Addii e veleni – Come faceva paura quel Novi in porto

Il rispetto che si deve all’operato della magistratura (almeno nell’ambito dei rapporti di una società appena normale), non può impedire di esprimere sorpresa e incredulità di fronte agli sviluppi dell’inchiesta giudiziaria che ha investito i vertici dell’Autorità portuale. Premesso che si tratta di avvisi di garanzia, quindi ipotesi investigative da verificare, è innegabile che i soli titoli dei reati citati fanno impressione: turbativa d’asta, concussione, falso e truffa, azioni tipiche di chi, secondo un andazzo diffuso, fa mercato della cosa pubblica a proprio vantaggio, per arricchirsi. Poi uno legge paginate di interrogatori, per capire che cosa è realmente successo, e si accorge che, per fortuna, nessuna banda di malfattori si era impadronita dello storico palazzo San Giorgio.


Al centro del caso, c’è una storia complessa, non più di altre, relativa all’assegnazione di uno dei terminal più ambiti, il Multipurpose: richieste di spazi operativi, mediazioni, rinunce, indennizzi, fino alla conclusione di un accordo, prima approvato e successivamente contestato, come frutto di “imposizione”, dagli intimoriti firmatari. Ora tutto si può dire: che non sia compito della politica portuale intervenire per trovare intese tra i contendenti privati, che le funzioni cui deve limitarsi l’Authority debbano essere di tipo burocratico-notarile, che conti poco o niente aver portato avanti la delicata vicenda con la supervisione, e il benestare, dei più autorevoli specialisti di diritto reperibili in sede locale. Francamente però il quadretto di certi lupi d’affari impauriti, soggiogati dal presidente-padrone, sfiora il ridicolo.
E’ difficile spiegare lo sconcertante finale senza tener conto della lunga stagione dei veleni che ha accompagnato la presidenza di Giovanni Novi in porto. Broker di lungo corso, abituato al decisionismo aziendale, una volta preso il timone pubblico egli ha cercato di correggere alcune anomalie, andando a toccare interessi intoccabili, e ha scatenato le furie. Inutilmente può vantarsi di aver recuperato 14 milioni di euro, perduti per canoni sottostimati e fatturazioni indebite. Gliel’hanno giurata, riuscendo infine a rovesciare il tavolo e farlo passare per quello che non è: se non un trafficone (chi lo conosce -estimatori o critici- non ha il minimo dubbio sulla sua onestà), per lo meno come un Gengis Khan, terrore dei terminal, che piegava capitani d’industria e di navi ai suoi voleri. Per fortuna ora lascia; così in porto finirà il tremito convulso che prendeva solo a vederlo.
(Camillo Arcuri)