Categoria: Arianna Musso

  • OLI 381 – TURCHIA – Occupygezi

    C’è un filo rosso che collega tutti i movimenti che si nominano Occupy, c’è un sentimento di disagio nei confronti di un potere, sia pur democraticamente eletto, che non rispetta tutti i suoi cittadini. Esiste una dittatura della maggioranza che non è equiparabile a una democrazia.
    In Turchia, così come in tanti altri paesi occidentali, in piazza sono scese tutte quelle persone che non sono in sintonia con la maggioranza democraticamente eletta: ci sono laici, anarchici, comunisti, religiosi che la pensano in maniera diversa, femministe, donne che magari femministe non si sentono ma non vogliono neanche essere il focolare della casa, architetti, storici, intellettuali, omosessuali, kemalisti e ambientalisti. Ognuno è in piazza per un motivo diverso ma tutti si sono ritrovati travolti dalla violenza della polizia di stato che ha già fatto i suoi morti.
    Questa rivolta ha in comune molto col G8 genovese, dove una massa festante di persone, di molte idee diverse ma alternative rispetto al potere, sono state oggetto di una brutale aggressione da parte della polizia italiana.
    Il fattore religioso in Turchia è un ulteriore elemento di complessità che non deve però offuscare un’analisi più articolata, così come è riduttivo parlare della rivolta turca solo come un problema di verde cittadino: il parco Gezi è un luogo simbolo per i lavoratori turchi, è il luogo dove si fanno le manifestazioni e dove si festeggia il primo maggio, come per noi è piazza San Giovanni a Roma.
    I turchi non sono arabi. La figura religiosa più autorevole della storia religiosa turca è Rumi, un poeta e maestro sufi. Dopo la rivoluzione kemalista la religione è stata relegata ad una sfera personale: non si poteva indossare nessun elemento di identificazione religiosa nei luoghi pubblici e nessuno poteva obbligare un altro/a ad indossarli, così come era vietata l’educazione religiosa nelle scuole. Le donne hanno avuto diritto di voto nel 1926, venti anni prima che in Italia.
    L’AKP, il partito di Erdogan, è un partito islamico considerato moderato in occidente che, oltre a cambiare lentamente ma inesorabilmente il volto culturale ed economico della Turchia, ne ha cambiato anche il paesaggio dando il via a grandi opere su cui aleggia l’ombra della corruzione e del clientelismo.

    (Arianna Musso – Foto Paola Pierantoni)
  • OLI 380: TEATROGIORNALE – La colazione di Gaia


