Minori – I soldi senza pensiero servono a poco

Se dovessimo sintetizzare in poche righe il frutto degli incontri che abbiamo avuto in questi mesi con funzionari ed operatori pubblici, ricercatori ed educatori a proposito di “minori stranieri non accompagnati” utilizzeremmo le parole di uno dei nostri interlocutori: “nei nostri enti pubblici non è mai stata fatta una grande elaborazione di pensiero, tutto è delegato agli operatori. I soldi sono pochi. Altre regioni fanno di più, anche in termini economici. Ma i soldi senza pensiero servono a poco”.


A metterci sulla strada di questa piccola ricerca erano state le “dodici storie contro la distrazione” raccontate dalla Presidente del Tribunale di Giustizia di Milano Livia Pomodoro nel suo libro “A quattordici anno smetto”. Ora di questo pezzo della nostra città qualcosa in più sappiamo attraverso le informazioni, i dati, le valutazioni raccolte. Cercheremo di trasferirle almeno in parte, collocandole sullo sfondo di alcune immagini che abbiamo colto nei nostri giri.
Le quattro scrivanie pressate nei pochi metri quadrati di una stanzetta dell’Uocst del Comune, via Ilva 5, con la gente che preme da fuori già alle otto del mattino, ciascuna col carico di problemi che può portare un “Cittadino Senza Territorio”. Il presidente del nostro Tribunale dei Minori che è costretto a rifiutare una proposta di abbonamento a una importante rivista giuridica perché “non ci sono i soldi”. Che mancano anche per la cancelleria, per la benzina, per il personale. La stampante dell’ufficio comunale di via Ilva inutilizzabile per la mancanza di toner e l’operatore/operatrice che si scusa di questo e dei dati arretrati, fermi al 2004, che avrebbe voluto stamparci: sul computer di ufficio non è installata la suite di Office, i files sono disponibili in sola lettura. Per lavorarci c’è il computer di casa, nel tempo libero, se uno vuole o può, altrimenti, pazienza.
I ragazzi marocchini che alle quattro del pomeriggio in via del Prione si affrettano verso la sede del Centro Olympic Maghreb. Quaranta ragazzi che tutti i giorni vanno lì a studiare, a far vedere le pagelle, a parlare, a lavarsi i vestiti, a giocare, a trovare confini per le loro complicate adolescenze prive di madri, e qui, quando va bene, il padre, o uno zio. Ad accoglierli in una sede che in dieci anni è stata cambiata tre volte e che oggi consiste in una serie di stanze dal soffitto bassissimo, senza finestre, sorta di catacombe, tre operatori del privato sociale che dal 1993 sono la trama che i ragazzi utilizzano per tessere i loro rapporti con la scuola, con gli adulti, con i coetanei, con le famiglie in Marocco. Il progetto è finanziato dal Comune di Genova, ma le risorse sono diminuite negli anni. Ora bisogna cavarsela con 72.000 euro, ed ogni anno a chiedersi se i soldi ci saranno ancora.
(Paola Pierantoni)