Categoria: Società

  • OLI 271: AMBIENTE – Diritti dell’uomo a dimensione balneare

    “Gli ombrelloni sulla spiaggia sono a disposizione gratuitamente”: della scelta del Comune di Raches sull’isola di Ikaria (Grecia) avevamo già parlato lo scorso anno (vedi Oli 235).
    Quest’anno l’ombrellone gratuito c’era ancora e torniamo a parlarne perché il fatto è stupefacente e commovente per noi visitatori italiani, abituati alle aree confinate delle nostre spiagge “libere”, alle controversie sulla definizione di battigia e sul diritto a metterci l’asciugamano o solo a passarci, alle vicende dei bagnanti che si fanno accompagnare dai carabinieri per accedere al mare, alla tassa di ingresso che ci tocca pagare per entrare in una spiaggia se non vogliamo innescare un conflitto coi gestori .

    Il cartello che accompagna l’avviso del comune ikariota recita: “Non è permessa a terzi alcuna iniziativa economica all’interno dei confini delle spiagge che devono essere interamente libere a disposizione di qualunque persona, che sia o meno nostro cittadino”, e preannuncia provvedimenti di esproprio per gli eventuali contravventori. Una specie di dichiarazione dei diritti dell’uomo a dimensione balneare.
    La cosa interessante è il cambiamento radicale che un provvedimento come questo determina nel paesaggio e nella qualità dello stare al mare: nessuna recinzione, l’arenile lasciato libero anziché essere colonizzato da file di sdraio ben stipate per il maggior guadagno, assenza di musiche ossessive, la spiaggia restituita alla sua identità: è quella spiaggia, su quel mare, con quel paesaggio che nessuna sovrastruttura ti impedisce di contemplare, con quei suoni che nessuna musica ti impedisce di sentire, per cui ti dici che valeva la pena fare tanti chilometri per andare proprio lì. Altrimenti …

    La decisione dell’ombrellone gratuito per l’amministrazione comunale di Raxes, comunque, è stata tutt’altro che pacifica ed è a rischio. Gli interessi premono. Le elezioni comunali sono alle porte e su questo ci sarà battaglia.
    Chissà come andrà a finire. Certo che un po’ servirebbe anche a noi, pur così lontani, che vincesse il partito della spiaggia libera e gratuita. Abbiamo fame di buoni esempi, anche a distanza. 
    (Paola Pierantoni)

  • OLI 270: SOCIETA’ – Velo integrale, il centro destra perde la bussola

    Dall’articolo de La Stampa del 15 luglio “E la battaglia contro il niqab parla l’arabo”, si evince che il centro destra (e lo stesso giornale), per sostenere la propria proposta di proibire il velo integrale in Italia, prende esempio dai paesi arabi, che hanno proibito il velo, licenziato le donne con il velo, non le fanno salire in taxi, entrare nei ristoranti, avvicinarsi alla spiaggia. Il centro destra non vive un momento particolarmente felice, ma non ci si aspettava che la confusione fosse a questi punti: da una parte sostiene che tutti i paesi del Medio Oriente sono governati da regimi non democratici, dall’altra ci invita a prenderli come punto di riferimento per le nostri leggi.
    Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente dell’Associazione Intellettuali Musulmani Italiani, afferma che: “con una legge contro il burqa si otterrebbe solo che le donne in questione, per fortuna molto poche in Italia, resterebbero segregate in casa. Piuttosto andrebbero varate norme che garantiscano l’assistenza sociale contro le discriminazioni ed i comportamenti forzati all’interno delle famiglie”.
    A parte intellettuali musulmani, sinistra italiana, francese ed araba, è stato lo stesso presidente Barak Obama, l’8 giugno 2009, nel suo famoso discorso del Cairo ad invitare i paesi occidentali a non ostacolare i musulmani nella pratica della loro religione, criticando quei paesi che dettano “gli abiti che una donna deve portare”. Coerentemente, alcuni giorni fa, il portavoce del Dipartimento di Stato USA, Philip Crowley, ha dichiarato l’opposizione di Washington al disegno di legge volto a proibire l’uso del velo integrale nei luoghi pubblici in Francia: “non crediamo sia opportuno legiferare su ciò che le persone hanno diritto o non hanno diritto di indossare in conformità con le loro credenze religiose”. Ed ha aggiunto che negli Stati Uniti adottiamo altre misure per raggiungere un equilibrio tra sicurezza da un lato e il rispetto della libertà religiosa e dei suoi simboli dall’altro.
    Il centro destra, portato alla confusione da atteggiamenti xenofobi e islamofobi di alcuni suoi personaggi, sembra aver completamente perso la bussola: ma siamo così convinti che in questioni di libertà e democrazia sia meglio seguire i regimi arabi piuttosto che gli Stati Uniti d’America?
    (Saleh Zaghloul)
  • OLI 269: SOCIETA’- Il Mago Egitto

    Meno male che il Mago Egitto c’è!