    Dal secoloxix: Non vedenti all’attacco: impossibile attraversare

    Gaia esce di casa, deve andare a comprare il latte. E’ mattina presto, nonostante sia l’ultimo giorno di maggio fa ancora fresco. 
    – Che fame!
    Pensa: comprare il latte, tornare a casa (e meno male che ha l’ascensore), fare colazione, finire di vestirsi, prendere l’autobus e andare al lavoro.
    L’ascensore è importante, da sua madre non c’è. Senza ascensore probabilmente avrebbe fatto colazione fuori: cappuccino e focaccia. Forse non è una cattiva idea. Cambio di programma: comprare il latte, attraversare la strada, comprare la focaccia, ri-attraversare la strada, prendere l’ascensore, colazione.
    Bello! Molto meglio che fare colazione al bar, a casa può farsi il cappuccino come piace a lei, tanto latte e tanta schiuma, e poi vestirsi per bene, lavarsi i denti, tanto c’è l’ascensore. Potrebbe anche inaugurare il tavolino sul terrazzo, anche se fa freschetto. Aggiudicato: oggi è la prima giornata di primavera e si può fare colazione sul terrazzo. Che al trentuno di maggio è tutto da ridere, ma per quest’anno è così, la primavera latita.
    Gaia entra nella latteria, la signora Franca la saluta senza guardarla, sta mettendo le tazzine in lavastoviglie. Gaia prende il latte dal mobile-frigo e dà due euro alla signora Franca.
    – Giusto?
    – Tutto apposto. Buona giornata.
    Gaia esce dalla latteria, la signora Franca si avvicina al mobile frigo e controlla che l’anta sia stata chiusa per bene.
    Gaia sorride al sole che le illumina il viso.
    – Guarda un po’ te che bella giornata.
    Pochi passi e arriva all’attraversamento pedonale, pochi metri la dividono dalla sua focaccia calda, ne sente già l’odore. La signora del terzo piano la saluta, è una vedova, poveretta.
     -Venga che è verde, va a comprarsi la focaccia? Una buongustaia lei. Anche a mio marito piaceva, solo che lui non ci beveva il caffè dietro, no, solo bianchetti, tanti bianchetti che poi li è andati a bere con gli angeli. Che era buono il mio Michele, sa.
    Gaia ascolta la signora del terzo piano, la saluta ed entra in panetteria:
    – Tre euro di focaccia, grazie. Morbida e non dal bordo.
    Se ne terrà un poco per stasera. Esce dal panificio con i suoi due sacchetti, ritorna all’attraversamento pedonale.
    – Sarà verde? – Si chiede, non sente alcun rumore. Nessuno che passa, cosa strana vista l’ora, nessun rumore di motore. Se ci fosse il semaforo rosso li dovrebbe sentire, quei motori puzzolenti e rumorosi, invece niente. Meglio aspettare, qualcuno dovrà pur arrivare.
    Gaia sente la vibrazione del suo orologio da polso, si sta facendo tardi, ha fame, deve ancora finirsi di lavare, fare colazione. Niente. Possibile che non passi nessuno alle otto meno un quarto di un venerdì mattina?
    Silenzio. Gaia perde la pazienza e scende dal marciapiede decisa ad attraversare. Si ferma, e se fosse rosso? Risale sul marciapiede. Si guarda attorno, non sente nessuno. I sacchetti le pesano sulle dita, il sole si deve essere nascosto dietro qualche nube.
     – Sarà verde?
    Gaia prova a dirlo ad alta voce, così, sbadatamente, magari qualcuno che lei non ha visto la sente. Nessuna risposta. Gaia percorre lentamente il marciapiede dall’attraversamento pedonale fino a dove iniziano a parcheggiarsi le macchine, e poi fino a sinistra, dove il marciapiede finisce. Nessuno. Non vede nessuno. Non sente nessuno. Ritorna sui suoi passi. Dove c’è il semaforo. Resta in ascolto.
    Nulla. Il semaforo sarà verde? Gaia guarda l’orologio, l’orologio risponde che sono le otto.
    Le otto? Inizia ad essere in ritardo, non riuscirà a farsi il caffè con la schiuma che le piace tanto, giusto un bicchiere di latte freddo, con una bella striscia di focaccia, questo si. Per vestirsi e lavarsi ci mette almeno una mezz’oretta, poi deve scendere e prendere l’autobus e arrivare il ufficio, per le nove al massimo deve timbrare. Possibile che non passi nessuno? Il semaforo sarà verde?
    La città sembra deserta, un leggero venticello inizia a batterle sulla gola. Forse sarebbe meglio tornare indietro, al panificio, e chiedere aiuto. Che vergogna.
    D’altra parte se non ci vede, se è un’ipovedente, una cieca insomma, che cosa ci può fare?
    Magari non andarsene tutta sola in giro, per cosa poi, per tre euro di focaccia?
    Si. Che problema c’è, per tre euro di focaccia, per la mia colazione prima di una giornata in ufficio.
    Il dialogo dentro di lei si fa serrato. Sa di aver ragione, sa che è un suo diritto poter andare a comprarsi tre euro di focaccia se ne ha voglia, sa che non è colpa sua ma della mancanza del segnalatore acustico, ma tant’è si sente sempre in difetto. E poi dov’è il panificio? Dovrebbe averlo dietro ma non c’è.
    Gaia si gira, porta le mani in avanti e le appoggia su un muro, un muro liscio. Gaia tiene i sacchetti del latte e della focaccia con la mano destra e percorre tutto il muro facendo scivolare la mano sinistra sul palazzo, alla ricerca della porta del panificio. Dopo qualche metro il palazzo finisce, Gaia cambia mano ai sacchetti e ripercorre tutta la facciata del palazzo, questa volta striscia la mano destra.
    Cammina, cammina, il suo orologio da polso vibra le otto e un quarto. Il sole si deve essere nascosto per bene perché inizia ad avere freddo. Torna indietro. Non solo il panificio è scomparso, ma sembra non essere mai esistito. Non c’è nessuno, nessun rumore di macchine, persone, neanche quei maledetti cani. Solo il suono del vento tra i platani.
    Gaia si ferma, decisa ad attraversare la strada. Almeno dall’altra parte c’è casa. Deve attraversare la strada, arrivare dall’altra parte, dal suo ascensore, dalla sua casa. Salire su, posare i sacchetti, finire di vestirsi, scendere, prendere l’autobus, andare al lavoro. Il semaforo sarà verde?
    Gaia spera di sì, lo spera con tutte le sue forze. Non lo può sapere, in realtà non sa neanche più se è sulle strisce pedonali. Può solo alzare la testa e lentamente scendere il gradino del marciapiede. Avanzare, guadare quel fiume d’aria che la separa dalla sua tranquillità. Il mondo è una serie di angoli, di rette, di semirette che si intersecano con dei solidi, Gaia li attraversa, da sola, e non ha paura.
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 379 : PAROLE DEGLI OCCHI – Liberi cittadini della Maddalena

    (Foto di Arianna Musso)

    Venerdì 24 maggio nel tardo pomeriggio è iniziato il primo torneo di pallavolo, il Maddavolley, in piazza della Cernaia. Il torneo si concluderà il 15 giugno in concomitanza della fiera della Maddalena. L’evento è organizzato dai “Liberi cittadini della Maddalena” che da due anni propongono iniziative per valorizzare e abitare questa parte del centro storico.

