Nel 2005 eravamo 3000, oggi siamo 1750, 1150 dei quali impiegati nei contratti di solidarietà: quindi la paura è tanta e la preoccupazione è forte, non siamo certamente insensibili a tutto quello che sta emergendo, i dati sono sconvolgenti, per questo è importante manifestare il sentimento che vige all’interno dello stabilimento. In gioco, dice Pezzoli, è l’intera filiera che alimenta l’industria manifatturiera italiana, fermare il ciclo integrale di Taranto genererebbe 7 miliardi di extra costi per l’approvvigionamento dell’acciaio. Pezzoli ha spiegato che le ripercussioni sul fronte occupazione sarebbero devastanti. I dipendenti del gruppo in Italia sono almeno 20.000, ma conteggiando l’indotto il numero si può raddoppiare. Per questo la nuova AIA rappresenta per il delegato della FIOM un buon punto di equilibrio che consente la riduzione dell’inquinamento, senza assestare un colpo mortale alla produzione. Pezzoli si è detto veramente sgomento dai dati sulla mortalità 2003 – 2009 emersi dallo studio Sentieri, ed ha ricordato che la Fiom-Cgil si è costituita parte civile nel processo a carico della famiglia Riva. Quindi sì alla richiesta degli investimenti necessari per il risanamento ambientale (rispetto ai quali la FIOM dell’ILVA di Taranto ha presentato e fatto votare una piattaforma piattaforma ndr). Utile però riflettere sulle ragioni che hanno provocato un disastro che non si limita, secondo il delegato, alla gestione Riva, presente dal 1995, ma anche al periodo in cui la gestione era pubblica. E’ stata ricordata l’omessa vigilanza da parte dei governi nazionali e delle istituzioni pugliesi, senza fare sconti nemmeno al sindacato tarantino. Il delegato ha salvato l’Accordo di Programma applicato a Genova Cornigliano rispetto al metodo, ma sul merito questo è stato il suo bilancio: l’Accordo ha permesso la trasformazione dell’area a caldo di Cornigliano potenziando quella a freddo, nessuno è stato licenziato, però la forza lavoro è scesa da 2700 persone a 1700 attraverso 7 anni di CIGS, CIGO e CdS. Ed ha aggiunto che se si fosse optato per un forno elettrico ecocompatibile forse oggi i problemi del sito genovese non esisterebbero.
    La scorsa settimana l’azienda ha richiesto la messa in cassa integrazione per tredici settimane, a decorrere dal 19 novembre, per 2000 dipendenti dell’area a freddo dello stabilimento di Taranto.
    (Giovanna Profumo – disegno di Guido Rosato)