    Per fortuna possiamo saperlo tutti grazie alla sua capillare campagna informativa e promozionale con volantini distribuiti ovunque.
    Conoscitore della magia bianca, rossa e nera, ridona la persona amata in poco tempo.
    Non solo: in virtù dei suoi poteri riesce addirittura a trasmutare alchemicamente la toponomastica cittadina, di cui è con evidenza e veggenza un chiaro esperto.
    Non lo dice apertamente, ma ce lo fa capire con signorile understatement: la sua sede è a Pisa o dintorni; ma il lunedì riceve a Genova per appuntamento in Vico Tal dei Tali, vicino a P.zza Campetto (che finora era Campetto e basta, anche se molti già vi aggiungevan “piazza” commettendo un errore che d’ora in poi non sarà più tale grazie al Mago) e – salagadula magicabula bidibi bodibi bù – a P.zza Dei Ferraris (e qui il duca Raffaele De Ferrari sta di sicuro facendo piroette nel suo nobile avello).
    Un paio di domande, al Mago o a chicchessia:
    Fino a quando il sonno della ragione continuerà a generare mostri?
    Fino a quando saremo circondati da cialtroni, in ogni campo del vivere?
    (Ferdinando Bonora)
  • OLI 269: SOCIETA’ – I pizzini ai tempi di Skype

    Un trafiletto (*) sulle intercettazioni telefoniche tra Tizio, Caio e Sempronio descrive i trucchetti che i tre cercano di usare per parlare sicuri al cellulare. “Questo telefono non è controllato”, “Uso il cellulare di un collega”, queste sono le affermazioni che Tizio si lascia scappare parlando con Caio, per tranquillizzarlo. Peccato che il telefono controllato fosse proprio quello di Caio.
    Se stessimo parlando di tecnologie spaziali, l’ignoranza sarebbe scusata. Però, visto che si tratta di telefonia, non arrivare a capire che in una telefonata gli apparecchi intercettabili sono due, suona come una condanna alla stupidità. Ricorda, facendo un paragone su un omicidio, il killer assoldato per pochi euro che si è presentato dal suo mandante con i guanti, come richiesto esplicitamente per evitare di lasciare traccie: ma con i guanti da autista, senza le dita …
    Le nuove norme sulla intercettazione ambientale e telefonica fanno scalpore, da tutte le parti ci si scaglia contro una legge che viene definita come “ammazzaprocessi”, “ammazzaindagini”, “ammazzaqualcosa”. Appare anche in questo caso che ci si stia presentando nel posto dell’omicidio con i guanti senza dita e convocati col telefono “sicuro”, ma sarebbe meglio dire senza conoscere Skype.
    Il noto “programmino” per fare le telefonate via internet, ma anche a rete fissa e cellulari, non è affatto un giocattolo, ha uno schema di funzionamento che assomiglia di più ad un programma per scaricare film con il “peer to peer” (emule, per intendersi), più che ad una rete telefonica standard, quindi senza un server centrale o una vera centrale telefonica dove entrare con mandato del giudice. Questo, abbinato ad un “protocollo” criptato, ossia inintelleggibile senza i necessari ed introvabili strumenti tecnologici, lo rende una vera e propria cassaforte della privacy: nessuna polizia al mondo ha annunciato fino ad oggi di avere eseguito intercettazioni su questo veicolo telefonico, senza aver avuto accesso diretto al computer da controllare. Oggi molti cellulari sono dotati di Skype onboard, quindi di fatto non intercettabili, prima di tutto perché non passano dalle classiche centrali telefoniche (dove l’intercettazione, inutile a dirsi, è un gioco da bambini), secondo perché la chiave crittografica necessaria ad “aprire” la telefonata non è condivisa se non dai due soggetti della telefonata, e non è nota agli uffici di Skype. La società lituana si guarda bene dallo svelare i propri segreti industriali, che protegge con grande accuratezza: Skype funziona sempre e comunque, passa i firewall, funziona bene anche quando la velocità di internet è molto bassa, comunque protetti, insomma un “gran bel pezzo di software“ da girarsi mentre passa … e da uso per evitare le intercettazioni, legge o non legge ammazzaqualcosa, come fosse il nuovo “pizzino”.