  • OLI 379: TEATROGIORNALE – Accerchiamento

    Da repubblica.it: Disoccupazione giovanile, Mario Draghi: “Minaccia per la stabilità sociale”

    Autobus numero 20, città di Genova, 24 maggio 2013, ore 13.30.
    Due signori coi baffi, la camicia e il cappello. Corpulenti e non più giovanissimi sono seduti in fondo, sopra la ruota di sinistra guardando il guidatore. Uno dei due signori si protegge col palmo della mano destra il braccio mentre una borsa lo aggredisce. Si gira verso l’altro signore, si riconoscono e si sorridono.
    A -Classe 36
    B -Classe 41
    A -Un ragazzo!
    B -Ma mio fratello è del 36. Io sono il più giovane.
    L’autobus si ferma, dei ragazzi entrano ridendo: ridono perché c’è puzza di pollo, ridono perché c’è caldo mentre stamattina c’era freddo, ridono perché non riescono a timbrare il biglietto.
    A -Siamo accerchiati
    B- Aumentano sempre di più
    A- Se dovessero uscire tutti assieme, se dovessero organizzarsi e andare tutti per strada, in una stessa piazza, ci annienterebbero.
    B – Per fortuna che non si riproducono.
    A- Crede? A me sembra che si stiano riproducendo, vedo carrozzine ovunque, donne con la pancia che pretendono il mio posto sull’autobus.
    B -E che poi non c’è lavoro e quindi vanno a rubare
    A-O a drogarsi.
    B -E gli aperitivi? Se vede queste ragazzi, bevono e mangiano schifezze.
    A-E poi si vanno a drogare.
    B-Tra un po’ non si potrà più girare per la strada. 
    A-Certo, vorranno le nostre pensioni, le nostre case.
    B-Io ho sempre lavorato, mentre questi non lavorano e vorranno anche una pensione?
    A-O una casa?
    B-Come possono fare figli senza una casa?
    A- Senza un lavoro?
    B- Infatti secondo me, ché ché ne dica lei, non si riproducono… poi muoiono per le droghe, gli incidenti stradali e queste nuove malattie. Moriranno prima di noi.
    Due ragazzine poco più che tredicenni salgono sull’autobus. Una ha la pelle olivastra e parla velocemente, è un po’ gonfia come succede a molte neo adolescenti, ha i capelli neri e spessi tirati in una coda, una gonna jeans grossa e lunga fino a sotto il ginocchio, ha una giacca chiara di maglina e sotto una maglietta viola. La compagna è magra e vestita di chiaro, il suo inizio di adolescenza è accompagnato da una leggera peluria sopra il labbro. Parlano fitte fitte di qualche professore che si è arrabbiato per via di un’uscita al bagno. Non sono belle, sono in quell’età di mezzo in cui sono brutte sia come bambine sia come ragazze. E forse per questo ambigue. I due vecchi le guardano, intravedono quei seni acerbi, quei gesti a volte disordinati altre civettuoli.
    B- A dire la verità lo spero.
    A- Cosa?
    B- Che muoiano.
    Una delle due ragazze ridendo cade pesantemente addosso al vecchio più vicino. Subito si rialza preoccupata.
    B – Ma no, la prego, si sieda signorina, io tanto scendo tra due fermate.
    Le adolescenti rifiutano una volta, alla seconda prendono il posto del vecchio, una seduta sull’altra. Il vecchio sorridendo le guarda, gli occhi appesi a quelle scollature da educande. Le ragazze continuano a ridere di non si capisce bene di cosa, forse di niente, forse del volto del vecchio in piedi che ha distolto l’attenzione dalle loro magliette per guardare il soffitto dell’autobus, la bocca stravolta e un braccio sul cuore.
    Il vecchio è rigido e alla prima curva cade sbattendo la testa.
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 378: TEATROGIORNALE – L’assassino del piccone

    repubblica.it: longo(pdl) l’assassino col piccone gli avrei sparato con la mia pistola

