Mostra/2 – La metà del lavoro fuori del Ducale

Non si può proprio dire che Mario Margini, parlando a nome del sindaco, abbia colto nel segno quando lo scorso 13 Aprile, nel corso della presentazione della mostra “Tempo Moderno”, parlando a nome del Sindaco di Genova ha detto che le opere esposte rappresentano il lavoro al di fuori di ogni ideologia.


La mostra propone infatti il modo con cui il lavoro è stato ”guardato, rappresentato, interpretato dalle diverse forme dell’arte”. Ma per guardare, rappresentare, interpretare bisogna ben avere una idea dell’oggetto di cui ci si occupa, una tesi, una ipotesi da verificare, senza contare che molto spesso – e nella esposizione ve ne sono moltissimi esempi – l’immagine del lavoro e dei lavoratori è stata strettamente funzionale ad una ben definita visione del mondo da trasmettere o da imporre.
Il valore della mostra, voluta nell’ambito delle celebrazioni per i cento anni della CGIL, sta proprio nell’offrire una occasione di incontro con questi sguardi e con queste intenzioni, e nella implicita sollecitazione ad interrogarsi sulla possibilità / impossibilità di rispecchiarsi nelle condizioni, nelle identità, nelle visioni del mondo espresse dalle tele, dalle fotografie, dai film che la mostra propone.
Per una donna, come sempre, la cosa è più complicata. Non perché manchino immagini di donne, ma perché il lavoro che viene rappresentato è solo il lavoro produttivo, il lavoro che produce beni materiali.
Manca invece totalmente il lavoro riproduttivo, il lavoro che si occupa delle persone, che pure è stato attraversato da incredibili tempeste sociali e tecnologiche.
Non c’è l’insegnamento, trasformato e sconvolto da internet, non c’è la medicina con i suoi straordinari progressi.
Le case compaiono solo come luoghi che ospitano il lavoro (produttivo) a domicilio, ma non come luoghi del lavoro casalingo, anch’esso investito nell’ultimo secolo da una evoluzione tecnologica di non poco momento: mi vengono in mente le cucine di due film, separati da diversi decenni, quella di “Mon Oncle” (Jacques Tati, 1958) popolata dai primi robot domestici degli anni sessanta, e quelle di “Kitchen Stories” (Bent Hamer, 2003), dove una ditta produttrice di cucine sguinzaglia in giro per la Norvegia silenziosi misuratori di tempi e metodi per realizzare una progettazione dell’arredo fondata su uno scientifico taylorismo domestico.
Non ci sono nella mostra immagini di collaboratrici domestiche, baby sitter, assistenti di anziani, manca cioè totalmente la rappresentazione di un momento di passaggio importante e assolutamente “moderno”: la parziale delega del lavoro casalingo gratuito a figure professionali retribuite.
Si tratta della assenza di tutta una parte del lavoro umano. Da questa invisibilità che continua a ripetersi non si sa come uscire. Ci vorrebbero, di nuovo, luoghi in cui parlarne.
Ma oltre a questa occasione di pensiero, che a me è venuta dalla percezione di una assenza, la mostra ne offre innumerevoli altre. E, così come è capitato a me, ogni visitatore, utilizzando i suoi nessi culturali e di esperienza, si farà il suo percorso.
Ma al sindacato può bastare che molti, o anche moltissimi, lavoratori e sindacalisti percorrano individualmente questi sentieri solitari?
(Paola Pierantoni)