     * Il Secolo XIX dell’8 luglio 2010 ed. La Spezia, pag. 38)

    (Stefano De Pietro)

  • Oli 268: SOCIETA’ – La miseria umana che deruba i morti

    Foto: Alisia Poggio

    Pochi giorni fa al cimitero di Staglieno ho visto una donna. Era al campo sedici. Quello dei bambini. Avvolgeva con un grande fiocco di raso rosa la lapide di una bambina. Il gesto era un abbraccio. Come una consuetudine. Era così singolare e improvvisa quella ventata d’amore per il mondo dei vivi che per un po’ non ho saputo esattamente dove collocarla. Continuando nella mia visita la voce di un’altra donna – tono schietto e affabile – mi ha attirata. Ho pensato che parlasse con un funzionario o un addetto del cimitero. Discorreva di cose sue – affatto personali – con una lapide. Congedatasi dal defunto, sulla strada per tornare alle cose della vita, mi ha guardata e, dopo un attimo di esitazione, mi ha detto con un largo, affrettato sorriso: “Devo tornare indietro per fargli ancora una saluto!”. Ha accarezzato a lungo la piccola lapide, mandandole baci, e più serena è andata via.

    Risulta, da recenti articoli di stampa locale e nazionale, che alcuni dipendenti del civico cimitero di Staglieno facessero mercimonio di quel che restava di corpi esumati, spolpandoli di quanto poteva ancora generare reddito: denti d’oro, protesi, anche monili lasciati dalle famiglie ad accompagnare il caro. Altri pare si facessero pagare per accelerare le pratiche di sepoltura. L’inchiesta è in corso.
    Le dichiarazioni dei politici assicurano che si tratta “di casi isolati”. Ma segue a ruota quella riguardante le mense – le mense delle scuole genovesi stanno facendo storia in procura – nelle quali sono sotto inchiesta persone che sottraevano vivande.
    Si tratti di cibo o di defunti, visti da un certa distanza, gli autori di questi gesti segnalano una miseria umana prima che concreta, rispetto alla quale oggi è assolutamente necessario porsi domande.
    Si tratta davvero di casi isolati? E’ la prima domanda che chi ha incarichi in un’amministrazione dovrebbe porsi, alla quale non si deve dare una risposta affrettata
    Cosa sta accadendo in questa città? E’ la seconda.
    Posso porvi rimedio? E’ la terza.
    Staglieno e quanto è accaduto cosa segnala? Si vuole o non si vuole considerare quello che avvenuto come un confine oltre il quale non ci si può permettere di andare? Se viene a mancare il rispetto per quelle due donne e per tutti coloro che nel culto dei morti ancora vivono poca o tanta parte della propria esistenza, cosa ne è del mandato con il quale il cittadino elegge il proprio rappresentante? Fino a che punto – parafrasando Moretti e il suo Caimano – dovremo raschiare il barile?
    (Giovanna Profumo)