    Il processo deve ancora iniziare e gli ultimi spettatori entrano in aula con grossi barattoli di pop corn, facendo alzare le persone già sedute, rovesciando le bibite gasate.
    -Scusi, un attimo, Maria come stai? E signora, che vuole, devo passare. Non vede che la mia amica mi aspetta! Mi hai tenuto il posto? No? Mi pareva! E adesso?
    Nella sala, un anfiteatro moderno con le tribune a gradoni e le luci al neon, suona una sirena, entrano quattro poliziotti, tre avvocati e l’accusato. Il pubblico si agita, una donna grida, qualcuno fischia. Un neon sopra i palchi lampeggia: SILENZIO.
    Al suono di un gong il primo avvocato sale sul palco, guarda il pubblico, sorride leggermente.
    – Io ho una pistola, una Ruger Lcr fabbricata in America.
    Pausa, lentamente estrae una pistola e la mostra al pubblico.
    – Perché ho una pistola? Con chi credete di parlare? Se io mi fossi trovato quella mattina, in quella strada, io non mi sarei fatto uccidere, io non mi sarei andato a nascondere da qualche parte. Io avrei preso la mira.
    L’avvocato punta la pistola sull’accusato.
    – Bastava sparare alle gambe per farlo smettere. Scende giù dal palco e gli si avvicina.
    – Se non si fosse fermato, avrei sparato di nuovo alle gambe e poi
    Ora l’avvocato è vicinissimo all’accusato, la canna della pistola gli sfiora le labbra.
    – Gli avrei sparato addosso.
    Con una mossa repentina l’avvocato prende l’uomo per i capelli, lo caccia a terra e gli infila la pistola in bocca.
    – Dente per dente, occhio per occhio. Tu hai ammazzato tre dei nostri e noi oggi ammazziamo te.
    Il pubblico esplode, c’è chi vuole che l’esecuzione si compia lì, davanti a loro e per mano dell’avvocato, c’è chi urla vergogna e incita i poliziotti a intervenire per fermarlo.
    La luce al neon sopra i palchi lampeggia: SILENZIO.
    L’avvocato lascia la testa dell’accusato, sfila la pistola lucida e riprende.
    – Noi, che non siamo vittime, ci armeremo e vi verremo a stanare nelle vostre tane per bonificare le nostre terre. Ma chi proteggerà le nostre madri, le nostre figlie, le nostre mogli? Dobbiamo chiedere giustizia dopo aver pianto sui loro cadaveri? Io dico di no. Io dico che dobbiamo dare una punizione esemplare, un avvertimento che valga per tutti loro.
     Una parte del pubblico si alza in piedi e applaude. Il secondo avvocato sale sul palco, è un uomo pelato, con una bocca troppo grande e balbetta un po’.
    – Ma di cosa stiamo parlando? Certo che fa paura l’idea che uno cammina per la strada così e poi zac! ma anche andare in giro armati è pericoloso, che poi ci si spara a un piede. Io dico, lasciamo perdere, mettiamo questo qui in prigione che poi non è mai bello finirci, e speriamo che non succeda più. Ho finito.
    L’avvocato come si è alzato torna a sedersi. Nessuno applaude, qualcuno dice qualcosa ma non si capisce.
    Il terzo avvocato va verso l’accusato e l’aiuta ad alzarsi.
    – Questo è un uomo. E quest’uomo è colpevole di omicidio. Una società sana deve pensare a tutti i suoi figli, anche a quelli malati, anche a quelli violenti e permettergli di vivere senza nuocere agli altri. E la nostra società ha sottovalutato dei segnali che potevano aiutare quest’uomo a non macchiarsi di questo crimine? O prevenire in qualche modo l’evento così da non dovere piangere le sue vittime? Quest’uomo è colpevole ma io vi chiedo: in che tipo di società vogliamo vivere? In una società basata sulla vendetta oppure crediamo nel valore della vita umana, crediamo in quella forza che ha l’essere umano di modificare se stesso e di riabilitarsi? Crediamo nella Dichiarazione universale dei diritti umani, non perché, per caso, siamo in Europa ma perché crediamo nei valori di tolleranza e di uguaglianza che sono alla base della nostra cultura e della nostra società?
    L’avvocato rimane fermo davanti al pubblico. Qualcuno dagli spalti più alti inizia ad applaudire. Sirena di chiusura, tutti escono in fila.
    Musica. Entrano le ballerine in tanga e piume: pop corn e cannucce volano giù dalle gradinate.
    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 377: TEATROGIORNALE – Femminizcidio, femminezidio, femminesidio?


