Nascondo il viso per difendere mio padre

Sono nata in Eritrea da una famiglia benestante. Maggiore di sei figli, a 18 anni sono dovuta partire per il centro di addestramento di Sawa, obbligata al servizio militare, come tutti i giovani del mio paese. Pensavo sarebbe durato un anno, ma dopo cinque ero ancora lì, senza vedere la mia famiglia e assistendo a molte ingiustizie, soprattutto verso le donne come me. La mia opposizione ai maltrattamenti è stata punita più volte, quindi alla prima occasione favorevole sono scappata e sono arrivata a Khartum, in Sudan.
Lì ho cercato una lontana parente, in Italia da tanti anni, che purtroppo non ha potuto aiutarmi ad entrare regolarmente in Italia. Allora mi sono decisa ad attraversare il deserto del Sahara per cercare di arrivare in Libia.
Al momento della partenza non pensavo che sarei stata testimone e protagonista di episodi drammatici.


Invece partiamo in 80, e dopo un viaggio estenuante solo settanta di noi riescono ad arrivare in Libia. Gli altri, ragazzi e ragazze, restano sepolti sotto la sabbia del Sahara.
In Libia è dura, i profughi come noi non sono bene accolti.
Chiedo aiuto a parenti ed amici in giro per il mondo, e riesco a mettere insieme i 1500 dollari che servono per la seconda parte della fuga, quella attraverso il Mediterraneo.
Presi gli accordi con i trafficanti e pagato il prezzo per il trasporto, ho aspettato dieci giorni nascosta vicino ad una spiaggia che venisse il mio turno di imbarcarmi, destinazione Italia.
La traversata via mare dura più del previsto e sacrifica altre vittime. In alto mare abbiamo chiesto aiuto lanciando un SOS, una imbarcazione italiana finalmente ci raggiunge.
A Lampedusa siamo stati accolti nel campo profughi, molti sono finiti in ospedale per le pessime condizioni di salute.
La vita nel campo profughi era infernale, ma l’aver visto morire i miei compagni di viaggio nel deserto e in mare mi ha dato il coraggio di farcela.
Finito il processo di riconoscimento ed identificazione ho avuto il permesso di soggiorno per un anno per motivi umanitari, ero quindi in grado di viaggiare e di spostarmi per il paese.
Non conosco nessuno, e decido di andare verso il nord, dove vive la mia parente; lì trovo lavoro come badante. Questo mi permette di aiutare economicamente la mia famiglia, rimasta in Eritrea.
Mi ritengo fortunata perché sono viva e posso contribuire alla sopravvivenza della mia famiglia ma purtroppo i problemi non sono finiti: mio padre viene arrestato perché avevo disertato il servizio militare scappando. L’unica via d’uscita per restituire a mio padre la libertà è il pagamento di 50mila Nakfa, una vergognosa ritorsione alla quale sono sottoposte numerose famiglie di profughi eritrei.
Questo è il motivo per cui, una volta scesi dalle barche scassate che ci portano a Lampedusa, nascondiamo i nostri volti. Non è per vergogna, né per colpa. Tentiamo solo di non compromettere la sicurezza dei nostri famigliari fornendo prove tangibili della nostra fuga.
(lettera firmata)