  • OLI 267: SOCIETA’ – Uno sbarco tutto spagnolo

    Dalla Nave dei diritti, la sera di sabato 26 giugno, scendono circa 600 persone, i partecipanti allo Sbarco, l’iniziativa di un gruppo di italiani residenti all’estero. Molti di loro sono migrati per trovare lavoro, altri per seguire un compagno, altri ancora perché è capitato così. Tutti insieme sono arrivati al porto di Genova, ad attenderli un altro gruppetto di italiani, quelli rimasti qui, meno di quanti fossero loro stessi: il primo specchio di quello che attende chi voglia cercare di smuovere l’Italia, una gran fatica per ottenere poco, forse se l’erano dimenticato, vivendo altrove.
    Nelle piazze, di domenica, poche persone. I media hanno parlato quasi niente dell’iniziativa se non proprio all’ultimo, facendo mancare quel clima di aspettativa che è poi il successo degli eventi come questo. Suq, Festival della poesia, forse perché maggiormente supportati dalle istituzioni cittadine, sono stati spinti ovunque, e nonostante questo la presenza non è stata certo esplosiva come i primi tempi. Senza questo apporto, lo Sbarco ha sofferto, e molto. Un aneddoto per tutti: ad una settimana dalla data, la certezza della disponibilità di Commenda e Museo di Sant’Agostino era ancora dubbia.
    Nella Piazza delle differenze, alla Commenda, dopo qualche ritardo organizzativo inevitabile quando le iniziative sono giovani o alla prima edizione, comincia la musica, le letture. Il pubblico la mattina era atteso molto scarso, dopo la notte di festa di sabato al Porto antico, ma lo stesso flusso di persone, se così possiamo chiamarlo, tende addirittura a scemare nel pomeriggio.
    La sera a Matteotti, Rita Lavaggi, la “mamma” dello sbarco genovese, accusa senza mezzi termini. Accusa chi non ha voluto supportare l’iniziativa. Accusa, di fatto, gli italiani che non hanno capito. E ringrazia una per una le persone che hanno prodotto le due giornate.
    Forse, quando non si vogliono cercare le cause all’interno delle proprie fila, si cercano fuori. Però c’è a mio avviso una chiave di lettura che apre uno spazio diverso, pensando come un Primo marzo sia riuscito a smuovere, solo a Genova, quasi 10 mila persone, delle quali ben più della metà stranieri extracomunitari, mentre l’iniziativa tutta italiana, tra italiani, non abbia raggiunto il tetto di partecipazione sperato: forse abbiamo davvero bisogno del lavoro degli immigrati, non solo nella produzione ma anche nella società civile.
    (Stefano De Pietro)

  • OLI 265: SOCIETA’ – La fotografia in movimento del femminismo islamico


    Le donne col velo pongono un interrogativo continuo con la loro appartenenza religiosa permanentemente dichiarata in pubblico. Un’intera condizione culturale, esistenziale e sociale che rimbalza addosso alle “altre”. Così nelle nostre strade, espresso attraverso i vestiti, si svolge tra donne un confronto muto, monco, ambiguo.

    Sia quindi benedetta Gabriella Caramore che a “Uomini e profeti” (Radio3, sabato 12 giugno) cita il libro “Femminismo islamico. Corano, diritti e riforme” di Renata Pepicelli (Ed. Carocci – 12,5 €).
    Consiglio appassionatamente di leggerlo a chiunque voglia andare oltre la superficie delle differenze visibili, per scoprire quelle invisibili.
    Il libro parla delle trasformazioni del movimento femminista di area culturale islamica negli ultimi vent’anni. Infatti mentre fino agli anni ’80 “le battaglie delle donne si iscrivevano nel solco di un deciso e diffuso laicismo e all’interno di un più ampio progetto di realizzazione, nella regione araba, delle ideologie marxiste e socialiste”, successivamente “molte donne passano dalla critica all’Islam a discorsi di genere basati sulla re-interpetazione del messaggio religioso”.
    Una delle ragioni di questo cambiamento è il riaffermarsi della religione nella sfera pubblica e privata, e la conseguente “islamizzazione” del discorso politico. Per dare una risposta appropriata a questa trasformazione le donne iniziano a rivendicare il diritto di reinterpetare i testi sacri per decostruire le basi della misoginia nell’islam, si incontrano per studiare le sacre scritture senza l’intermediazione maschile, e generano una significativa produzione esegetica dei testi sacri da una prospettiva femminile. L’obiettivo è rompere col monopolio delle interpretazioni maschili, contestualizzare il Corano rispetto al periodo storico in cui è nato, e stabilire la differenza tra ciò che realmente prescrive l’islam da ciò che è invece frutto della tradizione.
    Le donne mettono a fuoco il grande attivismo femminile che caratterizza il primo periodo islamico (‘700), e il netto miglioramento nelle condizioni di vita rispetto all’età preislamica: proibizione di allontanare le donne mestruate dalle loro case, diritto alla eredità sia per le donne che per i bambini, divieto dei matrimoni forzati, condanna dell’infanticidio femminile, imposizione che la dote sia di esclusiva proprietà della donna e non del padre o del fratello, limitazione a quattro del numero delle mogli e introduzione del principio di equità ed eguaglianza nel loro trattamento, in un contesto storico in cui sposare più donne era finalizzato a prendersi cura delle vedove, degli orfani e dei loro beni.
    Il movimento delle femministe islamiche non si sostituisce all’attivismo di genere delle donne che agiscono al di fuori dei rifermenti religiosi, ma si affianca a questo contribuendo a diversificare il panorama delle lotte di genere all’interno del mondo islamico. Dice l’autrice: “Se si volesse provare a fare una fotografia del movimento delle femministe verrebbe fuori una immagine mossa, con persone che stanno per entrare nella inquadratura ed altre che stanno per uscirne. Soggetti nitidi, ed altri no; gruppi di persone e individui isolati. Se già un anno dopo si provasse a fare la stessa fotografia, essa risulterebbe diversa”.
    Fatima Mernissi (www.mernissi.net) osserva che “l’Occidente non è capace di cogliere la complessità del mondo arabo musulmano che è sì attraversato da ondate di maschilismo, ma anche da importanti trasformazioni che stanno riformulando il rapporto tra i generi”.
    Il libro di Renata Pepicelli è prezioso per avvicinarsi a questa complessità. 
  • OLI 264: SOCIETA’ – Razzismo insinuante