    Da Repubblica.it: “La sfida di Josefa”

    -Apri le braccia. Il sorriso meno tirato. Chi è che ha fatto i capelli a Jos? Più indietro queste spalle.
    Il direttore della trasmissione passa tra le ragazze già posizionate per il balletto di apertura. Mancano pochi minuti, giusto un giro per sistemare qualche paillettes sul corpetto e, distrattamente, godere di quel morbido rigonfiamento. Un pantaloncino mal messo può rovinare la trasmissione e per questo il direttore deve alzare tutte le gonnelline.
    -Maria, Maria, meno male che il Papi controlla, altrimenti sai quante visualizzazioni su youtube?
    E così dicendo il direttore fa passare il dito dentro gli shorts della ragazza mora in terza fila, la stoffa si srotola aprendosi mentre il suo vecchio indice indugia nell’insenatura della giovane che resta immobile. Lui si alza e batte le mani, una stagista gli corre incontro e lui le indica Maria; la stagista prende nota sorridendo.
    Il fondale azzurro vira sul rosso e poi sul rosa: i tecnici luci stanno provando le sequenze della serata. Un grande cerchio compare sugli screen luminosi che costituiscono la scenografia, dal soffitto una dozzina di bracciali formato hula hoop ondeggiano.
    – Cosa sono quelli? Danilo, cosa sono quelli?
    Urla il direttore dalla terza quinta. Un ragazzo alto, magro, in pantaloni e camicia bianchi e quindi cangianti in base al colore delle luci, dal proscenio scivola indietro verso il direttore. Ariel in uno studio televisivo che vola dal suo Prospero.
    – I braccialetti, caro. I braccialetti della Cancellieri. Ho ideato una coreografia stupenda, le ragazze vengono benedette da queste aureole che scendono su loro. Loro alzano le braccia e accolgono la grazia. Debby da brava, fai vedere al Papi, anche così senza braccialetto.
    Una ragazza alta, castana, alza le braccia al soffitto e accenna a qualche passo di danza. A un cenno di Danilo la ragazza si ferma e rimane immobile per qualche secondo. Solo quando sarà sicura che il coreografo e il direttore non avranno più bisogno di lei, si rimetterà in posizione per il balletto di apertura.
    – Quindi sono le ragazze che ballano con i braccialetti? Ma che ho fatto io per aver un cretino del genere?
    Sbotta il direttore, urla così forte che i macchinisti si fermano per un istante.
    – Non sono le donne che mettono il braccialetto ma gli uomini, gli stalker! Ma che avevi capito? Non è che una viene violentata e poi le fanno mettere il braccialetto.
    Danilo diviene rosso, dalla testa ai piedi, poi blu. Le luci sui fondali continuano a cambiare mentre lui tenta di giustificarsi.
    – La scaletta, presto. Conclude il direttore, la stagista si avvicina. – Via questo balletto dei braccialetti. Sostituitelo con una panoramica sul pubblico, poi musica e arriva la mamma del ragazzo accusato di stupro di gruppo a quindici anni. Poi ci trasferiamo sulla telecamera due per lo spot della Telecom.
     Entra correndo una seconda stagista.
    -Direttore! La ragazza violentata dal fidanzato non vuole più comparire in trasmissione.
    -Le dica che ormai ha firmato e che ho delle foto fatte dal medico legale e se non segue il copione le pubblico su Facebook.
    – Ma direttore è illegale.
    – E tu vedi di non farti registrare. Che poi quelle foto neanche esistono ma lei non può saperlo è ancora in stato di shock.
    Le luci si abbassano e si alzano, una bella donna in abito rosso entra in scena. Ripete a se stessa:
    – Femminizidio.
    Il direttore le si avvicina.
    -Femminicidio, mia cara. Senza z.
    – Femminizcidio.  Femminezidio. Femminesidio.
    Le luci si accendono, il pubblico in sala è seduto e sorride, il direttore è scomparso nella terza quinta come la presentatrice.
    – Sigla
    Mormora il direttore al microfono. La bella donna in abito rosso entra, il pubblico applaude.
    Le ballerine iniziano a danzare. Maria cerca di non guardare la terza quinta.
    – Buonasera. Oggi siamo qui per dire basta al femminisidio!
    Applausi.
    – Vogliamo una task force contro il femminezidio!
    Maria alza gli occhi verso la terza quinta e sorride al direttore.

    The show must go on

    (Arianna Musso – Foto da internet)

  • OLI 376: TEATROGIORNALE – Un postino sull’orlo di una crisi di nervi

    X IL POSTINO:
    NON CIO UN EURO
    RIPRENDILA, SE TI CHIEDONO
    QUALCOSA, NON MI HAI VISTO!

