Genova nel mondo – Contro gli uomini-lupo, marketing spirituale

E di poche settimane fa la notizia che la Giunta regionale ha aperto in nazioni lontane – a cominciare dagli USA – varie “case della Liguria”. Serviranno si è detto a “vendere” all’estero il “prodotto Liguria”. Non a vendere ma ad aiutare – il che non nuoce all’immagine della nostra regione – appartiene invece l’iniziativa, promossa da don Piero Tubino, anima storica della Caritas diocesana (a cui recentemente -19 ottobre ’05- Repubblica ha dedicato una nota).


Nella prima settimana d’ottobre don Tubino, a dieci anni dalla fine della guerra e dalla firma degli accordi di pace di Dayton, ha guidato in Bosnia una piccola comitiva di genovesi: due operatori Caritas (una, che oltre a tedesco e inglese, conosceva un po’ di croato), due sacerdoti e un “volontario”, da Sarajevo a Novi Travnik e a Rostovo. Dal 2003 i fondi a favore della Bosnia raccolti durante la guerra vengono impiegati – secondo il suggerimento dell’allora direttore Caritas di Sarajevo, don Stipo Knezevic – in un progetto di “ricostruzione dell’economia familiare attraverso la fornitura di greggi di pecore”. Principali beneficiari dell’ iniziativa sono cattolici – in Bosnia una minoranza – che negli anni della guerra hanno subito gravi perdite. All’invito di Tubino a diversi sacerdoti genovesi di accompagnarlo nel viaggio (“perché vedano”), ha risposto solo don Filippo Monteverde, parroco della chiesa delle Grazie a Sampierdarena. Degli altri interpellati, alcuni hanno d ichiarato la loro indisponibilità per il peso degli impegni parrocchiali; alcuni non hanno risposto.
I trasferimenti da un posto all’altro sono pesanti; le strade, per lo più secondarie, sterrate, tortuose: per fare cinquanta chilometri ci vuole anche un’ora e mezza. A bordo si medita, si legge, si prega e ci si prepara agli incontri. Si mangia al sacco con i viveri portati da Genova nelle piccole borse frigo. Don Piero chiede a tutti di non dimenticare i luoghi delle nostre soste ma di tenerli nella memoria: un impegno a tornare. Prima tappa a Mostar – la città del ponte ricostruito. Inaugurato a maggio del 2004 il ponte voleva lanciare un messaggio di speranza, di convivenza possibile tra minoranza cattolica e musulmani. Chi ci vive dice che il ponte divide esattamente in due la città e che le distanze invece di accorciarsi si stanno cristallizzando, musulmani nella parte ovest, cattolici nella parte opposta, la zona industriale, appena più ricca e urbanisticamente più vicina al nostro gusto occidentale.
Poi a Novi Travnik, una cittadina a 150 km da Sarajevo, nata per ospitare gli operai di una fabbrica di ferro che ai tempi di Tito dava occupazione a centinaia di persone oggi nullafacenti. Spiega don Stipo che disoccupazione e droga sono i problemi principali della città e di tutta la Bosnia. A cena si discute del progetto, dei risultati: cerchiamo conferme. Domandiamo di poter incontrare le famiglie. Con un certo disagio osserviamo le donne che ci hanno preparato la cena starsene in silenzio in una stanza vicina pronte a servirci alla fine di ogni portata: “hanno già cenato – ci viene detto – (ma quando? siamo lì da almeno due ore…) e comunque si usa così quando ci sono ospiti”.
Il mattino dopo a Rostovo, un paese sulle montagne, a 1.200 metri, dove vive don Branko, responsabile della piccola comunità di cattolici (40 famiglie contro le 400 che ci vivevano prima della guerra), che si occupa di acquistare le greggi e di verificare che entro 5 anni le famiglie restituiscano lo stesso numero di capi di bestiame ad altre famiglie che ne facciano richiesta. Una forma di microcredito agricolo che si concretizza sotto i nostri occhi. Visitiamo due famiglie e veniamo accolti come se ci conoscessero da sempre. Ci raccontano di orsi e lupi che si mangiano le pecore e di musulmani che invadono i loro pascoli. Contrasti – dicono – che fanno parte del quotidiano e che negli anni della guerra sono stati l’occasione di scatenamento della rabbia contro i propri vicini di casa.
Hanno ricevuto le pecore tre anni fa e hanno già restituito gli agnelli ad un’altra famiglia. Beviamo caffè turco, birra e anche un goccio di rakjia. Le persone sembrano vivere dignitosamente ma la divisione geografica tra famiglie cattoliche e musulmane è marcata; la convivenza pacifica lontana. Un centinaio di bambini della comunità islamica frequenta la scuola musulmana regolarmente, mentre i bambini cattolici sono solo quattro (di cui due disabili): per loro non c’è scuola. I musulmani possono permettersi di pagare un pastore per le loro greggi e dispongono di un mezzo per il lavoro nei campi; non così i cattolici. Ma non impedisce a don Branko di chiederci di aiutare, con i denari della Caritas, una famiglia di musulmani che lo scorso inverno ha subito la perdita di molte pecore. “Era quello che speravamo”, ha detto Tubino a don Branko.
A Sarajevo il Parlamento incendiato, la Biblioteca nazionale distrutta, la lapide a ricordo della strage del mercato scorrono sul vetro dell’auto come immagini di un film di Kusturica. A Spalato Arriviamo che è buio. Nove ore di traghetto e siamo ad Ancona, l’altro mondo.
(Emanuela Spada)