    Il nuovo razzismo, quello più pericoloso, non dichiara apertamente la propria natura. Non dice di essere contro i migranti, i neri, i rom, i musulmani, gli ebrei in quanto tali. Hitler ed il regime dell’apartheid in Sud Africa, grazie a dio, sono stati sconfitti. Il nuovo razzismo ha imparato a nascondersi, preferisce esordire con la frase “non sono razzista, ma …”, dopo di che possono seguire una marea di parole di ogni brutalità. Non sono razzista “ma i migranti rubano il lavoro, sono ladri, vendono droga, stuprano le donne” … ecc. In certi casi le frasi con il “ma” fanno anche morire dal ridere (per non piangere) come quella raccolta da un giornalista di l’Unità nei primi anni novanta: “Io non sono razzista, sono loro che sono arabi”.
    Alcuni razzisti dopo aver articolato e dettagliato cose evidentemente false contro “gli altri” si permettono di spingersi a dire: “Se questo è razzismo allora sono razzista”. Per certe figure (ministri, preti, ecc.), non completamente stupide, la regola è nascondere totalmente il proprio razzismo. Ma anche loro alle volte scivolano e dicono cose che fanno ridere.
    Don Valentino Porcile, parroco di una delle chiese di Cornigliano, ha scritto una lettera per allontanare i Rom dalla propria parrocchia. Dice al Secolo XIX del 3 giugno che non c’entra il razzismo contro i Rom: “ Qui la razza non c’entra nulla, è in ballo solo la sicurezza e la tranquillità di persone deboli e anziane … Tempo fa, quando il pericolo e le intimidazioni furono portati da un gruppo di sudamericani, non esitai a prendere una posizione simile nei loro confronti”.
    Tempo fa, inoltre, don Valentino Porcile era sempre in testa alle manifestazioni contro la moschea a Cornigliano, non certo perché è contro il diritto di culto dei musulmani, assolutamente no, ma per questioni di traffico, parcheggi e cose del genere.
    Mi chiedo cosa direbbe Gesù ad un parroco che allontana i deboli dalla propria parrocchia. I musulmani credono che Gesù non sia morto, ma sia vivo in cielo e per la maggior parte di loro un giorno ritornerà e tornerà sulla terra per guidare la vittoria finale del bene contro il male. Visto che il suo ritorno non sembra imminente, non c’è nessun altro, a parte Don Gallo, sulla terra di Genova che possa spiegargli che per un sacerdote la “mia gente” sono tutti?
    (s.z.)
  • OLI 264: SOCIETA’ – Igiene mentale post partum