    Da blizquotidiano.it: Caro bollette: i prelievi “parafiscali” valgono tre Imu

    Giovedì mattina, Via San Luca, Genova. Arrivo con il mio motorino bianco, la mia giacca gialla, il mio casco, la mia borsa. Sento il peso degli sguardi oltre le vetrine, le preghiere che mormorano a labbra strette. Sento il silenzio che si crea quando mi fermo. Le occhiate furtive dietro il bancone o un paio d’occhi persi nel vuoto. Quando ero al liceo anch’io facevo così durante le interrogazioni: per paura di sentire il mio nome facevo finta di non esistere, smettevo di respirare.
    Cosa sono diventato? Un avvoltoio, no, io non mi cibo dei cadaveri. Alcuni non lo sanno cosa vuol dire il mio arrivo, credono che io sia il piccione viaggiatore e mi accolgono sorridendo:
    – Ehi Gianni, come va oggi? Tutto bene?
    E io non voglio deluderli e quindi sorrido e con non-chalance gli porgo la raccomandata da firmare. E’ la prima, poi ci sarà una seconda, una terza, infine arriverò con mazzette da cinque, sette raccomandate per volta. E smetteranno di sorridermi e io entrerò scusandomi perché ormai mi avranno riconosciuto per quello che realmente sono: un messaggero di sventura.
    Dovrei arrivare su una Harley nera, coi teschi sul giubbino, dovrei avere una falce disegnata sull’elmo, non una PT.
    – Ancora qui?
    Mi chiede sarcastica una ragazza bionda, sarà lei la prossima a tirare giù la saracinesca.
    Quando saranno abbassate tutte le serrande da chi andrò?
    Voglio tornare ad essere una colomba: voglio portare lettere profumate, auguri in carte decorate.
    Le donne sono sempre le più toste, fino all’ultimo cercano una soluzione:
    – Se rateizzo la bolletta del gas magari ce la faccio, se licenzio tutti i miei collaboratori magari ce la faccio, se Equitalia non si fa sentire il prossimo mese magari ce la faccio, se mi pagano i crediti due o tre clienti magari ce la faccio, se tolgono l’IMU magari ce la faccio…
    Come se l’Imu fosse il problema, come se la rateizzazione fosse la soluzione e come se Equitalia potesse sparire chiudendo gli occhi.
    Le donne stringono i denti credendo di poter affrontare quel mostro senza nome che le porta via tutto, gli uomini si rassegnano prima e vanno al bar a giocare alle macchinette.
    Io vi ho visto nascere, crescere e morire. Conosco tutto di voi, chi siete, chi amate, i vostri bambini, i vostri peccati ma una volta chiusi non vi potrò più ritrovare. Molti stanno partendo, ritornano in Senegal, Brasile, Marocco, Egitto. Dove andrete non ci sarà più il Gianni, con la sua motoretta bianca, il suo casco, la giacchetta e ne sarete felici. Un incubo lui nonostante.
    Forse non dovrei fermarmi, forse dovrei andare avanti. Forse non dovrei rendermi complice anch’io di questo suicidio di stato. Scusate, l’angelo della morte dà le dimissioni, trovatevi un altro gufo.
    Il postino Gianni non si fermò davanti alla libreria, non si fermò davanti al rivenditore di sigarette elettroniche, non si fermò davanti al rivenditore di caffè di via del Campo, andò dritto fino a porta dei Vacca e lì non vide il semaforo rosso.
    (Arianna Musso – foto da internet)