    Repubblica 4 giugno. Proposta dei ginecologi: “Trattamento obbligatorio per le neomamme depresse”.
    L’idea arriva al Ministro della Salute Fazio da Giorgio Vittori, presidente della Sigo (Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia) e da Antonio Picano, presidente dell’associazione Strade onlus.
    “Un’equipe specializzata potrebbe occuparsi 24 ore su 24 delle donne con comportamenti potenzialmente omicidi”.
    Pare che nel nostro paese ne abbiamo bisogno circa mille pazienti per anno.
    Della sostanza della proposta si preoccupa Maria Burani Procaccini, già presidente della Commissione Bicamerale Infanzia, che si dichiara “fermamente contraria all’uso del Tso per le mamme depresse, non come linea di principio, ma perché dietro la richiesta di Tso non c’è azione preventiva, non ci sono strutture degne di questo nome che affrontino il problema della depressione femminile”
    Pare che, con una piccola modifica della legge 180, il Tso potrebbe essere effettuato in comunità terapeutiche come dichiara Tonino Cantelmi, presidente dell’Associazione Italiana Psichiatri Cattolici e che esistano “Già test specifici da somministrare alle donne durante la gravidanza, che permettono di individuare quelle a rischio di cadere in depressione dopo il parto” precisa Cantelmi ad Avvenire.
    Altre dichiarazioni delineano un’azione morbida con la presenza di “operatori qualificati, anche un infermiere, che resta al fianco della mamma 24 ore su 24 per proteggerla e allo stesso tempo accudire il proprio figlio”. Come un Angelo Custode.
    In nessuna delle dichiarazioni viene messa in luce l’atroce solitudine di molte donne per le quali basterebbe un luogo dove confrontarsi, parlare ed essere ascoltate.
    Un luogo che non sia il quadrilatero dei giardinetti sotto casa. Dove approdare 24 ore su 24 se ne sentono il bisogno.
    Che bella iniezione di vita la presenza di mamme e bambini nei reparti psichiatrici del territorio nazionale, dove atterrerebbero le mamme “certificate depresse” in mancanza di comunità terapeutiche in grado di accoglierle. Un balsamo per pazienti, familiari e personale medico, che tra una seduta, la terapia farmacologica e la TV potrebbero confrontarsi con il cambio dei pannolini, il pianto e le poppate notturne dei neonati. Come in una favola di Gianni Rodari.
    Sì. Tutto sommato l’idea di Vittori e Picano è davvero geniale, una Basaglia rinforzata.
    C’è da augurarsi che propongano, per il contenimento delle spese e il rinnovamento della sanità, l’unificazione immediata dei reparti di psichiatria e maternità. Uno scoppiettante scenario pieno di follia e vita.
    (g.p.)
  • OLI 258: SOCIETA’ – Ma l’etrusco lo potrei usare?

    “Ciao, oggi sono stato al forum piscarium e ho comprato delle triglie bellissime”, “guarda che giù al forum coquinum non si risparmia mica”, “al macellum del venerdì in piazza Ottaviano c’è davvero di tutto”. Strano, vero, che come si usa fare le parole latine non siano state scritte in corsivo. E’ il possibile effetto della proposta della deputata leghista Silvana Comaroli (*), consentire il commercio solo a chi parla bene l’italiano e vietare le insegne in lingue che non siano comunitarie, forse dimenticando che si potrebbero trovare insegne scritte in lingua rumena (ohibò, che svista), nel comprensibilissimo danese, per non parlare del greco. E che ne sarà del lituano, del polacco? Se saranno ammesse il catalano, il basco, l’irlandese di Dublino, non è dato ancora saperlo.
    Potranno essere usati anche tutti i dialetti italiani, ma solo nella regione di competenza, il che lascia presumere che ci potremo dimenticare la pizzeria “Dicitencello vuje” a Milano, o il ristorante “A madunina” a Palermo. Stop insomma allo scambio fonetico.
    Una possibile soluzione, la propongo io per salvare la situazione, sarà di aggiungere al decreto l’articolo correttivo finale: “o la lingua dalla quale le altre derivino”, ossia il latino. Da lingua morta a lingua ufficiale della politica italiana, altrettanto morta. Dopo le messe in latino che spuntano qua e là per lo stivale, potremmo cominciare ad avere i consigli comunali in bergamasco o latino, in piemontese o latino, in genovese o latino. Visto? La cosa è presto risolta, per insegne, parlamento, consigli regionali, provinciali, comunali e municipali, modulistica, pubblicità elettorale. Proporrei, nei casi nei quali l’assemblea condominiale sia fatta di persone extra UE, l’uso dell’esperanto obbligatorio. Tutti, amministratori, inquilini, politici, presidenti, commercianti, con regolare certificato di frequenza emanato da ente autorizzato.
    Bene, finite le barzellette delle proposte di legge fatte ad mentulam canis, torniamo a vedere la bellezza di non capire nulla di “arabo”, entrare nel kebab e chiedere, masticando il panino multirazziale: “ma che diavolo c’è scritto nella tua insegna?”. Si chiama “convivenza multietnica”.

    *http://www.camera.it/29?shadow_deputato=302764

    (s.d.p.)