  • OLI 375: TEATROGIORNALE – L’ispettore Derrick

    Da repubblica.it: Segreto dell’ispettore Derrick.”Da ragazzo soldato delle SS” San Teodoro, Sardegna. Ristorante Esagono.
    La zuppa alla “Mario” era sparita dai piatti assieme alla prima bottiglia di Vermentino.
    Una signora bionda sorrideva, il braccio destro era appoggiato alla sedia accanto alla sua. Teneva tra le dita un tovagliolo bianco. Di fronte a lei una coppia di settantenni corpulenti in camicia floreale, lei in camicia verde, lui rosa. Dopo due o tre sorrisi la signora bionda si alzò, un cameriere l’aiutò a spostare la sedia. In inglese disse qualcosa circa la toilette e, portandosi via il tovagliolo bianco, si diresse verso una porta nascosta da un separé.
    Entrò nel bagno degli uomini e si mise a bussare alla porta del gabinetto.
    -Host apri.
    Nessun rumore, la donna bionda si attaccò alla maniglia e la abbassò diverse volte.
    -Host, non abbiamo tutta la sera, apri. Pensa se entrasse qualcuno.
    Horst Tappert, per il mondo l’ispettore Derrick, era chiuso in bagno da una ventina di minuti. Continuava a sudare e aveva la gola secca. Fece girare la chiave. La moglie lo tirò fuori dal gabinetto e, sempre nascosta dal separé, lo tamponò di acqua di colonia.
    – Host smettila, sono italiani, cosa vuoi che ne sappiano della Germania. Ha fatto una battuta, umorismo italico, sono governati da un signore che fa le corna nelle foto di stato. Quindi ora la smetti e torni di là con Brenda e Johnny, che sono americani, non fanno battute politicamente scorrette e non riusciranno mai a mangiare delle aragoste alla catalana senza il nostro aiuto.
    L’ispettore Derrick era affannato ma cercava di stare il più dritto possibile. Non era la prima volta che gli accadeva d’avere una crisi di panico. Negli anni ottanta accadeva spesso, oggi era stata colpa del vino, della giornata al mare che gli aveva ustionato le dita dei piedi (la testa no, portava il cappello), di Brenda che non smetteva mai di parlare. E di quell’italiano, naturalmente, ma gli italiani sono così, sempre a scherzare, non bisogna prenderli sul serio. E’ dai tempi di Mussolini che gli italiani non bisogna prenderli sul serio.
    – Host, sei pronto? Possiamo tornare a tavola?
    L’ispettore Derrick fa segno di sì con la testa. In realtà continua a pensare alla faccia di quell’italiano: mi ha dato del nazista solo perché sono tedesco, non mi ha neanche riconosciuto, non sa che io sono l’Ispettore Derrick. L’ultima crisi di panico l’ho avuta un’anno fa, sono migliorato. Prima bastava un’allusione così, generica, al nazismo per farmi perdere il controllo, ora invece mi devono dare proprio del nazista per farmi andare in panico.
    Sono migliorato. La moglie lo porta per mano fino al tavolo, Brenda e Johnny avevano già attaccato le aragostine alla catalana facendone scempio e schizzando di sugo la tovaglia immacolata.
    -Host – disse la moglie in tedesco e stringendogli la mano – Sono sessant’anni che ti torturi, basta. Se non ti hanno scoperto fino ad ora…
    -Si, certo- Le sussurrò lui all’orecchio.
    Ormai aveva ripreso il controllo di sé, solo un leggero tremore alle mani denunziava il suo malessere appena passato. Con coltello e forchetta sezionò lentamente la sua prima aragostina, la ingioiellò di cipolla rossa e se la portò alla bocca su un piedistallo di pane carasau.
    -Italiani, non sapranno fare le guerre ma le aragoste le sanno cucinare.
    (Arianna Musso – foto da internet)

  • OLI 374: TEATROGIORNALE – Il presidente degli Stati Uniti


    Usa, lettera con sostanza velenosa recapitata a Obama

    [Il Teatrogiornale è un racconto di fantasia liberamente tratto dalle notizie dei giornali]

    Sono le sei e quindici, il Presidente degli Stati Uniti è già sveglio, sta facendo colazione: succo d’arancia, caffè, pane tostato con prosciutto. Sta leggendo sul suo Ipad la rassegna stampa che il suo staff ha già ridotto. Ridacchia. Fratelli Craxi: “Se papà capo dei ladri, Amato vice-ladrone”.
    -Italiani- pensa il Presidente e annusa la sua tazza di caffè, – se non esistessero bisognerebbe inventarli.-
    Nel suo staff c’è qualcuno che vuole distrarlo da: “No del Senato. Obama: giorno vergognoso”.
    Michelle è entrata in cucina, ha i bigodini in testa.
    Squilla il telefono. Il Presidente risponde. Posa la tazza. Guarda la moglie e dice:
    -Chiama le ragazze.
    Michelle rimane ferma a guardare suo marito. Poi si gira e corre su per le scale. Mentre sale chiama Carmela. C’è una valigia in ogni armadio, una piccola valigia grigia. La valigia per l’ora x. La Clinton le aveva detto di prepararla. Una valigia scaramantica da utilizzare in caso di attacco agli Stati Uniti D’America e di evacuazione della famiglia presidenziale in un luogo sicuro. Tutte le quarantaquattro mogli dei quarantaquattro presidenti degli Stati Uniti ne avevano una nell’armadio.
    Le ragazze sono vestite, l’elicottero militare è atterrato. Schermandosi con le braccia e protetti dagli uomini della scorta la famiglia presidenziale sale. Le ragazze vengono messe in fondo all’elicottero, il Presidente e la moglie nella parte anteriore. C’è un protocollo che tutti conoscono a memoria e che tutti eseguono meccanicamente. Michelle guarda suo marito e aspetta. Devono attendere qualche minuto. Tutti i cellulari e i computer non sono più considerati affidabili. Tra qualche istante verrà stabilita la linea rossa.
    -Un bicchiere d’acqua, per cortesia.
    Chiede il Presidente a un soldato che gli sta vicino. Questo rimane immobile. Forse non ha sentito. Il rumore dei motori è forte. Il Presidente si gira verso un’altro soldato che sta in piedi vicino alla moglie.
    -Soldato, è possibile avere un bicchiere d’acqua?- dice il presidente alzando la voce.
    I soldati non fanno segno di aver sentito e rimangono immobili a guardare dritto davanti a loro.
    Il Presidente si guarda attorno, in cinque anni non gli era mai capitato che qualcuno non eseguisse i suoi ordini. Persino da Senatore c’era sempre qualcuno pronto a dargli il suo bicchiere d’acqua. Lui beve tanto, bisogna bere tanto.
    ‘E un momento tragico per il paese. Si alza, guarda i soldati.
    -Grazie a tutti voi per l’aiuto che date a me e a tutta la nazione.
    Nessuno lo guarda o fa segno di averlo sentito. Il presidente osserva le facce dei soldati. Ci sono solo soldati bianchi. Dritti nelle loro uniformi, armi alla mano. Nessuno lo guarda. Sono tutti bianchi.
    Il Presidente fa un passo avanti per uscire nel corridoio tra le poltrone.
    Un soldato gli sbarra la strada col mitra.
    Il Presidente guarda la moglie che lo guarda.
    L’elicottero si alza in volo.

    (Arianna Musso – foto da internet)

  • OLI 373: TEATROGIORNALE – Maschere in una città che muore

    Dal fattoquotidiano.it: Comuni in rosso, i cittadini di Alessandria a Montecitorio: “La città così muore”

     – Stiamo camminando tra le strade di una città che fu. La guida ha un ombrello alzato, dietro i croceristi camminano in fila per due, macchine fotografiche e adesivi SMC. A fianco le guardie giurate scortano il gruppo.

     – Questa città è pericolosa? Chiede una grassa cinese con i capelli biondi che escono da un cappello di paglia.

     – No signora, è che in questi paesi decaduti non si sa cosa può succedere. Gli abitanti sono perlopiù impauriti e rimangono chiusi nelle loro abitazioni, ma non bisogna abbassare la guardia. Un tempo questa città era ricca, è stata la prima città che ha venduto una strada, via Garibaldi, al governo Indiano aprendo così il “mercato delle città”. Finché era solo via Garibaldi gli abitanti potevano passare per altre strade o carrugi, come le chiamano qui le strade strette. In breve la situazione era diventata ingestibile: sembrava che tutto il modo volesse accaparrarsi un pezzo d’Italia.
    A furia di vendere strade, per ripianare i debiti del comune, le case private sono diventate delle prigioni, gli abitanti non potevano più uscirne, pena multe salatissime. La legge del 2015 ha dato la possibilità di passaggio sulle strade, non più pubbliche, solo indossando abiti tradizionali.

    Ecco, potete ammirare alla vostra sinistra una Colombina con un Pulcinella insieme a un piccolo putto alato.
    Sull’altro lato del marciapiede una famiglia in abiti sintetici e colorati sta litigando.

     – Osservate l’uso delle mani, gli Italiani hanno una gestualità esasperata, il teatro nel sangue. Se fate silenzio potete ascoltarne la lingua, un canto.

    Il Pulcinella alza il braccio destro e stringe le dita, rivolto verso la Colombina in lacrime:
     – Ma che cazzo vuoi?
     – Che bello, possiamo dare qualche spicciolo all’angioletto? – chi parla è una Turca dallo smalto verde con degli Swarovski.
     – Signora, aspetti che la guardia li chiami. La guardia fa segno al Pulcinella di avvicinarsi.
    Pulcinella smette di urlare e fa segno alla donna di andare dalla fila di turisti col bambino alato.

    La Colombina saluta e ringrazia aprendo il grembiule mentre il bambino passa tra le signore a raccogliere Yen, Lire Turche, Dollari e per gettarli tra le gonne della mamma.

    Il Pulcinella si toglie il cappello e declama:
     – Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita.
    I turisti applaudono, la guida fa segno alle guardie di allontanare la famiglia Pulcinella.

    Sono ancora in Via Balbi e devono arrivare a San Lorenzo prima di pranzo per la performance dell’orchestra del Carlo Felice, ormai ridotta a orchestra di strada.

    La moglie della guida è il primo violino, i turisti non devono finire tutti i soldi con i Pulcinella, gli Arlecchini e i Pantaloni improvvisati che incontrano.
    Suoneranno Vivaldi, la primavera. I brasiliani l’adorano. Genova, la sua città, una città che fu.

    E da qualche parte risuonano le parole del poeta: Genova palpitante. Mio cuore. Mio brillante.
     (Arianna Musso – foto da internet)